QUANDO IL CARISMA DIVENTA DONO

UNA SCELTA PER IL FUTURO

 

Queste riflessioni hanno lo scopo di chiarire il senso di alcuni termini quali comunità, famiglia,

fraternità, integrazione, non tanto considerati in se stessi, ma in riferimento a un preciso progetto,

a una comunità integrata.

 

Attualmente quasi tutti gli ordini e congregazioni nei loro capitoli parlano di “famiglia carismatica”. Di famiglia vengono detti i collaboratori, i cooperatori, gli ex-allievi, i devoti del fondatore/trice, i simpatizzanti. Tutte categorie di persone che con-sentono con il carisma ma non necessariamente hanno la forza di collocare il carisma nel futuro: infatti questo è il motivo del tanto parlarne nei capitoli.

Oggi in alcuni istituti sta maturando anche un nuovo modo di pensarsi e di “esserci” all’interno della “famiglia”, secondo cui diventa rilevante il concetto di integrazione e di comunità.

 

Per comunità integrata (in senso stretto) si intende un insieme di persone, (religiosi e laici), che a partire dalla condivisione di una spiritualità1 si esprime con un progetto sulla linea del sentire e dell’agire del fondatore di un carisma, inserito nell’ampio ambito ecclesiale e sociale di un determinato territorio.

Innanzitutto è una comunità. La prospettiva comunitaria nasce dalla decisione di condividere una certa visione dell’ esistenza che va a definire un modo di essere e di fare, meglio espresso con il termine “stile di vita” coerente con i tratti carismatici.

Con l’espressione condividere una certa visione della vita non si intende soltanto la visione spirituale, ma anche il senso della progettualità comunitaria e del leggere insieme le sfide, di orientare le scelte, dell’interrogarsi come comunità in rapporto al territorio.2

Il principale costo per una missione condivisa tra religiosi e laici è costituito dalla fatica di tradurre la diversità e complementarietà di questo binomio.

 

La forma di vita comunitaria non va desunta dal modello di comunità dei religiosi/e ma andrà a darsi una prassi di compartecipazione, riconoscibile dai periodici incontri di fraternità, di preghiera, convivialità, progettualità.3

La comunità dice appartenenza più che riferimento (come nel caso del gruppo), anche se la diversità può non consistere nel numero degli incontri o delle cose che si fanno insieme ma dal grado di riconoscimento in essa e dalla tensione ideale.

Il termine integrata associato a comunità va inteso secondo le due accezioni di integrazione e di integrezza.

Nel primo senso, di integrazione, significa incontro di due realtà diverse che, a partire da una spiritualità (carisma), diventa riconoscimento di un legame di appartenenza vicendevole e poi impegno.

Questa è una rilevante novità. Non è novità che dei laici si organizzino per vivere una spiritualità vissuta dai religiosi; è novità il fatto che laici e religiosi si costituiscano comunità per vivere la stessa spiritualità e le stesse finalità apostoliche. «In questo ambito più ristretto non è sufficiente, anzi sarebbe improprio, parlare soltanto di animazione o assistenza spirituale da parte dei religiosi. Dalla scoperta di vocazionalità nuove deriva una vera reciprocità spirituale e apostolica, rispettosa delle caratteristiche complementari di ciascuna realtà».4

Segno della comunità che ha fatto la scelta della integrazione è dato dal sentire che ognuno cresce nell’esercizio dello scambio di doni che sono quelli della laicità e della consacrazione.

 

RELAZIONE

FATTA COMUNIONE

 

Questo tipo di comunità si fonda sull’idea di famiglia che esige innanzitutto interrelazione, reciprocità, consonanza, prossimità, risonanza affettiva. L’aggiunta della connotazione “in senso stretto” dice che rilevante dev’essere il grado di prossimità e di mutualità, di relazione fatta di comunione e di comunicazione interpersonale che è molto più esigente di una generica familiarità.

Il concetto di integrazione si estende necessariamente anche al territorio intendendo con questo termine lo spazio entro cui le persone giocano la propria vita: allora comunità integrata indica anche l’insieme di due vocazioni (laici e religiosi) che si incontrano nella normalità e nella quotidianità di vita di un dato ambiente geografico e un preciso contesto dove già si è Chiesa, si fa Chiesa.5

Per i religiosi, lavorare in un’ottica di integrazione nel territorio, con i laici, significa accettare di giocare “fuori casa” in una collocazione che non è il servizio ma i luoghi di vita delle persone.

Il secondo significato di “integrata” allude a integrezza. Vale a dire che un dato carisma tende al suo compimento nell’insieme della dimensione religiosa maschile, femminile e laicale.

Allora per comunità integrata si intende una realtà nuova in cui si dilata e si arricchisce il carisma spirituale e apostolico del fondatore.

