PER UN CORRETTO ESERCIZIO DELL’AUTORITÀ (2)

L’APPORTO NECESSARIO DEL CONSIGLIO GENERALE

 

Quali atteggiamenti si riscontrano nel superiore generale rispetto al suo consiglio? Altri interessanti spunti di riflessione da una prospettiva diversa dall’articolo precedente.

 

Dopo la presentazione di alcune modalità inadeguate di collaborazione tipiche del consiglio nei confronti del superiore generale (cf. Testimoni 19/2003, pp. 9-11) p. Gardin presenta altre possibili disfunzioni, stavolta a partire dall’atteggiamento del superiore nei confronti del suo consiglio.1

 

IL CONSIGLIO

NON PUÒ MANCARE

 

L’obbligatorietà dell’esistenza del consiglio rappresenta un principio talmente basilare che non può essere disatteso. Per questo motivo p. Gardin ritiene opportuno segnalare, a titolo di esemplificazione, alcune situazioni negative che si possono creare.

 

Il Consiglio sopportato

 

Nel superiore potrebbe insinuarsi un atteggiamento di rassegnata sopportazione nei confronti del suo consiglio. Un superiore intraprendente, attivo e decisionista può avvertire il consiglio come un peso, una palla al piede. Il dovere di sottoporre le sue decisioni a una serie di pareri non sempre favorevoli ai suoi progetti, può indurlo a un insufficiente riconoscimento della figura e del ruolo del consiglio.

Ma l’autorità personale del superiore – ricorda p. Gardin – non significa autoritarismo o indebita centralizzazione, abituale assunzione di decisioni in solitudine, gestione totalmente personale dell’istituto. Non a caso il consiglio del superiore è istituzione che compare già nel primo monachesimo, e appartiene allo spirito dell’esercizio dell’autorità proprio della vita religiosa.

I consiglieri, solitamente eletti dal capitolo, rispondono a quella istanza partecipativa che arricchisce sia l’autorità che la fraternità dell’istituto. A maggior ragione se l’istituto è presente in varie aree geografico–culturali e il consiglio, di conseguenza, è composto di membri appartenenti a culture diverse.

Certo, la compresenza di culture e sensibilità differenti nel consiglio rende più laborioso il processo di discernimento o la consultazione. E questo per il superiore decisionista può diventare motivo di ulteriore disagio. Ma il superiore è chiamato a vedere il consiglio come un dono provvidenziale per il suo ministero e prezioso per il suo discernimento. Accettare la laboriosità e la fatica di un suo buon funzionamento, significa accogliere una arricchente diversità nella percezione dei problemi e la sollecitazione a un esercizio dell’autorità attento alle varie sensibilità presenti nell’istituto.

 

Il Consiglio solo nominale

 

Accettare fiduciosamente il consiglio significa, da parte del superiore, che egli non deve sottovalutarne o ridurne la presenza e l’apporto. Ciò può avvenire, come si può ben capire, in tanti modi.

Si può segnalare, per esempio, il caso in cui il superiore si serve del consiglio solo in maniera formale, burocratica, mentre di fatto valorizza, più o meno “dietro le quinte”, altri confratelli/consorelle come effettivi e autorevoli consiglieri. Credo che, in situazioni come queste, sia chiamato in causa un atteggiamento di obbedienza del superiore, non tanto nei confronti del consiglio, quanto verso il capitolo, autorità suprema dell’istituto (cf. can. 631 § 1), che gli ha posto accanto determinati confratelli/consorelle come consiglieri, e non altri.

Un caso particolare, forse più frequente nel passato e più presente negli istituti religiosi femminili, è quello di ex superiori/ e generali, che si attribuiscono, o a cui viene attribuita, una particolare autorevolezza nel dare consigli al/alla superiore/a generale in carica. Ferma restando la libertà del superiore di consultare qualunque confratello/consorella egli deve ascoltare prima di ogni altra persona i consiglieri posti accanto a lui dal capitolo.

 

Il Consiglio non informato

 

Perché i consiglieri possano svolgere bene il loro compito devono disporre di adeguate informazioni circa le questioni da trattare nelle riunioni del consiglio, o in quanto collaboratori del superiore. Quanto meno si conoscono i dati reali di un problema, tanto più è difficile affrontarlo e risolverlo.

Un’informazione solo parziale offerta dal superiore potrebbe incanalare artificialmente il parere o il consenso dei consiglieri verso le scelte da lui volute. Inoltre, più una questione è complessa e rilevante per la vita dell’istituto, più i consiglieri hanno bisogno di una conoscenza approfondita e di un conveniente tempo di riflessione. Portare direttamente in consiglio un problema complesso, magari esigendo un frettoloso parere dai consiglieri, non è corretto, a meno che l’urgenza non sia data da gravi ragioni oggettive.

È buona norma perciò far conoscere in precedenza l’ordine del giorno delle riunioni ai consiglieri, offendo loro, nella misura del possibile, anche una documentazione che consenta la migliore comprensione degli argomenti da trattare, soprattutto se i consiglieri dovranno poi esprimersi con un voto.

