UN PROBLEMA POLITICO E UMANITARIO
IL DRAMMA DELL’IMMIGRAZIONE
È ipocrisia
litigare per un accenno a Dio nella costituzione europea o per conservare il
crocifisso nelle aule scolastiche, se poi si chiude la porta in faccia a chi è
nel bisogno. Del tutto insoddisfacenti le soluzioni finora adottate.
Che una carretta del mare sbarchi dei clandestini sulle coste della Sicilia, che un’altra sia stata avvistata al largo delle coste, che un’altra abbia fatto naufragio prima di entrare nelle acque italiane al largo della Tunisia, dobbiamo ammetterlo, non fa più notizia, anche se ogni volta sono diecine e diecine di persone che rischiano la vita.
È quasi inevitabile fare il callo a queste notizie nel mare dell’informazione. Così non diamo più peso alle reazioni del mondo politico che vanno da sparate indegne di persone civili («li rigetteremo in mare con i cannoni della marina militare») fino alla difesa, diplomatica e prudente, del sistema da parte dei responsabili della sicurezza delle frontiere. D’altronde ci assicurano che il flusso migratorio è diminuito, dopo le convenzioni stipulate con i governi limitrofi. Ci possiamo dedicare perciò a problemi più immediati che affannano il paese: la tenuta della maggioranza, l’inerzia dell’opposizione, la riforma delle pensioni, l’inflazione crescente, i prezzi del mercato ortofrutticolo, la crisi del calcio e le responsabilità per il black out di fine settembre ecc., mentre Lazzaro sta sulla soglia, mendicando attenzione e un tozzo di pane nell’indifferenza generale. Tanto ci sono le leggi!
Certo, la legge c’è, la n. 189, una legge di modifica
alla normativa in materia di immigrazione e asilo, detta «Fini-Bossi», dal
nome di coloro che l’hanno proposta. Ma in questo primo anno dalla sua entrata
in vigore essa si è dimostrata iniqua e inefficace, come ha denunciato Caritas
italiana che di questi problemi è ben più esperta del governo e dei
legislatori. Ma perfino il ministro degli Interni ha dovuto riconoscerne “i
limiti” (Avvenire del 26 ottobre 2003).
UNA NUOVA CONSAPEVOLEZZA
Come sempre, ci sono voluti i morti per scuotere la coscienza civile del nostro paese. Tutto comincia alla metà dello scorso ottobre quando nel canale di Sicilia è stato avvistato e rimorchiato fino a Lampedusa un barcone di clandestini somali. Aveva a bordo quattordici uomini ormai allo stremo insieme a undici cadaveri. Da quindici giorni vagavano per il Mediterraneo, vittime di un sogno di libertà e di lavoro e, ancora più, di scafisti senza scrupoli che, dopo aver esigito da ciascuno di loro cinquemila dollari, li hanno portati a morire in mare. Molti altri (si parla di un’ottantina di persone) erano nella stessa comitiva e sono morti prima di arrivare.
«Doveva essere la porta d’Europa. Ora Lampedusa è diventata un cimitero», ha detto il vescovo di Agrigento. E il ministro Pisanu: «La tragedia di Lampedusa pesa sulla coscienza dell’Europa». La tragicità del fatto è balzata agli occhi di tutti, con la necessità di fare qualche cosa di più e di concreto per curare questa piaga: «Deve essere varata al più presto una agenzia per il controllo delle frontiere», ha detto Romano Prodi, ma anche una politica europea comune sulle migrazioni, aggiungiamo noi.
Il problema infatti è politico e umanitario, perché sono
già parecchie centinaia gli immigrati morti mentre attraversavano il Canale di
Sicilia e, prima ancora, il deserto del Sahara e sulle coste della Libia altre
migliaia di africani aspettano, pazientemente ma con determinazione, il loro
turno per sbarcare nell’Unione Europea. Si tratta di un problema politico vasto
e complesso che attende una soluzione a livello nazionale e continentale. Un
uomo politico di casa nostra ha detto in quei giorni: «Se i paesi ricchi non
finiranno di difendere i loro privilegi, queste persone continueranno a venire».
