ANCHE GLI ISTITUTI POSSONO MORIRE

FORTI NELLA DEBOLEZZA

 

“Lazzaro, vieni fuori!” è il titolo di questa conversazione che p. Timothy Radcliffe, ex priore generale dei domenicani, ha tenuto ai religiosi/e della Svizzera. Come vivere l’eventualità della scomparsa di alcuni istituti religiosi?

 

Come muoiono gli individui, così anche gli istituti e le congregazioni religiose possono scomparire. Non è la prima volta che ciò avviene nella storia; anzi gli esempi non si contano. A nessuno infatti è stata garantita un’esistenza “eterna”. Bisogna pertanto essere disposti ad accogliere anche questa eventualità, per quanto dolorosa, e viverla nella fede. Sappiamo infatti che, nei disegni di  Dio, dalla morte nasce la vita. Occorre perciò cooperare affinché questa vita torni a fiorire. Ma come? Ce lo spiega p. Timothy Radcliffe, in questa conversazione tenuta alla Conferenza dei religiosi/e della Svizzera, lo scorso mese di settembre. La situazione a cui si riferisce, con tutti gli interrogativi che si pongono, è la medesima anche in molte altre parti, almeno qui in occidente. Ci pare perciò opportuno presentare questo testo (con qualche breve taglio) per farne oggetto di riflessione.

 

Quando alcuni mesi fa, mi fu chiesto quale titolo dare a questa conferenza, spontaneamente mi venne in mente «Lazzaro, vieni fuori» (Gv 11,43). Il versetto era appena spuntato nella mia mente, ma quando mi accinsi a preparare la conferenza, mi prese un po’ di paura. E Svizzera oggi? Tuttavia lo Spirito Santo è stato buono con me, e penso che questo sia il testo che ci vuole per illuminare alcune sfide davanti a cui vi trovate.

Gli organizzatori di questa Conferenza mi hanno contattato per darmi qualche indicazione sulla vostra situazione e mi hanno scritto: «Non è necessario che le citiamo quelle realtà concrete che stanno sotto le “nostre tenebre” o le “nostre opacità”… la nostra mancanza di speranza davanti al futuro incerto e l’assenza di vocazioni; le fragilità causate dall’invecchiamento delle nostre istituzioni e del nostro personale; le ricerche dolorose circa le nostre case, diventate troppo grandi, in parte vuote; le preoccupazioni economiche e finanziarie, ecc.».

Sono pieno di ammirazione per questa onesta dichiarazione della crisi che avete davanti, che è la stessa di molte altre congregazioni occidentali. Sappiamo che la vita religiosa ha attraversato parecchie volte simili crisi nel passato. Noi, domenicani, abbiamo affrontato la «peste nera»1 che uccise un gran numero dei nostri frati; poi la riforma protestante; al momento della rivoluzione francese il numero dei frati precipitò; poi la crisi del dopo concilio Vaticano II. Siamo abituati alle crisi! Di sicuro, nei prossimi anni, molte congregazioni s’indeboliranno e forse moriranno. Non si deve sentirsi in colpa né chiedersi che cosa abbiamo fatto di male. Questo è capitato spesso anche nel passato. Il 62% degli ordini religiosi che esistevano prima del 1800 sono oggi scomparsi.2 Si dà il caso che una congregazione muoia per aver compiuto il suo scopo.

 

LA STORIA

DI LAZZARO

 

Malgrado lo sappiamo tutti, è duro affrontare gioiosamente la malattia e la morte. La storia di Lazzaro può esserci di qualche aiuto. Anzitutto notiamo una cosa strana: Gesù lascia morire Lazzaro. Avrebbe potuto guarirlo mentre era malato, invece deliberatamente aspetta che muoia. «Quand’ebbe dunque sentito che [Lazzaro] era malato, si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava» (Gv 11,5). Quella morte aveva una finalità: «Essa è per la Gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato» (v. 4). Dio è presente anche in questo momento di debolezza per la vita religiosa. In un qualche modo, che noi, come Maria e Marta, non possiamo immaginare, Dio realizza grazie ad essa qualcosa per il Regno.