Il consigliere non può esprimere il suo voto solo “sulla parola” del superiore: deve agire in scientia et conscientia, con la coscienza di optare per ciò che è meglio. Ma come potrà dire di scegliere il meglio se non ha una buona conoscenza della questione e delle reali conseguenze sia del voto a favore che di quello contrario?

Un’approfondita conoscenza, da parte dei consiglieri, dei temi da trattare, esige spesso informazioni ampie, a cui contribuiscono anche i colloqui personali con il superiore, o con consiglieri che hanno una più diretta conoscenza degli argomenti da trattare. La consuetudine – presente in alcuni istituti, nei quali i consiglieri vivono in case diverse – di ritrovarsi solo e strettamente per il tempo necessario alla riunione del superiore con il consiglio, può privare i consiglieri di opportuni momenti di comunicazione e informazione (maggiori di quanto non consenta il linguaggio a volte reticente delle informazioni scritte).

 

Il Consiglio “tarpato”

 

A un’adeguata informazione previa dovrebbe far seguito un congruo spazio perché i consiglieri esprimano compiutamente i loro pareri. Il superiore è, ovviamente, il moderatore delle riunioni, e quindi ha la facoltà di contenere la comunicazione delle varie opinioni e il successivo dibattito dentro l’ambito degli argomenti previsti, senza inutili dispersioni.

Non è bene però che il superiore costringa il dibattito sempre rigidamente entro i temi dell’ordine del giorno. Le riunioni del consiglio possono diventare momenti in cui la riflessione di ognuno sulla vita dell’istituto diventa un contributo utile all’esercizio dell’autorità, anche se tali riflessioni non necessariamente portano a conclusioni operative immediate.

Del resto i consiglieri sono chiamati ad assistere il superiore (in alcuni istituti si chiamano assistenti) nella guida dell’istituto: non solo a esprimere dei o dei no, o a manifestare la loro opinione su questioni specifiche. Questo significa che essi devono aiutare il superiore anche a individuare i problemi da affrontare e non solo dare contributi per la loro soluzione. Restringere il ruolo dei consiglieri al loro intervento sugli argomenti sottoposti dal superiore può limitare la loro funzione.

 

Il Consiglio non ascoltato

 

Ma un’altra condizione importante è quella richiamata dal canone 127 § 3: «Tutti quelli, il cui consenso o consiglio è richiesto, sono tenuti all’obbligo di esprimere sinceramente la propria opinione...». Se i consiglieri non si esprimono sinceramente, viene falsata o vanificata la loro funzione. Il superiore deve fare di tutto perché si crei un clima di totale sincerità nelle riunioni del consiglio e nel rapporto con i singoli consiglieri, anche al di fuori delle riunioni,. Diversamente verranno praticati i doppi giochi: ci si pronuncerà in maniera diversa a seconda che ci si esprima all’interno e all’esterno delle riunioni.

La sincerità di espressione esige però che i consiglieri godano di una assoluta libertà di manifestare ciò che pensano. Tale libertà è garantita anche dall’impegno alla riservatezza: se un consigliere sa che il suo parere, specie su casi che riguardano persone o comunque su questioni delicate, verrà successivamente divulgato, facilmente sarà restio a esprimersi.

La sincerità dei consiglieri, che presuppone la sincerità del superiore, sarà maggiore quanto più il consigliere si sentirà ascoltato con attenzione e rispetto dal superiore. Non si sottovaluti questo aspetto. L’esperienza ci dice che vi sono modi non verbali di far capire all’interlocutore che non si è interessati al suo discorso. Perciò, il primo atteggiamento richiesto al superiore nei confronti del consigliere è l’ascolto.

Un ascolto che non è un semplice atto di cortesia. Il parere del consiglio non è un parere qualunque: il superiore non solo lo deve ascoltare con attenzione, ma non può successivamente agire diversamente dal parere del consiglio, soprattutto se unanimemente espresso, senza motivi davvero rilevanti.

 

Il Consiglio “nemico”

 

Si possono verificare talvolta situazioni di non concordanza di opinioni tra superiore e consiglio. La divergenza potrebbe giungere anche a una vera e propria contrapposizione o spaccatura tra superiore e consiglio, con situazioni di tensione più o meno accentuata. Una tensione che facilmente può avere risonanze nell’istituto, giacché è realistico pensare che situazioni di questo genere valichino i muri della casa generalizia. Una tale spaccatura potrebbe perciò risultare di “scandalo” per l’intero istituto.

Non si deve dimenticare che, nella Chiesa, è dalla fondamentale dimensione della comunione e in funzione di essa che scaturiscono e si attuano la sinodalità, la corresponsabilità, la partecipazione. Queste trovano espressione in organismi di consultazione o di aiuto nei confronti di chi esercita l’autorità, come il consiglio generale. Perciò se esso contraddice la comunione, contraddice per ciò stesso la ragione ultima della sua esistenza. Certo, si deve sottolineare che la diversità delle opinioni non significa necessariamente rottura della comunione, come qualcuno tende talora a concludere troppo frettolosamente; anzi, tale diversità può esprimere una ricchezza di sensibilità, una visione più ampia della realtà e delle problematiche.