Questa è la seconda grande novità: «La ricchezza di un carisma si manifesta in pienezza quando si concretizza nei diversi modi di vivere la vita cristiana e fa maturare una comunione di vocazioni».6

Quanto espresso conduce a dire che il carisma nelle sue due dimensioni, spirituale e apostolica, per poter essere dono alla Chiesa nella pienezza delle sue potenzialità, non soltanto concede spazi ma necessita di complementarietà, «perché la sua ricchezza si esprime oggi sempre più pienamente nella Famiglia».7

Per parte dei laici e dei religiosi partecipare al carisma significa, assumendone la globalità, condividerlo in qualche suo aspetto, come parte di un tutto con il quale confrontarsi, integrarsi, sistematizzarsi, senza confondersi. Conseguentemente il punto di convergenza e di incontro non è il carisma d’istituto, ma il carisma del fondatore. Il carisma fondazionale (e non d’istituto) è l’elemento germinale e poi normativo. Dunque la comunità integrata converge verso il carisma e, a partire da questo, si configura con identità propria.

 

SCAMBIO DI DONI

NELLA RECIPROCITÀ

 

I rapporti con l’istituto devono andarsi a configurare come scambio di doni nella reciprocità e nella complementarietà delle vocazioni ecclesiali. «La reciprocità nella Chiesa non è mai a senso unico» (Ripartire da Cristo, 31). Il cammino è da sintonia a reciprocità e non subalternità, per il fatto che i laici non vanno a configurarsi come oblati o affiliati all’istituto.8 Questo tipo di comunità nasce dall’incontro di vocazioni diverse che tali devono rimanere e non dal configurarsi. Solo così «possono ritrovare il giusto rapporto di comunione e una rinnovata esperienza di fraternità evangelica e di vicendevole emulazione carismatica, in una complementarietà sempre rispettosa della diversità» (RdC 31). Questo è il fine dei carismi: creare una laicità carismatica, diversamente significa, prima o poi, la fine del carisma.

Da quanto detto due cose dovrebbero apparire chiare: innanzitutto che una siffatta comunità non è da confondersi con un gruppo di spiritualità o un gruppo verso cui il religioso/a si protende per fare dell’apostolato; in secondo luogo, che la comunità integrata non si costruisce unicamente con occasionali incontri festosi (siano essi di preghiera, commensalità, scambio di vedute o cose da farsi insieme), di tanti, da tante parti in cui il più si esaurisce in uno stile di vita simpatico.

La comunità integrata è frutto dell’incontro di domande diverse e convergenti: da parte dei laici c’è una domanda di spiritualità carismaticamente connotata, arricchita di dimensione laicale; capace di produrre stili di vita, risposta ai bisogni del tempo. Una spiritualità in cui il rapporto con Dio, oltre a essere esperienza individuale, sia esperienza che passa attraverso un rapporto con le persone. Da parte dei religiosi la domanda che incrocia quella dei laici è di considerare questi, soggetto di missione, titolari di ministerialità.

Dunque queste due domande sono convergenti ma nello stesso tempo differenti: per gli istituti religiosi la prospettiva è di una nuova forma di vita consacrata, per i laici di essere opportunità di vita evangelica. Varie difficoltà possono nascere dal non tener conto della diversità delle due prospettive come avviene quando un istituto, tendenzialmente portato all’autoreferenzialità, scivola nel voler inquadrare a partire da sé queste esperienze.

Tale precisazione è da tenere ben presente perché il significato più immediato per una istituzione è quello di intenderlo (pensando ai laici) come “inseriti”, “adattati”. La tentazione è di radicare il laicale nel sistema religioso piuttosto che il religioso (spiritualità carismatica) nel laicale. È la tentazione delle strutture forti quella di fare degli altri delle persone conformizzate. La vita consacrata non è la destinataria ultima di una data spiritualità ma è solo tramite verso la Chiesa e il mondo, per cui la freschezza di una spiritualità non può essere costretta nei piccoli spazi di un mondo (la vita religiosa) in difficoltà. L’incontro allora deve avvenire “fuori le mura” (mentali).

All’origine ci deve essere il cammino di laici e di religiosi che abbiano un preciso progetto di famiglia le cui linee guida siano riconoscersi, identificarsi, incontrarsi9 e la strategia sia quella di un cammino di vera e profonda fraternità, ossia una familiarità che renda possibile lo scambio di doni secondo lo specifico di ognuno a partire dal presupposto che come religiosi «non solo abbiamo qualcosa da dare ma anche molto da ricevere»10, specialmente quello di riesprimere in situazione di secolarità il nostro bagaglio spirituale a partire dalla consapevolezza che le risposte di ieri non bastano più.

