ASCOLTARE PER DIALOGARE
Premessa
indispensabile a ogni vero dialogo è un rapporto non
giudicante con l’altro, un rapporto che matura in un paziente tirocinio di
silenzio e di ascolto.
Ci sono due modi di ascoltare.
l primo «consiste nell’impossessarsi dei discorsi
dell’altro per metterli al servizio della propria tesi e dei propri interessi;
il secondo consiste nel sentire l’altro, nel capire da dove parla, nell’andare
verso di lui» (B.Schwartz). Il dialogo non può che prendere le mosse da una
lettura corretta dell’altro: cosa che non capita troppo spesso... Non siamo abituati ad ascoltarlo, l’altro.
Non siamo più abituati ad ascoltare in generale, per la marea di rumori,
brusii, avvertimenti sonori nei quali siamo quotidianamente immersi.
Non siamo abituati ad ascoltare né Dio, né gli uomini, né la voce della
terra e nemmeno noi stessi, in ultima analisi. E
soprattutto il primo, di tali handicap, è particolarmente grave.
«Il dialogo interreligioso non è mai unilaterale, né solo bilaterale
(io-tu), ma è tridimensionale. Dio, il divino, l’Assoluto è il terzo e decisivo
partner del dialogo: è il Maestro interiore di ogni
interlocutore e l’approdo definitivo cui mira ogni ricerca religiosa autentica.
In tal modo il dialogo è espressione di comunione e del desiderio di aprire il
proprio cuore perché l’altro vi entri»(G. Favero).
A dar retta alle sacre Scritture, ascoltare (Dio o gli uomini) significa
riconoscere che la voce dell’altro – invece – non è un rumore fra i tanti, ma
la rivelazione di un «io». La più profonda verità biblica, probabilmente, è
appunto che l’altro esiste, è di fronte a noi e ci chiede
di essere riconosciuto come persona: perché egli è perduto per noi, e noi per
lui, se fra noi mancano la parola, il dialogo e l’ascolto vicendevole.
L’ascolto, anche in chiave puramente antropologica, implica una differenza:
solo accettando di ascoltarlo noi siamo in grado di apprendere dall’altro
qualcosa che non conosciamo e che ci potrebbe arricchire, qualcosa che lo rende
assolutamente diverso da noi. Non è casuale che la giustizia giusta imponga
l’audizione dell’indagato oltre che dell’accusa, mentre la giustizia ingiusta
(quella delle dittature e degli assolutismi di ogni
risma) nega l’ascolto, perché nega l’altro.
Più di un detto rabbinico, in consonanza con il grande
filone sapienziale di tutti i tempi, ci impone di non condannare nessuno se non
ci si è trovati nella sua stessa situazione: ciò che fece Dio in Gesù di
Nazaret, che sperimentò per conto di Dio l’essere uomo, la fondamentale
fragilità della creatura e persino l’estremo schiaffo della morte ignominiosa.
Per questo dovrebbe risultare quanto mai arduo
giudicare chiunque!
Da tale punto di vista, l’ascolto è il rapporto non giudicante con l’altro:
virtù che implica un’educazione lunga, faticosa, un autentico paziente
tirocinio, che in qualche modo possiamo ritenere una
sorta di premessa indispensabile al dialogo e a qualunque ricerca della verità.
Per apprendere a dialogare, dunque, credo sia necessario
coltivare una spiritualità fondata sull’ascolto e sul silenzio.
La familiarità con la Bibbia – un’altra preziosa eredità del concilio – ci insegna in primo luogo ad ascoltare: «Shemà, Israel»,
«Ascolta, Israele!» (Dt 6,4) è, com’è noto, la preghiera più cara al fedele
ebreo, quella più intima e ricorrente.
Lo stesso Gesù riprese spesso tale invito: «Ascoltate» (Mt 4,3), «Se uno ha orecchi per
intendere, intenda» (Mt 4,23).
L’ascolto, però, presuppone il silenzio; e qui è appena il caso di
evidenziare l’odierno bisogno di silenzio e l’estrema difficoltà di viverlo, in
una società come la nostra, in cui dappertutto domina il rumore di fondo e persino nella celebrazione eucaristica se ne
percepisce il timore. Tanto che lo sentiamo come disdicevole, e regolarmente
qualche pio liturgista si affretta a romperlo, con un canto, una spiegazione o
un commento a quanto sta accadendo.
Abbiamo paura del silenzio, in fondo, così come abbiamo paura dell’ascolto,
perché ci mettono in crisi, costringendoci a rivedere le
nostra presunte certezze. Come ama ricordare C. M.
Martini, nell’episodio biblico del profeta Elia nella caverna del monte Horeb
la voce di Dio non si manifesta né nel vento impetuoso né nel terremoto
e neppure nel fuoco, bensì «in un sottile mormorio di silenzio» (1Re 19,13).
Il silenzio apre il cuore e la mente all’ascolto
di ciò che è essenziale e vero.
Brunetto Salvarani
da Vocabolario minimo
del dialogo interreligioso,
EDB 2003