UN PROBLEMA DI TANTE COMUNITÀ MISSIONARIE
COMUNITÀ E MISSIONEQUALE RAPPORTO?
Tra le esigenze
della vita comunitaria e quelle della missione esiste un rapporto dialettico
non sempre facile da superare. I problemi che si pongono e le possibili
risposte.
Sono molti oggi i missionari che si chiedono: sono compatibili le due realtà di missione e di comunità o una elimina l’altra?
C’è posto per la comunità nella missione, o per la missione nella comunità? Cosa è più importante: la missione o la comunità? In caso di conflitto, quale delle due dovrebbe cedere il posto all’altra?.
Si tratta di interrogativi che hanno sempre suscitato tra i missionari forti discussioni e vivaci dibattiti, in cui non sono mancati anche scambi di opinioni piuttosto accesi.
Il tema è più o meno presente in tutti gli istituti anche in quelli non strettamente missionari ma che svolgono attività di apostolato spesso esigenti che richiedono grande impiego di tempo e di energie. Per questa ragione è interessante leggere l’articolo che p. Antonio Bellagamba, dei missionari della Consolata, ha pubblicato recentemente su questo argomento nel bollettino interno dell’istituto, intitolato Come armonizzare missione e comunità.1
ANNI OTTANTA
NUOVO CAMBIAMENTO
Si può dire che la problematica posta è di lunga data. Prima del Vaticano II si tendeva a dare la priorità alla comunità sulla missione; nei primi decenni immediatamente successivi si sono invertite le parti; la missione veniva prima della comunità; una missione, in altre parole, era stimata e apprezzata soprattutto in termini di predicazione, di conversioni, di sacramentalizzazione, di annuncio, di sviluppo, di difesa dei diritti umani e di giustizia sociale; i buoni frutti della missione, si pensava, si sarebbero ripercossi positivamente anche sulla vita comunitaria.
Verso gli anni 1980, più sul piano esperienziale che su quello teologico, si è verificato un nuovo cambiamento; i missionari stessi, infatti, «si sono resi conto che alcuni tra loro avevano finito per perdere la fede e il senso del divino, abbandonando perfino la loro vocazione religiosa e sacerdotale; altri si ritrovarono “bruciati”, esausti, senza più forza interiore, tanto da sentirsi, come uno di essi mi disse, dei “sacchi vuoti”, in balia del vento; la vita missionaria era diventata così complessa e difficile, così esigente da un punto di vista psicologico, culturale e religioso, da far sentire di nuovo, e con forza, l’esigenza di una vita comunitaria significativa, che permettesse un miglior equilibrio e una missione più sana».
La missione è andata così assumendo nuovi significati, e molti missionari hanno incominciato ad adottare un diverso stile di “fare missione”; soprattutto si è compreso con più chiarezza che missione e comunità sono due componenti essenziali e indissociabili della vita religiosa missionaria. Nella concretezza, però, della vita quotidiana, queste due realtà come sono vissute dai missionari? «L’esperienza comune, risponde p. Bellagamba, sembra affermare che i missionari sperimentano serie difficoltà al momento di tenere insieme questi due poli della loro vita, specialmente quando si considera la comunità solo come il gruppetto di persone che – canonicamente – vivono sotto lo stesso tetto». Se alcune di queste difficoltà nascono dalle diverse personalità dei missionari, altre, invece, derivano dalla natura stessa della vita missionaria, e altre ancora dal moderno sviluppo dello stile di vita religiosa e dalla natura stessa della comunità.
Ogni comunità, infatti, è formata da persone diverse per carattere, per formazione umana, spirituale e intellettuale, per sensibilità; da qui il rischio reale di tensioni quotidiane che condizionano poi pesantemente sia la vita comunitaria che l’attività missionaria. Così, «ciò che per uno è quasi “materia di fede” per un altro è “semplice opinione”; ciò che per uno è “una seria questione morale” per un altro non è nient’altro che una “affermazione della curia romana”; ciò che uno considera “obbedienza cieca all’autorità”, l’altro lo considera “incapacità di pensare con la propria testa”; ciò che per uno costituisce un “abuso nelle celebrazioni liturgiche”, per l’altro è “espressione di creatività». In queste condizioni sono facilmente prevedibili dibattiti infuocati, sospetti profondi e sfiducia reciproca.