È, più o meno, ciò che aveva detto, anni fa, Helder Camara: se ai poveri non
si aprirà la porta, finiranno per forzarla. Lo capiamo con un po’ di ritardo.
Meglio tardi che mai.
LE SOLUZIONI FINORA ADOTTATE
La Chiesa, attraverso la Caritas delle diocesi interessate e le varie forme di volontariato, è stata pronta ad affrontare queste situazioni, perché il soccorso ai poveri viene prima della difesa dei confini nazionali, e la sua azione è stata molto più efficace di tanti discorsi dei politici. In questi anni le comunità cristiane, e in particolare i religiosi, del nostro paese, sulle coste delle Puglie e della Sicilia, hanno scritto delle pagine stupende di carità cristiana. Ma è solo la Chiesa che deve intervenire? Non rischia forse di caricarsi le responsabilità dell’amministrazione civile?
La politica urlata di questi ultimi tempi non ha fatto altro che alimentare la paura nella gente: gli immigrati vengono a rubare il posto agli italiani, sono dei ladri, degli stupratori, manovalanza per il crimine organizzato, per lo spaccio della droga e per la prostituzione. E con la paura, la xenofobia e il razzismo. L’unica cosa da fare, secondo i partiti xenofobi, è rispedirli tutti a casa loro, con le buone o con le cattive (preferibilmente con queste ultime…), fare degli accordi bilaterali con i paesi di provenienza, ma solo con quelli che dimostrano di sapere e volere controllare il fenomeno e, infine, pretendere dai paesi poveri l’applicazione di politiche di controllo della natalità.
Sono state poche e flebili le voci che ricordano che anche noi siamo un popolo di emigranti e che dovremmo ricordarci come siamo stati trattati per non trattare altrettanto male gli attuali immigranti. Davvero la nostra memoria storica sembra troppo corta!
NON È SOLO UN’EMERGENZA
È insensato parlare dell’immigrazione come di un’emergenza. Il fenomeno migrazioni non è estemporaneo, ma epocale. Dura ormai da anni e durerà ancora, anche se sentiamo parlarne solo quando ci scappano dei morti. La mobilità è un dato strutturale della società globalizzata. Da una parte abbiamo bisogno di questa manodopera, dall’altra queste persone, affamate e senza lavoro, sbarcano in Italia attratte dall’immagine, falsa e deformata, del nostro modo di vivere, un’immagine quotidianamente proposta dalla televisione italiana che si vede a casa loro.
Rifiutare pregiudizialmente gli immigranti non è la strada giusta, non è ragionevole né civile. Davanti a chi bussa alla nostra porta dobbiamo, quanto meno, domandarci perché viene. Ci sono rifugiati e rifugiati, poveri che fuggono dalla guerra o dalla persecuzione politica. Essi possono essere una potenzialità per il nostro paese che, come altri, ha bisogno di manodopera per quei lavori che gli italiani non vogliono più fare. È altrettanto certo che sarebbe sbagliata anche una politica che aprisse indiscriminatamente le porte a tutti e non sarebbe rispettosa degli altri.
Quello che non dobbiamo fare è assistere inerti a questo
esodo. Accoglierli solo perché ne abbiamo bisogno, o perché ci sono lavori che
nessuno vuol più fare …è troppo poco. In mezzo ai due estremi c’è la
strada della giustizia che sa che la terra è di tutti e che sulla proprietà
privata c’è una ipoteca sociale, come ricorda il papa in Laborem
exercens, perché tutti gli uomini hanno diritto alla vita e al lavoro. La
soluzione verrà dalla ricerca comune, dalla coscienza che alla radice ci sono
situazioni di inimmaginabile povertà e ingiustizia, frutto di una politica non
solo locale, ma anche mondiale della quale siamo responsabili in solido tutti.
