IL BURUNDI DOPO PRETORIA

PACE MA SARÀ VERO?

 

Gli accordi di pace segnati a Pretoria e confermati a Dar es Salaam potrebbero essere l’inizio di una nuova fase. Ma le ragioni per temere sono molte. La storia recente lo insegna.

 

Il Burundi, come del resto tutti i paesi dell’Africa centrale in guerra, non fa più notizia. Per quanto questo sia triste, bisogna rassegnarvisi. Ma qualche organo di stampa nei primi giorni di novembre ha dato risalto alla notizia dell’accordo di pace firmato a Pretoria in Sud Africa tra il 7 e l’8 ottobre 2003, sotto gli auspici di Thabo Mbeki, presidente del Sud Africa e del suo vice, Jacob Zuma.

Finalmente pace in Burundi, dopo un decennio di guerra civile così inizia un articolo su Rocca dell’1 novembre 2003. E dopo la firma di un Protocollo aggiuntivo tra il presidente della Repubblica del Burundi, Domitien Ndayizeye, e Pierre Nkurunziza, capo dell’opposizione armata, Comitato nazionale di difesa della democrazia (CNDD/FDD) il 3 novembre u.s., Kofi Annan, segretario generale dell’ONU se ne è rallegrato e ha invitato tutti i combattenti a unirsi a coloro che hanno firmato l’accordo per restaurare la pace in Burundi. Se è vero poi, come si legge in MISNA del 7 novembre scorso, che gli analisti considerano l’intesa di Pretoria “più solida delle altre” che si sono susseguite in questi ultimi tempi, come non rallegrarsene? I segni positivi continuano. A Dar es Salaam (Tanzania) nel corso di un vertice regionale, è stato varato il piano di pace che dovrebbe essere quasi definitivo. Così lo definiva La Croix del 17 novembre 2003.

 

DOPO DIECI ANNI

DI GUERRA, MA…

 

Anche noi vorremmo unirci nella gioia per questo traguardo raggiunto. La guerra in Burundi è stata già anche troppo lunga e troppo costosa in termini di vite umane e di distruzione di strutture civili (scuole, ospedali, ambulatori, cooperative ecc.) e di occasioni sprecate. La popolazione è allo stremo e nulla sarebbe più auspicabile che la fine delle ostilità e la ricerca di un accordo su cui costruire il futuro di questo piccolo paese che sembra destinato a essere sempre in guerra. Dalla data della sua indipendenza 1 luglio 1962, anzi prima ancora di essa, il Burundi non ha mai goduto un decennio di pace. Il più recente capitolo di questa storia di stragi continua da quando il 21 ottobre 1993 il primo e unico presidente democraticamente eletto è stato assassinato da un gruppo di militari.

I morti di questi dieci anni sono oltre trecentomila. Ma quanti più sono quelli che, senza essere stati materialmente uccisi in battaglia, sono vittime di questa sciagurata guerra! Malnutrizione, improvvisi e continui spostamenti della popolazione, vita nei campi di raccolta dei rifugiati, scuole che funzionano a singhiozzo, ospedali che non possono lavorare, mancanza di medicine … Chi potrà mai contare quanta gente ha sofferto e quanta ne è già morta a causa di questa guerra?

La strada delle armi non risolverà mai questa situazione di conflitto sociale e etnico. L’unica speranza possibile è nelle trattative e nel dialogo che richiede, ovviamente, dei compromessi. La voce delle armi non ha seminato finora che disperazione e morte.

 

LA SPERANZA

NON VIENE MENO, MA…

 

Per questo ogni accordo di pace viene accolto con speranza, ma con una speranza che purtroppo tende a esaurirsi progressivamente sotto i colpi della delusione che segue di fatto ogni accordo. Si direbbe che ci sia il destino malvagio che fa fallire ogni ricerca della pace in Burundi. Infatti a ogni accordo di pace manca sempre qualcuno che dovrebbe essere presente e che non mette quindi la sua firma sotto le clausole trovate e faticosamente pattuite. Negli accordi di Arusha del 2000 avevano firmato il Governo di Bujumbura e i partiti politici, ma mancavano i ribelli. In quelli di Dar es Salaam del dicembre 2002, mancavano una parte del CNDD e il Fronte nazionale di liberazione (FNL). In questi ultimi accordi firmati dal nuovo presidente della Repubblica, Domitien Ndayizeye, del FRODEBU (partito a maggioranza hutu), insieme con Pierre Nkurunziza, capo del CNDD/FDD manca ancora il gruppo del Fronte nazionale di Liberazione di Agathon Rwasa che non vuol venire a patti malgrado le pressioni del segretario dell’ONU Kofi Annan.

