IV CONGRESSO DEI TEOLOGI ASIATICI

LA TEOLOGIA IN UN’ASIA CHE CAMBIA

 

Di fronte alla situazione conflittuale ancora molto diffusa nel continente e ai guasti prodotti dalla globalizzazione, i teologi invitano le chiese a uscire dall’inerzia e a riscoprire la loro missione profetica.

 

«Costruire comunità: gli asiatici alla ricerca di una nuova pedagogia di incontro»: per riflettere su questo tema, 100 teologi dell’Asia delle varie chiese – 64 uomini e 36 donne di 15 paesi del continente e 11 di altra provenienza – si sono incontrati dal 3 al 10 agosto scorso a Chang Mai, in Thailandia, per il loro quarto congresso, il CATS IV (Fourth Congress of Asian Theologians).

Al centro della riunione, un’analisi della situazione socio-politica del continente e di quella della chiese per chiedersi come riuscire a costruire comunità oggi. Il congresso ha emanato anche una dichiarazione conclusiva con alcune importanti raccomandazioni.

Il Congresso dei teologi asiatici era stato fondato nel 1997 nella riunione tenuta nella Corea del sud allo scopo di esplorare insieme, su base ecumenica, nuove vie della teologia. In quella circostanza era stato infatti scelto come tema: «La teologia asiatica in un’Asia che cambia: verso un impegno teologico per il 21° secolo». La seconda riunione  ebbe luogo nel 1999, in India, a Bangalore, sul tema: «Celebrare insieme la vita». La terza, nel 2001, si svolse in Indonesia, a Yogjakarta, sul tema: «Prospettive per una vita di convivenza tra le religioni asiatiche».

Il congresso dello scorso agosto, rispetto ai tre precedenti, ha avuto una caratteristica particolare nel senso che ha voluto inserire nel programma, come complemento della riflessione sul tema generale, un forum di donne per ascoltare anche le loro prospettive. Il forum ha attirato l’attenzione dei teologi sulla persistente discriminazione, lo sfruttamento e l’oppressione delle donne e dei bambini nella Chiesa e nella società. È stato rilevato che  le donne e i bambini sono le vittime più povere, anche se è vero che la globalizzazione, la militarizzazione e le guerre infliggono sofferenze a tutti. È stato anche fatto notare che la ricerca di una autentica teologia asiatica sarà priva di fondamento se non ci si renderà conto che il sistema patriarcale vigente1 è la radice di ogni genere di oppressione, collegata con altri sistemi di ingiustizia strutturale. Solo se le chiese e i teologi combatteranno e supereranno nelle loro istituzioni i valori e i sistemi patriarcali, essi allora potranno denunciarne l’esistenza nella società in maniera credibile ed efficace.

 

SITUAZIONE

ATTUALE DELL’ASIA

 

Al congresso è stato anzitutto delineato il contesto entro cui i teologi erano chiamati a collocare la loro riflessione. Si tratta di un quadro complesso. All’origine di tante tensioni e di tanti conflitti vi è certamente la realtà interreligiosa e interculturale del continente. Ma questa non è la sola. L’Asia, infatti, è minacciata anche dall’egemonia economica, politica e culturale della globalizzazione, della militarizzazione e della dichiarazione di guerra da parte del terrorismo contro i “nemici” dell’ “impero” (empire), dal fondamentalismo religioso, dalle guerre omicide, dalla violenta dispersione di tante persone, e dal persistere dell’oppressione  sulle donne e i bambini.

Il congresso ha stigmatizzato le forze demoniache dell’ “impero” e ha messo seriamente in discussione la giustificazione teologica dei suoi idoli: mercato, libertà e diritto religioso. L’ “impero”, è stato sottolineato, ha rafforzato il dominio e il controllo sulle risorse globali e sulle altre economie nel mondo, in particolare in Asia. Esso si attribuisce il diritto di definire e dichiarare ciò che giusto e ciò che è sbagliato per il mondo intero, alle sue condizioni, senza riguardo delle opinioni degli altri. Esso trova in se stesso la giustificazione per dichiarare guerra a ogni “nemico” che osa essere in disaccordo con la sua ideologia o mettersi contro i suoi interessi. «In nome di Dio, della giustizia, della libertà, della pace e della “democrazia” – scrivono i teologi nella dichiarazione finale – è stata dichiarata tutta una serie di guerre, iniziando da quelle contro l’Afghanistan e l’Iraq ed eventualmente anche alla Corea del Nord. Uno dei metodi più comuni adottati è l’inganno del proprio popolo per legittimare questi attacchi».