In secondo luogo, lascia morire Lazzaro, perché è un amico. Giovanni sottolinea  che Gesù amava Lazzaro, e così lo fa passare dalla malattia alla morte. Si direbbe che solo a un amico Gesù poteva chiedere di subire la crisi della morte, in modo che Dio potesse essere glorificato. È un privilegio per Lazzaro poter diventare un segno di vita. Il testo collega ripetutamente l’amicizia con la morte. Quando Gesù viene a sapere che Lazzaro è morto, si reca a Betania per mettere in atto il suo segno. E «Tommaso, chiamato Didimo (cioè gemello), disse ai condiscepoli: Andiamo anche noi a morire con lui» (v. 16). Tommaso, in nome della fedeltà a Gesù, chiama gli altri discepoli a condividerne la morte. Non c’è dubbio che è perché ha risuscitato Lazzaro che i farisei decideranno che egli deve morire. Così amicizia e morte sono legate insieme. Gesù muore per la sua amicizia verso di noi e, se noi siamo suoi amici, dobbiamo condividere anche noi la sua morte. Alcune delle vostre congregazioni si affievoliranno e forse addirittura moriranno. Questo è qualcosa che accade spesso nella storia della chiesa. È possibile vivere questo fatto come un segno dell’amicizia con Gesù. Possiamo vivere questa morte non solo come una fine, ma come degli amici invitati a condividere la morte di Gesù. Come dice santa Teresa d’Avila: «Se è così che Gesù tratta i suoi amici, non c’è da meravigliarsi che siano così pochi!»

Ricordo nel corso di una visita fatta a un monastero in Inghilterra quando ero provinciale, una delle poche monache rimaste mi disse: «Padre, sono sicura che Dio non lascerà morire il monastero». Un saggio, vecchio monaco che mi accompagnava, rispose: «Sorella, ha lasciato morire suo Figlio!». Come possiamo essere testimoni della sua morte e della sua risurrezione, se non osiamo affrontare la nostra morte, quella personale e anche quella della nostra amata congregazione? Così è possibile abbracciare una tale morte come una partecipazione al cammino di Cristo. Certe congregazione e monasteri hanno raggiunto il momento in cui sentono di non poter essere rivitalizzanti e in cui sarebbe irresponsabile accettare dei giovani. Hanno preso la decisione coraggiosa di morire con dignità e nella fiducia in Dio. Anche questo è un modo di predicare il vangelo.

 

SOPRAVVIVERE

A OGNI COSTO?

 

La tentazione è quella di cercare di sopravvivere a ogni costo, perché non si osa affrontare la morte. Ma che segno di fede nel Signore della risurrezione è mai questo?  Nessuno entrerebbe in una congregazione solo per permetterle di sopravvivere, perché ha paura di morire. La questione cruciale non è quella della sopravvivenza, ma quella della missione per la quale è stata fondata. È finita quella missione? In tal caso noi abbiamo realizzato quello che il Signore desiderava e quindi possiamo sparire. Se la missione non è ancora compiuta, ha ancora bisogno di noi Dio per realizzarla, oppure la possono realizzare i laici? 

Quando Gesù dice a Marta che Lazzaro risorgerà, essa risponde: «So che risusciterà nell’ultimo giorno». Essa ha una fede generica nella risurrezione nel futuro. Ma non crede ancora che la risurrezione è lì con lei nella persona di Gesù. Egli è la vita eterna! Morte e risurrezione è ciò che Marta è chiamata a vivere qui e ora, non alla fine del tempo. Similmente noi possiamo essere chiamati a accettare di morire adesso. Infatti se Gesù è presente qui ora, allora in qualche modo, in modi che non possiamo immaginare, anche la risurrezione è qui adesso. Se Cristo è in mezzo a noi, allora la gloria della risurrezione splende adesso. Ma la storia di Lazzaro ci mostra che la gloria della risurrezione può irrompere ora solo se c’è la morte, quella di ogni giorno, quella nostra personale morte mortale e, qualche volta, anche la morte dei nostri istituti. E fossimo pure benedetti con delle vocazioni, ancora avremmo bisogno di praticare l’ ars moriendi, l’arte di morire. Bisogna lasciar perdere i progetti, passare gli istituti nelle mani dei giovani, che seguiranno differenti idee e priorità, che daranno l’impressione di distruggere quello che noi abbiamo fatto. Allora la risurrezione potrà venire fuori in tutto il suo splendore.