Dopo ventitre vertici falliti, dopo il cessate-il-fuoco firmato l’anno scorso a dicembre e subito violato, quest’ultimo accordo di Pretoria non sembrava essere tanto facile. Invece ha vinto la prospettiva della ridistribuzione del potere, una formula escogitata dal presidente Nelson Mandela, che nel 1999 aveva preso in mano la mediazione nel conflitto burundese succedendo al defunto presidente Julius Nyerere. Con l’aiuto di esperti del Sud-Africa e dell’Uganda e sotto la pressione delle altre nazioni della regione, le due parti sono riuscite ad arrivare ad un accordo. Ora gli uomini del CNDD-FDD entreranno nel governo di Ndayizeye e avranno quattro ministeri. E ne è stata fissata la data: il 24 novembre 2003. Avranno tre governatorati di provincia e due ambasciate e dirigeranno cinque imprese pubbliche. La polizia e l’esercito vedranno integrate quote consistenti di ex-ribelli. La ridistribuzione generale avverrà su base etnica e le elezioni generali per la scelta delle cariche istituzionali (presidenza della repubblica e parlamento) sono state confermate per la data fissata già dall’accordo di Arusha dell’agosto 2000, per il mese novembre del 2004. Tutto sembra così bello … da essere irreale! Sarà possibile?

 

LE RAGIONI

PER TEMERE

 

Le ragioni per questa paura sono parecchie. Anzitutto i problemi sono stati decisi sulla carta, ma una cosa è scrivere e firmare delle carte, per quanto importanti e solenni, e un’altra è realizzare quello che si è firmato. La storia recente ci induce a credere che in Africa gli accordi strappati dalla diplomazia non durano molto, anzi spesso sono disattesi nello stesso momento in cui vengono firmati. Basta ricordare gli accordi ripetutamente firmati per la Repubblica democratica del Congo a Sun City e a Pretoria …

In secondo luogo finché non ci saranno tutti a dire insieme no alla guerra, la guerra continuerà, con un rischio aggiunto: che essa si combatterà anche tra coloro che sono all’opposizione dando in questo modo pretesti alla minoranza al potere per rimanervi e per non abbandonare il paese in mano alle guerre intestine, come si sentiva dire in Buurndi quando si trattava di passare il potere da Buyoya a Ndayizeye. È un pretesto, ma la realtà della guerra non si fonda solo sulle ragioni… ragionevoli né ragionate.

Infatti, proprio in queste settimane si vede che la guerra continua e, da una parte e dall’altra, si accusa la parte opposta. Ma in fondo coloro che cercano la confusione per continuare a fare quello che vogliono e hanno sempre fatto, non cercano niente di meglio. Ma anche se all’interno del paese sembra che ci sia più pace, tuttavia a Bujumbura si respira il terrore, secondo un operatore umanitario che lavora nella capitale: «C’è qualcosa di particolare nell’aria. Si avverte la sensazione di uno strano vuoto di potere e la gente sa che questo non preannuncia niente di buono», continua la stessa fonte riportata da MISNA. «Spariscono nel nulla ragazzi di etnia hutu, molti altri giovani invece vengono giustiziati sul posto. Per tutti l’accusa è di essere fiancheggiatori e membri delle FNL». Si continua a morire senza sapere perché e i timori della gente non sono affatto infondati!

Non si deve dimenticare che il capitolo più delicato di questo momento di transizione e di ridistribuzione, è quello che prevede il rinnovamento della polizia e soprattutto dell’esercito, in cui dovranno essere integrati gli ex-ribelli. Questa è davvero un’impresa cui nessuno oserebbe mettere mano, dati i rischi che essa comporta. È indiscutibile che l’entrata nella polizia e nell’esercito di un certo numero di militari provenienti dall’opposizione esige l’uscita di altrettanti che diventeranno dei pericolosi disoccupati. La criminalità di quartiere, che già pone tanti problemi, avrà nuova manodopera e la pace farà molta fatica a stabilirsi.

C’è poi un partito che si chiama PA (Potere di autodifesa) detto in kirundi dei Masekanya (i “duri”) che ha rifiutato ogni accordo di pace e che si prepara a dare battaglia a coloro che tentano di imporre la pace. I membri di questa organizzazione, che sono in generale dei giovani di una sola etnia, armati e pronti a tutto, hanno già seminato paura e morte negli anni 1995-96 a Bujumbura assassinando gli oppositori politici e anche gente comune con l’unico intento di creare il terrore e impedire una pacifica condivisione del potere.

Rimane infine il problema del rientro dei rifugiati dai paesi limitrofi (Tanzania, Zambia, Congo) e la necessaria ridistribuzione delle terre. Anche recentemente la Tanzania ha chiesto che i rifugiati che si trovano dentro le sue frontiere e che sono un mezzo milione, rientrino in Burundi. Il Governo di Bujumbura afferma che i rifugiati rientrano regolarmente, ma nessuno dice che questo rientro pone, di fatto, dei problemi enormi e difficilmente risolvibili. Coloro che rientrano e che cercano di nuovo la loro terra, la trovano oggi occupata da altri, spesso su di essa sono state costruite delle case in duro: è difficile far sloggiare chi vi si trova da qualche anno. Come fare a rivendicare la loro proprietà e la possibilità di avere una vita normale, in una terra, l’Africa, dove la terra dei padri ha un significato che noi occidentali non sappiamo valutare.

La terra è il principio della pace. Per questo si può affermare che i problemi più gravi sono quelli che verranno dopo la cessazione delle ostilità. Possiamo per questo cessare di sperare? Neppure per sogno. Che cosa resterebbe da fare?

 

Gabriele Ferrari s.x.