È dunque tempo di versione secolare del carisma: «quando la comprensione di questo si approfondisce si scoprono sempre nuove possibilità di attuazione» (Rdc 31).

 

IL CORAGGIO

DELL’INTRAPRENDENZA

 

«È una opportunità data alla vita religiosa di ricuperare il suo compito essenziale di lievito, di fermento, di segno e di profezia» (RdC 13) specialmente oggi, in cui «le persone consacrate sono obbligate a cercare nuove forme di presenza e a porsi non pochi interrogativi sul senso della loro identità e del loro futuro» (RdC 12). Il futuro di un istituto è posto nel “coraggio dell’intraprendenza e dell’inventiva per rispondere all’oggi e il punto di partenza è l’accoglienza di queste alleanze profetiche, come una questione radicale per la sua esistenza.

Si tratta di imparare sempre più a condividere con i laici i carismi, intraprendendo nuovi percorsi di comunione. E allora la domanda è: siamo capaci di accettare nuove espressioni del carisma? E, in particolare, in versione laicale? Non è sufficiente la risposta data con le abbondanti affermazioni dei testi capitolari ma dal sapersi confrontare con una configurazione più collegiale tra vocazioni diverse, con conseguente corresponsabilità allargata a tutti, in prima persona, traduzione concreta dei principi di partecipazione, di comunione, solidarietà.

Carisma laicale significa una nuova lettura carismatica della laicità, in cui i nuovi rapporti tra religiosi e laici «devono incarnarsi in forme nuove, paritarie, da immaginare, da inventare». A tale scopo è necessario tener presente che difficilmente può essere nuovo ciò che deve fare riferimento a livelli decisionali estrinseci al nuovo che nasce e che il nuovo conforme è una contraddizione.

Per questo tipo di progetti sono richiesti nuovi sistemi comunicativi (autorevoli piuttosto che autoritari): il laico contemporaneo non predilige sistemi organizzativi complessi, inevitabilmente caratterizzati da spinte spersonalizzanti e che creano dipendenza. La configurazione, anche se andrà a definirsi giuridicamente, sarà meno verticistica e più collegiale. Si poggia sul progetto piuttosto che sulla norma, e il patto nasce da un incontro di libertà che si riconoscono in «una impresa di eguali alla ricerca della volontà di Dio» (Joan Chittister) e non dal configurarsi a predefinizioni e paradigmi di tipo istituzionale.

In una comunità di tipo familiare, (che non sia la famiglia naturale), le relazioni sono conseguenza di un patto. Questo termine indica che le relazioni che vanno a definire una ben unita famiglia sono conseguenza di una intesa, da rinfrescare poi continuamente, nella consapevolezza che l’essere fratelli è riconosciuto non per un riferimento istituzionale, ma solo se si vivono le stesse istanze accomunati da una identica idealità.

È irrinunciabile che la comunità si costruisca sulla relazione e sulla spiritualità ma è anche vero che qualsiasi tipo di vita comunitaria non può fiorire se non esiste anche per uno scopo al di fuori di questa. Essa non è possibile che come conseguenza di un impegno profondo verso un’altra realtà, al di là di quella di essere comunità. Questo scopo al di fuori di essa si chiama progetto.

O per dirla con J.Vanier: «Se non sono chiari gli scopi e se non si è chiari sul perché della vita comunitaria ci saranno presto dei conflitti e tutto crollerà. Come nel matrimonio: non basta scegliere di vivere insieme, bisogna sapere quello che si vuole fare insieme,11 quello che si vuole essere insieme: necessita un progetto di vita. È possibile soltanto come conseguenza di un impegno profondo verso un’altra realtà, al di là di quella di essere comunità».

 

Rino Cozza csj

 

1 Per spiritualità si intende un rapporto personale con Dio che orienta gli atteggiamenti interiori e la prassi di vita.

2 le varie componenti del popolo di Dio «possono e devono unire le loro forze, in un atteggiamento di collaborazione e di scambio di doni per partecipare più efficacemente alla missione ecclesiale» (Vita Consecrata 54).

3 Comunità non postula necessariamente la coabitazione tra famiglie di laici e religiosi.

4 P.L. Pierini, sup. gen. dei Giuseppini del Murialdo.

5 «la VC concluda la sua diuturna stagione dell’utilità per passare a quella della profezia» (riflessione di p. Bisignano al termine del suo mandato di presidente Cism).

6 Capitolo generale XIX dei Giuseppini del Murialdo.

7 ib.

8 «è una fraternità vissuta nel vicendevole arricchimento carismatico» (RdC 7).

9 P. Pierini, sup. gen. dei Giuseppini del Murialdo.

10 Capitolo generale XIX dei Giuseppini del Murialdo.

11 “insieme” non significa che tutti e sempre debbano fare le stesse cose, nello stesso ambiente.