La storia di Lazzaro offre una terza prospettiva circa l’affrontare la morte. «Gesù allora, quando la vide piangere e piangere anche i giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e si turbò» (v. 33). Il verbo greco usato per questo turbamento profondo è molto forte, embrimasthai. Raymond Brown, forse il più grande esegeta di Giovanni del ventesimo secolo, dice che esso esprime «una chiara espressione di rabbia».3 Gesù è provocato alla rabbia dalla morte di Lazzaro. Sa che Lazzaro sarà riportato in vita e che i suoi amici saranno consolati, ma ciononostante è arrabbiato e disturbato. Il fatto della morte lo irrita. Potremmo pensare che siamo invitati a condividere la morte di Gesù e che in ciò ci sia un atto di amicizia. Possiamo fidarci che Dio sia presente, in modi per noi incomprensibili, in tutto questo. E tuttavia di fronte alla morte, quella delle nostre congregazioni o monasteri o scuole, possiamo ancora sentirci arrabbiati.

Un mio confratello, Herbert McCabe, ha scritto: «La morte, la morte dell’uomo, è una violenza… La maggioranza della gente troverà normale che sia scioccante la morte di un bambino che non ha avuto l’occasione di vivere il completo ciclo vitale dell’uomo; ma io penso che, in qualche modo, ogni morte interrompe una storia che ha davanti a sé infinite possibilità… Abbiamo ragione di essere arrabbiati: e la rabbia è una grande parte della sofferenza della morte. Facciamo bene a essere arrabbiati con Dio».4 Ora, possiamo sentire questa rabbia non solo per una morte umana, ma anche per l’indebolirsi e il morire dei nostri istituti e congregazioni per i quali abbiamo dato la nostra vita. Noi amiamo le nostre congregazioni, le scuole e gli ospedali come degli amici e siamo irritati quando vengono chiusi. Tale rabbia può essere buona. Non possiamo cogliere la meraviglia della risurrezione, se non siamo stati scossi dallo scandalo della morte. Non possiamo intravedere il dono della vita eterna, se non siamo stati turbati dalla desolazione della morte.

 

In tali momenti, perciò, dobbiamo aiutarci reciprocamente ad affrontare la rabbia e la sofferenza che dobbiamo sentire di fronte alla crisi della vita religiosa. Se una comunità o una congregazione sta morendo, dobbiamo aiutarci l’un l’altro a portare il peso della morte. Dobbiamo trovare il modo per onorare quello che si è realizzato e salvare la memoria di quello che è stato fatto. Se non ci diamo l’un l’altro il tempo di far questo, potremmo rimanere morti alla voce che grida forte: «Lazzaro, vieni fuori».

«Lazzaro, vieni fuori». Questa parola è letteralmente una vocazione. Gesù chiama Lazzaro per nome. Se vogliamo capire ciò che significa per noi vivere la vocazione religiosa, dobbiamo chiederci che cosa significa per Gesù chiamare ogni essere umano fuori della tomba: «Vieni fuori, Timoteo, Gianclaudio, Susanna, Gregorio ecc.». Ogni essere umano può dire con Isaia: “Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo materno ha pronunziato il mio nome” (49,1). Siamo chiamati fuori dalla non-esistenza. Ma è la voce che continua a convocarci, a volte forte e chiara, altre volte come “quel vento leggero”, come fece con Elia (1Re 19,12). Chiama ogni essere umano dal grembo materno all’infanzia, dall’infanzia alla maturità, dalla caduta e dal peccato alla vita, e dalla tomba che abbiamo costruito noi. Una vita umana è modellata dalla continua attenzione a quella voce che ci chiama a uscire: “Vieni!”.

 

UN SEGNO

DELLA GLORIA DI DIO

 

Che cos’è che definisce la nostra vocazione come religiosi? È in qualche modo qualcosa di speciale? Lazzaro non è solo un uomo che Gesù ha riportato alla vita. Egli è un segno per rivelare la gloria di Dio. È un segno di come Dio chiama alla vita ogni essere umano. Credo che Lazzaro ci suggerisca che cosa c’è di speciale nella nostra vocazione come religiosi. La vocazione religiosa è un segno della vocazione di ogni essere umano. Non siamo chiamati per avere una vita che ha un significato speciale ed esclusivo, ma per mostrare in modo aperto qual è la vocazione di ogni essere umano. E noi lo facciamo lasciando da parte tutti i segni usuali dell’identità umana: la ricchezza, lo statuto sociale, la carriera e perfino la famiglia. I nostri voti ci spogliano in modo che ciò che diventa visibile è la risposta fondamentale dell’essere umano al Signore che gli dice: «Venite fuori, tutti voi uomini e donne». Proprio mentre leggiamo la storia di Lazzaro, e vediamo come Gesù ci chiama alla vita, si dovrebbe vedere la nostra strana vita di professi e riconoscervi la chiamata universale a rispondere di sì a Dio.