A questo stato di cose bisogna poi aggiungere il fatto che oggi la comprensione e gli elementi della missione stanno cambiando così rapidamente che anche un missionario equilibrato, con solide basi per un ministero interculturale, «può trovarsi in difficoltà nel seguire tali cambi, nel discernere cosa è veramente prodotto dallo Spirito e cosa è invece spurio, e nel cercare di assumerli e metterli in pratica».
Nel campo della teologia della missione, oggi non è facile, ad esempio, trovare un’intesa comune sulle religioni come “vie di salvezza”; la visione della Chiesa come istituzione può diventare a volte un ostacolo in ordine alla formazione di comunità cristiane; il diretto coinvolgimento dei laici nella missione spesso fa ancora difficoltà; il dialogo ecumenico e interreligioso è molto più facile in teoria che non nella realtà; la missione troppo spesso è vista solo come un “dare” e non anche come un “ricevere”; la promozione umana comporta anche un impegno concreto per la giustizia e la pace; il processo di inculturazione della chiesa occidentale nei diversi territori di missione è un obiettivo spesso ancora molto lontano.
Ora tutte queste diverse e spesso contrapposte valutazioni «hanno finito per dividere anche le comunità locali, quelle regionali, e le stesse conferenze o capitoli regionali». I missionari della Consolata hanno direttamente affrontato questo problema nel loro X capitolo generale. Commentando i lavori capitolari, p. Bellagamba osserva che «molti missionari, con immutato amore alla missione percepiscono il valore del “nuovo” e lo vorrebbero coniugare con la tradizione, ma non sanno come fare e oscillano tra un atteggiamento e l’altro. Alcuni ricorrono istintivamente alla tradizione e ritengono inopportuno ogni discorso di adattamento e rinnovamento, appellandosi a una lettura letterale o a una interpretazione superata del vangelo e del fondatore. Altri si collocano tra coloro che cercano solo la novità e accolgono qualunque cambiamento, senza domandarsi se corrisponda o meno alla nostra identità. Vi è pure chi non si ritrova più e soffre in silenzio e chi si ritira in disparte, creando sacche di isolamento, indifferenza o mediocrità, che pesano negativamente sulla comunità. È ovvio che tutto questo ha un influsso sulle nostre comunità, rende più difficile la loro vita, complica le relazioni. Può un solo tipo di comunità soddisfare tutti i bisogni dei missionari, ed essere di aiuto per la loro crescita e il loro ministero? Credo proprio di no!».
INTERNAZIONALITà
NUOVO PROBLEMA
A tutte queste difficoltà se ne aggiunge un’altra, soprattutto nelle regioni con pochi missionari, quella derivante dall’internazionalità dei missionari; è un processo in atto da almeno trent’anni, fino al punto da arrivare a comunità di tre missionari appartenenti a tre nazionalità diverse. Nel capitolo generale della Consolata il problema è stato affrontato in termini molto positivi, come forma di reciproco arricchimento: «L’internazionalità delle nostre comunità esprime la cattolicità della Chiesa e la rende visibile... anticipa la realizzazione del Regno futuro... testimonia che è possibile vivere in fraternità, superando ogni barriera razziale, culturale, sociale... adempie in modo più perfetto il compito di promuovere e realizzare la comunione come valore del vangelo». Purtroppo, però, commenta p. Bellagamba, «raramente tutto questo diventa realtà; più spesso l’internazionalità crea malumori nei missionari, fa avere una percezione distorta gli uni degli altri, crea conflitti, i valori culturali sono diversi, e spesso non vengono compresi; i diversi atteggiamenti culturali vengono mal giudicati e condannati; gli sforzi di inculturazione sono presi come stravaganze di qualcuno».
Proprio a motivo della internazionalità è spesso reso più difficile il processo di inculturazione del messaggio cristiano: «Quando comunichiamo con i giovani, i nostri concetti, le nostre parole e perfino le nostre testimonianze, era stato detto in capitolo generale, percepiamo di non riuscire a comunicare, di parlare linguaggi diversi...». L’evangelizzazione in chiese incarnate in un diverso contesto sociale e da persone di differenti nazioni, culture e situazioni ecclesiali «pone a ciascuno profonde esigenze di kenosi e apertura sia verso la comunità ecclesiale di arrivo, che verso i confratelli». La formazione all’internazionalità ottiene i suoi effetti solo «quando scende nella profondità della persona e la rende capace di un radicale spogliamento di sé in una reale e serena apertura alla accoglienza di tutti».