La dichiarazione prosegue: «In contrasto con la grandiosa promessa di progresso e di una vita migliore, la globalizzazione ha fatto sì che, in effetti, il divario tra i ricchi e i poveri si aggravasse ulteriormente e ha esercitato un influsso devastante in ogni ambito della società, soprattutto tra i contadini, gli operai, gli indigeni, le donne e i poveri delle città. Essa ha anche accelerato la distruzione della natura e delle sue risorse e provocato una crisi ecologica di proporzioni inimmaginabili».

«L’Asia, sottolineano i teologi, ha inoltre i suoi conflitti interni che sono essenzialmente collegati con le minacce globali. In risposta all’espansione del mercato globale e dell’egemonia culturale e politica, molte persone si sono rifugiate nel fondamentalismo, e ciò ha accelerato la spirale della violenza e la crescita dell’intolleranza tra gente che era sempre vissuta insieme pacificamente. Questo fenomeno ha accresciuto i conflitti etnici attraverso confronti violenti, sfociati poi nel genocidio.

La violenza economica e militare ha provocato un numero crescente di profughi e migranti, persone che sono esposte a ulteriore sfruttamento e violazione dei diritti umani. Ancora una volta sono le donne e i bambini a dover sopportare il peso principale di questa situazione di violenza».

L’Asia, tuttavia, sottolineano i teologi, possiede un patrimonio unico di carattere religioso e culturale: un patrimonio che afferma e conferma la vita, e può servire quale grande risorsa spirituale per il superamento dei problemi. Inoltre, l’Asia possiede una costante tradizione di resistenza, e ciò è la base della speranza nelle lotte attuali.

 

LA SITUAZIONE

DELLE CHIESE

 

Secondo i teologi del congresso, molte chiese asiatiche sono diventate ostaggio dell’ “impero” e dei suoi interessi. «Esse hanno miseramente fallito nell’adempimento della loro missione profetica e pastorale. Di fronte all’ingiustizia, alla violenza e alla rozza offesa dei diritti umani, la maggior parte di esse hanno taciuto. A causa del loro stato di minoranze e della scelta di false priorità hanno adottato l’atteggiamento arrendevole dell’adeguamento. Non si sono liberate dal demone dell’atteggiamento patriarcale all’interno delle loro istituzioni, né hanno riconosciuto il legame di questo sistema con altri sistemi, ideologie e strutture di oppressione nella società. Non hanno preso sul serio nemmeno le preoccupazioni e le lotte dei poveri, degli emarginati e degli oppressi.

Ma se la Chiesa in quanto istituzione ha mancato di alzare la sua voce profetica e di dare una risposta pastorale, ci sono tuttavia nella sua base, persone attivamente impegnate nella lotta per la pace, la giustizia e una migliore qualità della vita per tutti».

 

COME COSTRUIRE

COMUNITÀ?

 

Dopo aver descritto questo contesto assai complesso del continente asiatico, i teologi hanno ripreso in mano il filo conduttore del loro discorso, come  cioè costruire comunità. Hanno sottolineato che in una siffatta realtà di violenza politica ed economica, di disintegrazione sociale e di estraniamento culturale per le chiese è un imperativo pressante costituire comunità di resistenza in ordine alla pace e alla giustizia; comunità che siano inclusive, assertive della vita, capaci di sanare, di cambiare. Ciò richiede pentimento, conversione; occorre che sappiano diventare comunità ed essere favorevoli alla vita.

Anzitutto il pentimento: ciò significa che dovranno riconoscere la loro complicità nel mantenere in piedi forze oppressive e di sfruttamento nella società. Ad esse manca il coraggio di assolvere al loro compito profetico di denunciare le strutture ingiuste e di condannare quelle che usano la forza per piegare gli altri a loro piacimento, spesso in forma violenta. Vuol dire riconoscere le ingiustizie che esistono nelle loro stesse istituzioni e sviluppare meccanismi per impedire in futuro che si imponga il sistema patriarcale nel loro stesso ambiente e riconoscere che fino ad oggi, nonostante tutta la retorica, non sono stati concessi alle donne pari trattamento e pari opportunità.