Non siamo l’unico segno! Anche gli sposati sono dei segni, e così ogni cristiano battezzato. Non c’è concorrenza! Ho scritto su questo tema in Cantate un canto nuovo.5 Là ho adottato una via negativa, suggerendo come è proprio attraverso quello che noi non abbiamo che mostriamo il destino umano. Ma non voglio ripetermi. Basta andare a comperare il libro! Oggi voglio usare la via positiva, vedere cioè come possiamo rendere visibile questa vocazione. Lazzaro viene alla luce uscendo dalla tomba. Come possiamo portare alla luce questa universale vocazione umana?

Che significa nel caso di Lazzaro essere un segno? Esso rivela il potere del Vangelo. La risurrezione di Lazzaro produce lo scontro tra due specie di poteri. C’è il potere di Gesù e il potere dei romani e dei capi religiosi che vogliono la sua morte. La risurrezione di Lazzaro ci mostra la natura del potere di Gesù. Si tratta del potere dei segni che egli opera. Questo è il settimo segno del vangelo. Ed esso riempie i farisei di terrore: «Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno a lui e verranno i romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione» (v. 48). In questo modo loro e i romani rispondono con un’altra forma di potere, quello della forza. Quello di Gesù è un potere simbolico. È il potere del significato. È la sua partecipazione al potere del Padre, che disse una parola e il mondo venne all’esistenza. “Sia la luce!” “E la luce fu” (Gen 1,3). È ciò che san Massimo il Confessore chiamava “l’incommensurabile forza della saggezza”.6 I miracoli di Gesù non sono opere magiche! Sono potenti a causa di quello che dicono. Il potere delle autorità religiose e politiche è quello della forza bruta: il potere di arrestare, imprigionare e uccidere Gesù. Il potere che dà la vita è quello dei segni, mentre quello che infligge la morte è quello della forza.

 

UN SEGNO

POTENTE DI VITA

 

Noi religiosi siamo chiamati ad essere dei potenti segni di vita. E questo deve apparire nel senso di ciò che facciamo e che siamo. Non conta che siamo pochi o deboli o in via di invecchiamento. Non ha importanza che abbiamo perso altre forme di potere, quelle della ricchezza o della conduzione di importanti istituzioni. Abbiamo un potere che trasmette la vita, quello di essere e di annunciare i segni del Regno. E questi aiutano Dio a pronunciare la parola che salva e trasforma. Un piccolo gruppo di fratelli o sorelle, poveri, vecchi e malati, può essere uno straordinario segno di vita. Si pensi a madre Teresa che ha mosso il mondo. Si pensi a quel piccolo, fragile, studente che stette in piedi davanti al carro armato in piazza Tienanmen. E fu proprio perché era piccolo e fragile, mentre il carro armato era una forza possente, che l’immagine parlò e scosse l’intera Cina.

Ciò che facciamo potrebbe essere piccolo e appena visibile.

Il fatto che siamo piccoli e senza importanza, può far sì che i nostri segni siano ancor più eloquenti. Si pensi a Gedeone! Dio gli riduce l’esercito al minimo, trecento uomini, affinché, dalla sua vittoria sui nemici di Israele, potesse sprigionarsi la gloria del Signore. Forse Dio ci sta riducendo in modo che la gloria del Signore possa risplendere attraverso di noi. Come dice san Paolo, quando siamo deboli è allora che siamo forti (cf. 2Co 12-10).

È difficile per noi comprendere tutto questo, perché è la forza delle armi e del denaro che governa il mondo e continua anche ora, come abbiamo visto nel caso della guerra contro l’Iraq. Noi viviamo nell’ombra della rivoluzione industriale che è stato il controllo della forza: del potere del vapore e del carbone, del potere dell’elettricità, e finalmente del potere della scissione dell’atomo nucleare. Per questo certi segni e simboli possono sembrarci non molto efficaci. Essi sono solo delle idee, delle realtà che sono nella nostra testa, ma non nel mondo reale. «Quante divisioni ha il papa?», domandava Stalin.

Tuttavia noi stiamo entrando in un mondo nuovo, il villaggio globale della «rete globale» (world wide web, www. ndt.). Ciò che circola in questo nuovo mondo non sono tanto delle cose grosse e pesanti come macchine e acciaio, ma segni, simboli e idee. Viviamo in quello che si chiama “la società satura di simboli”,7 di logo e di nomi di marche di fabbrica. I pubblicitari sanno che ciò che consumiamo ai nostri giorni non sono tanto i prodotti quanto i segni culturali.8 Stiamo entrando così in un mondo nuovo, il mondo della «rete globale» nel quale noi religiosi possiamo essere dei segni eccezionali, a condizione che facciamo prova di immaginazione e di creatività. Questo nuovo mondo è maturo per noi per rendere visibile la gloria del Signore.