Ma quando la diversità delle opinioni si estremizza e diviene contrapposizione rigida, ne viene un indebolimento della comunione. In questi casi è necessario – e si tratta di un dovere morale – sanare la rottura, magari con l’aiuto di una persona particolarmente esperta. Superare l’impasse dovuta a una contrapposizione creatasi all’interno della relazione superiore–consiglio significa non solo sbloccare il meccanismo dell’operatività decisionale, ma ricostituire quella comunione, senza la quale non è possibile discernere insieme, ponendosi in ascolto dello Spirito, il vero bene, il bene evangelico, dell’istituto.

 

La presunzione di un Consiglio sempre favorevole

 

Un altro condizionamento indebito del superiore sul suo consiglio è quello di eludere il passaggio obbligato della necessaria richiesta del consenso o dei pareri circa gli atti per i quali è richiesto. Ciò non è facile perché in genere le norme, anche quelle del diritto proprio, determinano con precisione tali atti. Tuttavia il superiore potrebbe creare un certo qual “clima fraterno”, un modo di decidere abitualmente fatto di “cordiale consenso”, per cui le sue proposte godrebbero di una sorta di presunzione di accettazione o di sicuro favore da parte dei consiglieri. Un clima del genere indurrebbe a considerare talmente scontato il risultato di ogni votazione da renderla superflua o, quanto meno, non segreta. Ma potrebbe accadere che, in un’atmosfera così amichevole e armoniosa, un consigliere, magari timido o alla prima esperienza, abbia difficoltà a esprimere un parere dissenziente.

Si tratta, ancora una volta, di assumere seriamente il dettato del canone 127, quando afferma al § 1: «perché l’atto [del superiore che necessita di consenso o di parere] valga si richiede che sia ottenuto il consenso della maggioranza assoluta di quelli che sono presenti o richiesto il consiglio di tutti». Dunque non solo l’ottenimento del consenso, sempre vincolante, ma anche la richiesta del parere, di per sé non vincolante, condiziona la validità dell’atto del superiore. Inoltre si parla del consiglio o parere di tutti. Si possono creare situazioni in cui il parere di qualcuno viene di fatto svalutato, non considerato, o addirittura non richiesto; alcuni consiglieri si possono imporre come autorevoli, rendendo di fatto irrilevante l’apporto di altri, che rischiano di diventare puro numero. Il superiore deve vigilare affinché tutti i consiglieri siano posti su un piano di assoluta parità.

Contrapporre dunque al rigore procedurale un preferibile stile fraterno che semplificherebbe la burocrazia giuridica può portare a mancare di attenzione alle singole persone e al loro apporto. Stile fraterno e uso delle procedure volute dalle norme non sono incompatibili. L’osservanza delle norme procedurali non è un’inutile complicazione dell’attività del consiglio, ma una garanzia di rispetto dei diritti di ognuno.

 

Quante riunioni e con quale frequenza?

 

Si potrebbe  accennare a varie altre forme mediante le quali un superiore potrebbe “togliere ossigeno” al suo consiglio. Per esempio, aprire delle trattative con i singoli consiglieri per avere il loro voto favorevole (diverso è l’incontrarli singolarmente per spiegare meglio i problemi in questione); o ancora creare o favorire una divisione interna in un consiglio che non gli è favorevole, secondo l’antico principio del «divide et impera», e altre operazioni simili.

Ma c’è un’ultima limitazione che p. Gardin menziona: il diradare intenzionalmente le riunioni del Consiglio, costringendolo a trattare molti problemi in poco tempo. È importante, come si è già detto, che la discussione sui vari problemi possa avere tempi adeguati. La fretta – si dice – è cattiva consigliera. La scelta della frequenza delle riunioni e della loro durata è un elemento tutt’altro che secondario: dice concretamente l’importanza che il superiore attribuisce al consiglio o, qualora siano i consiglieri a volere poche e brevi riunioni, il loro scarso senso di responsabilità nello svolgere il ruolo che il capitolo ha loro affidato.

Concludendo, p. Gardin ricorda che prendersi cura della relazione tra superiore e consiglio, con i loro rispettivi ruoli, significa anzitutto non perdere di vista le ragioni dell’esistenza di queste figure. Si tratta perciò di muoversi all’interno di questi ruoli con spirito evangelico: con atteggiamento di servizio, volontà di discernere il vero bene, capacità di ascolto, accettando la fatica di processi decisionali talora complessi. Diversamente può insinuarsi uno spirito “politico”, una non sana volontà di perseguire astutamente la propria linea e di far vincere a tutti i costi la propria posizione.

Il rapporto tra superiore e consiglio dovrebbe rappresentare nell’istituto un luogo esemplare di esercizio della fraternità evangelica, animata dalla ricerca della volontà di Dio, capace di dare spazio all’ascolto delle diversità (di sensibilità, di cultura, di opinione, ecc.), senza che ne venga danneggiata né l’autorità, né l’operatività, né la ricchezza della pluralità.

E. B.

 

GARDIN A., Il rapporto tra il superiore generale e il suo consiglio, in Informationes SCRIS, volume primo, 2003