Sulla base di tutte queste difficoltà sorgono immediatamente altre domande: fino a che punto i missionari possono trovare in queste comunità internazionali, da sole, tutti i mezzi necessari per la loro crescita umana, psicologica, spirituale, religiosa e ministeriale?
Fino a che punto possono esprimere liberamente i propri problemi e bisogni, condividere se stessi in totale apertura e profondità? Fino a che punto possono sperare di trovare comprensione e accettazione nella propria ricerca di identità, in comunità piene di tensioni, incomprensioni, pregiudizi nazionalisti o addirittura razziali? Non sarebbe forse più opportuno, pur cercando di dare il meglio di sé e con lealtà alla propria comunità di appartenenza, ricercare altrove, in altre comunità, in altre realtà ecclesiali, ciò che non trovano nella propria?
Su quest’ultimo punto p. Bellagamba sviluppa tutta una argomentazione, quasi una provocazione, che sarebbe interessante verificare con le posizioni di altri missionari, sia della Consolata che di altri istituti religiosi.
DOPPIA APPARTENENZA
UN’OPPORTUNITà?
Dopo aver sintetizzato le caratteristiche principali di una comunità religiosa così come emergono dalla pubblicistica più aggiornata e autorevole («non si potevano scrivere parole migliori», commenta p. Bellagamba) e prima di chiedersi se una comunità religiosa sola possa offrire possibilità reali di crescita personale, ministeriale, professionale e religiosa in terra di missione, il padre si pone un’altra domanda: «Ma la nostra esperienza di comunità corrisponde davvero a queste descrizioni?»Dopo cinquant’anni di vita comunitaria, trenta dei quali passati in contatto con missionari di tutti gli istituti e nazionalità, con schiettezza, risponde che sarebbe troppo bello per essere vero.
E allora perché non prendere in considerazione l’esempio stesso di Gesù, per il quale comunità e missione si includono a vicenda come elementi costitutivi del suo discepolato? Se è vero, inoltre, che Gesù vive intensamente i rapporti intercomunitari con i dodici apostoli e con i settantadue discepoli, è altrettanto certo, però, che non esclude dal suo orizzonte incontri e vincoli con altre realtà comunitarie del suo tempo.
Ora, anche un missionario si deve sentire profondamente coinvolto nella vita della sua comunità di appartenenza, migliorandone i rapporti, la preghiera, la condivisione fraterna, l’elaborazione di un progetto comunitario di vita e anche la piena disponibilità a una continua revisione di vita.
Ma dopo aver fatto tutto questo, nulla esclude, osserva p. Bellagamba, che «possiamo ritenerci liberi di far parte anche di altre comunità, che completino i ruoli e l’influenza della nostra comunità, pur senza sostituirla». Anche l’eventuale adesione ad alcuni nuovi movimenti ecclesiali (il riferimento esplicito è allo spirito di famiglia del movimento dei Focolari, alla devozione mariana dei monfortani, alla libertà e alla gioia proprie del Rinnovamento nello Spirito) non dovrebbe essere valutata come una “diserzione” dallo spirito del proprio istituto. Perché non cogliere da queste altre realtà ecclesiali quegli elementi costitutivi della loro spiritualità che non è dato trovare nel proprio istituto?
L’esperienza quotidiana dei missionari che cercano di armonizzare la vita comunitaria con la vita missionaria, osserva p. Bellagamba concludendo la sua ampia riflessione, ci dice che è «un compito molto difficile, se non quasi del tutto impossibile». Sono proprio i frequenti contrasti che provengono dal vivere e dal lavorare insieme che di fatto poi «rendono difficile pregare bene, essere aperti, condividere fino in fondo».
È del tutto inutile «continuare a scrivere sulla necessità della vita comunitaria senza affrontare le vere difficoltà che troviamo nel viverla; può perfino essere controproducente, se non offriamo una via di uscita a questo dilemma». E la via d’uscita, per il padre, è quella di pensare ad una vita comunitaria a “diversi livelli”, ciascuno dei quali può essere in grado di trasformare l’impegno missionario in una “bella avventura”, in una attività pienamente soddisfacente. Per arrivare a questi risultati però, si dovrebbe essere un po’ più creativi e più coraggiosi nell’affrontare questa questione, anche «permettendo ai confratelli di fare questi tipi di esperienza, per il bene di tutti».