Gli organizzatori di questa conferenza hanno scelto come tema la luce, la visibilità. E difatti Lazzaro viene chiamato dall’oscurità alla luce. Era nascosto nella tomba e ora è visibile. Se noi dobbiamo essere dei segni del Regno, dobbiamo essere visibili in questo villaggio globale dei logo e delle marche di fabbrica. Ma per noi questo è qualcosa di più che la visibilità che viene dall’avere un logo. Quando ero provinciale, ho creduto fortemente nella promozione del simbolo domenicano del cane con in bocca la fiaccola accesa. Noi siamo i Domini canes, i cani del Signore. Lo si può vedere in tutte le chiese domenicane dell’America Latina. Si direbbe che quei cani stiano fumando dei giganteschi sigari. Lo ho attaccato su ogni prodotto domenicano, sui periodici, sulle magliette, sulle costruzioni. Per fortuna il famoso scultore Eric Gill, che era un domenicano laico, ha fatto una meravigliosa immagine del cane domenicano che noi abbiamo usato. Un cane molto ben dotato che dovette subire una piccola operazione! Ma noi cerchiamo una visibilità più splendente, quella che si trova in ciò che siamo e che facciamo.

Qual è il significato che siamo chiamati a impersonare oggi? Come possiamo essere segni datori di vita? Gesù grida: «Lazzaro, vieni fuori». Ciò è più della rianimazione di un cadavere. La vita è più che una condizione fisica. Questo racconto ci suggerisce due aspetti dell’essere vivo che noi possiamo rendere visibili oggi. Il primo è il superamento del dolore nella gioia. E il secondo è la restituzione di Lazzaro alle sue sorelle e ai suoi amici. Noi religiosi siamo chiamati a essere segni del Regno attraverso la gioia e la comunità.

Giovanni sottolinea a più riprese la tristezza e la sofferenza di Gesù, di Maria e di Marta e degli amici di Lazzaro. La malattia e la morte fanno soffrire. La risurrezione vince la sofferenza e ci dà un anticipo della gioia del Regno.

 

SEGNI DI UNA

GIOIA INSPIEGABILE

 

Se dobbiamo fiorire ed essere visibili in questo mondo, questo è perché noi impersoniamo una gioia inspiegabile e stimolante. Il primo minuscolo seme della mia vocazione fu piantato nel mio cuore da un mio prozio benedettino, anziano ed eccentrico, e questo è dovuto al fatto che egli era una delle persone più gioiose che io avessi mai incontrato, se solamente mia madre, la sera, si fosse ricordata di dargli un bel bicchiere di whisky. E se non voleva andare a letto, allora gliene lasciava un altro in cima alle scale per incoraggiarlo a salire! Non possiamo essere dei predicatori del Regno, se siamo tristi. Nietzsche diceva che i seguaci di Gesù dovrebbero mostrare di essere dei redenti, almeno un po’! E pur essendo un bambino, potei intravedere che quella gioia, in qualche modo, veniva da quella strana maniera di vivere, che è la povertà, la castità e l’obbedienza.

Questi voti non hanno alcun significato, se non fanno di noi della gente che può offrire il sapore di una gioia che trascende ogni delizia offerta sulla «rete globale». È l’anticipo della gioia del Regno. Il beato Raimondo Lullo, un francescano del XIII secolo, ha scritto: «Signore, dal momento che hai messo tanta gioia nel mio cuore, allargalo, ti prego, a tutto il mio corpo, così che la mia faccia, i miei occhi, la mia bocca, le mie mani e tutte le membra del mio corpo possano sentire questa gioia.  Re dei re, alto e nobile Signore, quando mi ricordo della vita eterna, quando la contemplo, sono sommerso e ricolmo di gioia. Il mare non è tanto pieno d’acqua quanto lo sono io di gioia».

L’obbedienza non ha senso se non è la gioia di distribuire liberamente la vostra vita. Un mio confratello, Jean Jacques Pérènnes, ha lavorato 12 anni in Algeria come economista. Un giorno fu invitato dal suo provinciale a rientrare in Francia, per insegnare all’università di Lione. All’inizio questo lo sprofondò nella tristezza, finché egli all’improvviso provò la gioia di dare la sua vita. Da buon francese, andò a comperarsi una bottiglia di champagne per brindare alla libertà del suo voto. Si era ben adattato a Lione, quando gli telefonai per chiedergli se accettava di venire a Roma come mio assistente per la vita apostolica. Mi chiese un mese per pensarci. Gli feci capire che forse doveva decidere entro la giornata. E ci fu data un’altra bottiglia di champagne!