In secondo luogo, la conversione. La pace a cui tendiamo, affermano i teologi non è una pace senza principi, una pace a tutti i costi. È una pace basata sulla giustizia. È una “pace di giustizia». Per costruire comunità del genere bisogna che le chiese si convertano alla verità, alla giustizia e al bene scambievole.

Verità vuol dire non solo non dire bugie; essa è un modo di vivere, è autenticità, concordia. Convertirsi alla verità significa che le Chiese devono essere modelli di trasparenza e di responsabilità. Significa ammettere i comportamenti sbagliati, non nasconderli o minimizzarli.

Conversione alla giustizia vuol dire anche essere a fianco dei poveri, degli emarginati e accogliere il grido che sale dalla terra. Vuol dire essere una cosa sola con le loro lotte, avere il coraggio di prendere posizione sui problemi socio-economici, anche se ciò comporta una diminuzione delle offerte da parte dei benefattori e persino la persecuzione da parte dei potenti.

Conversione al bene scambievole vuol dire lavorare incessantemente per una più giusta distribuzione delle risorse e porre quelle della Chiesa al servizio dei poveri per il miglioramento della qualità di vita degli uomini. Significa rifiutarsi di lasciarsi captare da un sistema di sviluppo che riguarda solo i pochi ed esclude i molti. Vuol dire sviluppare compassione, in forza del vincolo che unisce tutte gli esseri viventi.

Sempre per quanto riguarda la creazione della comunità, la dichiarazione dei teologi esorta le chiese a sanare le divisioni interne alle loro confessioni e a volgersi alle altre denominazioni e comunità di fede, e anche a coloro che non hanno alcuna fede. Le chiese inoltre devono rinunciare alla pretesa di essere le uniche a possedere il tesoro della verità o di essere l’unico strumento di salvezza. Devono sforzarsi di conoscere e comprendere i principi basilari delle altre religioni e avere la volontà di imparare le une dalle altre. Devono impegnarsi in progetti comuni per coltivare la spiritualità e in programmi per la giustizia e la pace.

Nella formazione della comunità bisogna anche comprendere in maniera nuova il significato del potere. L’ “impero” lo intende come un “potere su”, un potere che controlla, che domina e sfrutta. Noi dobbiamo invece intenderlo come un “potere dentro”, ossia un potere che facilita e promuove. Ciò significa offrire alle persone opportunità e consentire loro di attuarle, far in modo che prendano la vita nelle loro mani, che siano essi a prendere le decisioni che li riguardano e possano svilupparsi secondo le loro piene possibilità. Intendiamo il potere anche come un “potere con”, che vuol dire riconoscere i diversi doni, le risorse e capacità dei singoli e delle comunità e insieme orientarle verso un bene più efficace per tutti.

«Concludiamo il nostro congresso – scrivono nella dichiarazione finale – con un rinnovato impegno a ricercare un’autentica teologia asiatica. Tornando a casa, ci auguriamo che il ricordo del clima fraterno che abbiamo vissuto ci infonda ispirazione e forza per condividere le nostre prospettive e decisioni con le nostre comunità. Il nostro compito non è facile. Spesso non vediamo che cosa c’è alla fine del tunnel. Per questo dobbiamo coltivare la virtù della speranza. La speranza infatti è uno degli attributi più importanti di chi costruisce la comunità. La nostra speranza è fondata nella costante resistenza dei popoli e nel ricordo della fedeltà di Dio, negli interventi non programmati e inattesi dello Spirito Santo in situazioni apparentemente prive di speranza. È una speranza che… unita all’amore ci dà la forza di costruire un futuro comune. È una speranza che mantiene vivo l’eterno sogno di Dio e dell’umanità della venuta di cieli nuovi e terre nuove».

 

A.D.

Per sistema patriarcale s’intende un ordinamento sociale in cui l’uomo occupa una posizione privilegiata nello stato e nella famiglia e nel campo dell’eredità e in quello sociale è determinante la linea maschile.