La più vera spiegazione possibile per il voto di castità è che ci rende felici. Questo almeno era il pensiero di sant’Agostino.9 Egli si domanda: «Chi abbraccerebbe qualcosa che non gli piace?».10 C’è un tale – ne ho dimenticato il nome – il quale scrisse che secondo Freud Dio era tutto preso dal sesso, e che Agostino pensava che il sesso fosse tutto preso da Dio. La castità è un ingresso alla totale e incomprensibile gioia del Padre nel Figlio e del Figlio nel Padre, cioè allo Spirito Santo. È vero che ci vuol tempo per imparare certe gioie profonde. Mi ci sono voluti anni per imparare ad amare l’whisky, ma ce l’ho messa tutta. Sto ancora lavorando alla castità!

 

Questa gioia fu l’inizio della missione di Gesù  al momento del suo battesimo, quando udì che il Padre si compiaceva in lui. Meister Eckhart ha scritto che al cuore della vita di Dio c’è questo incontenibile sorriso. «Il  Padre sorride al Figlio e il Figlio al Padre e il loro sorriso produce piacere e il piacere produce gioia e la gioia produce l’amore».11 Noi siamo destinati a trovare la nostra dimora in questo reciproco piacere. Se la castità non è vissuta come la sovrabbondanza della divina compiacenza negli esseri umani, è una miserabile e soffocante oppressione. Il voto di castità dovrebbe formarci a trovare piacere nella gente, quella completa e sovrabbondante delizia che il Padre trova in noi, la gioia che, nel Figlio, egli trova negli esseri umani. La castità non è che una maniera di godere della gente. E poi basta dare uno sguardo a Francesco e Domenico per vedere la relazione amorosa con la povertà.

 

Rendiamoci dunque quanto più possibile visibili. Portiamo i nostri simboli, facciamo pur rumore nei media. Ma la visibilità che noi cerchiamo è qualcosa di più che una faccia sorridente esposto in una bacheca. È il bagliore di una gioia che va al di là delle parole e dell’immaginazione. In un mondo che ha smarrito i suoi sogni, la gente può udire una voce che sulla croce dice: «Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43). Questa è una gioia che fa sbiadire le delizie della www.

Gesù dice: “Lazzaro, vieni fuori”. Richiama Lazzaro alla vita e questo significa restituirlo alle sorelle e agli amici. Essere vivo significa appartenere. La morte non è solo tristezza, è distruzione di ciò che ci lega a coloro cui apparteniamo. Come religiosi, anche noi siamo fratelli e sorelle, per molte più persone che Lazzaro! Questa appartenenza può essere un segno del Regno, può parlare della definitiva fraternità dell’umanità. Anche in questo senso noi possiamo essere un segno provocatorio nella www.

La vita religiosa rende visibile un’altra specie di appartenenza. La nostra visibilità non è quella di un’altra specie sul mercato, cani domenicani piuttosto che hot dogs (l’autore gioca sul termine dog, cane; i hot dogs sono panini imbottiti con wurstels, con o senza crauti, conditi con senape e serviti a caldo, ndt.). I nostri voti dovrebbero formarci a essere coloro che rendono visibile un’altra specie di comunione, quella del Regno. Nell’articolo che ho già citato, nel libro Cantate un canto nuovo, ho scritto su come il voto di povertà è la rinuncia a una specie di identità che ci può essere data dai beni di consumo. Noi siamo chiamati a essere un segno del Regno proprio per aver abbandonato i segni dello status e della ricchezza. Il voto di povertà è un segno di quella comunione da cui nessuno viene escluso, neppure quelli che non possono permettersi neanche le false etichette dei designer, i più poveri di tutti. Noi rinunciamo a questi segni di appartenenza.

 

QUANDO LA NOTTE

È FINITA?

 

Un giorno un rabbino domandò ai suoi discepoli: «Come potete dire che la notte è finita e che il giorno sta rivenendo?» Un discepolo azzardò: «Quando si può vedere chiaramente se un animale distante è un leone e non un leopardo«.«No», disse il rabbino. Un altro disse: «Quando si può dire che un albero fa fichi e non pesche?». «No», disse il rabbino. «È quando puoi guardare in faccia una persona e vedere che quella donna o quell’uomo è tua sorella o tuo fratello. Infatti finché non riesci a farlo, qualunque sia l’ora del giorno, è ancora notte».12

Lazzaro, il fratello, esce dalla tomba alla luce. Ed è restituito alle sorelle. Forse il voto di obbedienza innanzi tutto ci forma come persone la cui vita indica una nuova maniera di appartenersi come fratelli e sorelle. In realtà è l’unico voto che i domenicani fanno in modo esplicito, il che è forse la ragione per la quale dei giovani domenicani scherzano dicendo di essere dispensati dagli altri voti: «Timothy, potrei essere dispensato dalla castità durante le vacanze?». L’obbedienza, per noi, è molto più che fare quello che ci comandano. È una formazione alla fraternità. È accettare che sia proprio con questi fratelli e sorelle che si può scoprire chi uno è e chi può diventare. È la dichiarazione ufficiale che uno non è padrone della propria identità. Questa emerge dalla vita comune.

Matisse ha fatto una magnifica vetrata con l’immagine di san Domenico nella nostra cappella di Vence, nel sud della Francia. La faccia di Domenico è senza colore, di vetro bianco. Questo, non perché egli fosse un carattere senza colore, ma perché era Fratel Domenico. Non era tanto il fondatore, ma uno di noi. Egli ha creato una comunità non perché noi lo imitassimo, ma una comunità in cui potessimo scoprire che siamo e chi possiamo essere. A proposito, è perché la fraternità è così fondamentale, che per me la domanda non è mai: «Quale è l’identità di un fratello in un istituto clericale come i domenicani?», ma piuttosto: «Che significa per un fratello essere ordinato?».

Essere un fratello obbediente non è ancora conoscere del tutto chi siamo. Tu sei legato a dei fratelli e sorelle che sono in tutto il mondo, che tu non conosci ancora e che sono carne della tua carne e ossa delle tue ossa. La gioia di essere Maestro dell’Ordine è che uno entra in ogni comunità domenicana nel mondo, da Tokyo a Johannesburg e subito si rende conto che uno era suo fratello prima che di conoscerne il nome. Mai possiamo sapere pienamente chi siamo, dal momento che i nostri fratelli e sorelle sono sparsi in tutto il mondo. E se la congregazione è benedetta con nuove vocazioni, anch’esse parteciperanno al cammino verso l’identità. Noi apparteniamo anche alle generazioni che devono venire che avranno da dire la loro su quello che siamo e che faremo.

Per questo ho sempre resistito con forza alla tendenza a chiedere ai fratelli prima di un’elezione se accetterebbero di essere superiori. Non spetta a me dire se penso di essere in grado di svolgere questo ruolo. Tocca ai miei fratelli fare il discernimento. Mi conoscono meglio di quanto io mi conosca. Diventare superiore non è fare un passo nella carriera, ma accogliere la voce dei propri fratelli che dicono: «Vieni, Timothy». Mettersi nella mani dei fratelli alla professione è accettare che la propria identità non si trovi più nelle proprie mani. La fraternità è una identità indeterminata. I fratelli e le sorelle si dicono l’un l’altro:«Vieni alla luce del sole».

L’obbedienza fa qualche cosa più che impegnarci a cercare un’identità come religiosi che è al di là della nostra immaginazione. È un piccolo segno che rende visibile quell’inimmaginabile comunione che è il Regno. Quando la guerra dell’Iraq incombeva, alcuni membri della conferenza dei superiori domenicani degli Stati Uniti distribuirono dei grandi adesivi che dicevano: «Noi abbiamo dei famigliari in Iraq». Nel suo primo senso, questo si riferiva ai nostri confratelli e consorelle domenicani iracheni. Ma quella interna all’Ordine è un segno di una più vasta appartenenza, che si riferisce agli iracheni cristiani e mussulmani, carne della nostra carne nel Regno.

 

SIAMO

TUTTI FRATELLI

 

Si dice che a volte, quando Helder Camara sentiva che la polizia aveva preso e messo in galera un pover’uomo, egli avrebbe chiamato al telefono per dire: «Ho sentito che avete arrestato mio fratello» e la polizia, chiedendo scusa, avrebbe detto: «Eccellenza, che terribile sbaglio! Non sapevamo che era suo fratello. Sarà subito rilasciato!» E quando l’arcivescovo si recava alla stazione di polizia per prendere l’uomo, la polizia diceva: «Ma, Eccellenza, quello là non ha il suo stesso cognome». E Camara rispondeva che ogni persona era suo fratello e sorella.

 

In tal modo l’identità indefinita del voto di obbedienza è un segno di quel cammino verso la conoscenza di sé che noi facciamo con gli estranei sulla strada del Regno.  Significa che noi non conosciamo chi siamo senza il povero, l’anonimo e il silenzioso. Rowan Williams, arcivescovo anglicano di Canterbury, ha scritto: «È con gli altri che noi andiamo verso il Regno, in modo che la storia cristiana dovrebbe essere la storia del continuo ed esigente impegno con gli estranei, abbandonando il diritto di decidere chi sono. Nessuno di noi saprà mai chi è senza ognuno degli altri, e questo può significare che non sapremo chi siamo fino al giorno del giudizio».

 

E se l’obbedienza è qualche cosa di più che fare ciò che è comandato, così anche la castità è molto più che non andare a letto con un’altra persona. Non è nulla se non rende visibile un amore che più in là dei legami, e cioè la vita del Regno. Come l’aveva ben capito Agostino, la castità è la liberazione del desiderio da ogni forma della libido dominandi, la tentazione di farci Dio e di dominare e possedere gli altri. Come l’ha scritto Sebastian Moore: «La concupiscenza, non è la passione sessuale sfuggita al controllo della ragione, ma la passione sessuale come copertura della volontà di Dio».13 In un mondo in cui il potere muto e brutale è diventato orribilmente visibile, il voto di castità dovrebbe rendere visibile un desiderio liberato da ogni dominazione e signoria.

Gesù grida a voce alta: «Lazzaro, vieni fuori!» Questo è l’ordine che imparte a ogni essere umano. Noi siamo chiamati per nome a uscire dalla non esistenza. Siamo chiamati fuori dalla nostra infanzia alla maturità, dal peccato al perdono, dalle tenebre alla luce. Ho detto che la nostra vocazione di religiosi è quella di rendere visibile questa vocazione umana. I nostri voti ci spogliano completamente di tutte le identità inferiori, basate sulla ricchezza, la condizione sociale, la carriera e perfino il matrimonio. Riveliamo un’identità che non è nulla più che la risposta alla voce che dice: “Vieni fuori!”

Per certe congregazioni questo è un tempo di crisi e di depressione. Molte comunità stanno invecchiando e devono affrontare la penuria di vocazioni. Allora noi siamo depressi e crediamo di non essere segno di nulla, fuorché di un fallimento. Ma il racconto di Lazzaro ci mostra che la potenza di Dio non è una forza che si impone. Essa si fa vedere in un uomo debole e vulnerabile, consegnato alla morte. I suoi segni parlano con potenza per quello che significano. Anche la nostra vita può parlare con potenza del Regno, anche se possiamo sentirci vecchi, deboli e pochi. Può addirittura parlare con più forza proprio per questa ragione. Proprio a causa della debolezza, possiamo essere dei segni migliori, più eloquenti.

Il nostro villaggio globale ci offre un mondo che, credo, è capace di rispondere ai segni. E ciò è una meravigliosa opportunità per la Chiesa e per noi, a condizione che abbiamo creatività e immaginazione. Nell’attuale «rete globale» la gente ha fame di felicità e di appartenenza. Noi possiamo rendere visibile una gioia e una appartenenza che vanno al di là delle parole, ma che può toccare i più profondi desideri della gente. Pensate alla gioia che si doveva vedere sul volto di Lazzaro quando gli furono levate le bende funebri.

 

T. Radcliffe

 

1 Epidemia, probabilmente la peste bubbonica, che devastò l’Europa e l’Asia nel 1348, descritta anche da Giovanni Boccaccio.

2 Sammon Sean D. fms, Religious Life in America: a new day dawning, New York 2002, p. 43.

3 The Gospel according to John, vol I, London 1971, p. 425.

4 Hope,  CTS London 1987, p. 24ss.

5 Vocazioni religiose, abbandonare i segni comuni di identità, in Radcliffe T., Cantate un canto nuovo, EDB, Bologna 2001, pp. 175-191.

6 Discorsi a Talassio, Questione 63.

7 Lash S., Urry J., Economies of Signs and Space, London 1994, p. 222.

8 Tifkin, 117.

9 Bourne V., Joy in Augustine’s Ethics, p. 9.

10 De Doctrina Christiana, III 16.

11 Sermon 18, in F. Pfeiffer, Aileen 1962, quoted in Murray, op. cit., p. 132.

12 Sammon Sean D. fms, op. cit., p. 95.

13 Op. cit., 105.