Finché il mondo ricco non si accollerà seriamente e concretamente i problemi
del mondo povero e farà vedere, attraverso i mass media, anch’essi
ormai globalizzati, una tavola imbandita, chi sente i morsi della fame, accorrerà
per avere almeno le briciole.
UNA LEGISLAZIONE INIQUA
È chiaro che ci vuole una legge per regolare l’immigrazione e l’asilo e per scoraggiare ed eliminare la clandestinità. Ma a volte abbiamo l’impressione che si faccia di tutto per rendere impossibile la regolarizzazione e/o gli ingressi regolari. Basta andare all’ufficio stranieri di una questura in una città di provincia per vedere come sono trattati questi nostri fratelli e sorelle immigranti. Costretti a far la fila per giorni, a volte anche di notte, in attesa di presentare il loro caso, alla fine si sentono dire: «Oggi no, vieni domani», oppure: «Oggi non c’è l’impiegato, vieni fra tre giorni», oppure: «Manca ancora una carta»… mentre uno ha diligentemente fatto tutto ciò che gli era stato detto.
Ma quello che rende ingiusta e iniqua questa legge è soprattutto che il permesso di soggiorno per lo straniero è legato al contratto di lavoro. Il permesso dura due anni; se nel frattempo lo straniero, per qualsiasi ragione, dipendente o indipendente da lui, perde il lavoro, dovrà tornare in patria, altrimenti diverrà “irregolare”, e allora scatta l’espulsione. L’extracomunitario può, sì, far ricorso, ma questo deve essere fatto dal paese d’origine, ossia dopo essere ritornato a casa!
In breve, l’extracomunitario è misurato sulla sua
capacità del lavoro. E siccome la sua condizione di lavoratore dipende dalla
continuità del lavoro, della ditta (che potrebbe fallire), dagli umori e dagli
interessi del datore di lavoro, il suo futuro poggia sul nulla della precarietà.
Come pensare a un eventuale ricongiungimento familiare, all’educazione dei
figli, alla scuola, all’assistenza sanitaria? È esattamente il contrario di
quello che insegna la dottrina sociale della Chiesa: «Non è l’uomo per il
lavoro, ma il lavoro per l’uomo» (Giovanni Paolo II, Laborem exercens).
LE SOLUZIONI APPROPRIATE
Il problema immigrazione deve essere sentito come un problema di tutti gli italiani e non solo di coloro che si trovano sulle coste meridionali del paese, e, insieme, come un problema di tutti i cittadini d’Europa. Sarà difficile farlo sentire agli scandinavi, che non lo vivono da vicino, ma tutti i paesi europei devono collaborare alla soluzione del problema, che comporta più della sorveglianza delle coste e delle frontiere. A medio e breve termine, tutti i paesi europei dovranno condividere gli oneri dell’accoglienza e dello smistamento degli extracomunitari. Ma a lungo termine l’Unione Europea deve investire nello sviluppo dei paesi più poveri da cui vengono gli emigranti, per dare loro una concreta speranza in loco.
Se l’Europa ha bisogno di manodopera, non può farlo che trattando gli immigrati da persone umane e non da schiavi che devono solo lavorare. Sono uomini che hanno una famiglia, che hanno diritto di farsela, se non ce l’hanno, e di mantenerla. Essi devono essere in grado di avere una casa, uscire dalla precarietà, integrarsi nel nostro tessuto sociale, avere un futuro.
È ora che noi manteniamo gli impegni già presi. Nel 1974
l’Italia aveva promesso (forse è il verbo giusto… perché i programmi
governativi in questa materia sanno tanto di propositi da fine esercizi) di
versare lo 0,70% del bilancio come aiuto ai paesi in via di sviluppo. Risulta
che oggi quello che versiamo è appena lo 0,29%, una cifra che è inferiore alle
rimesse in denaro fatte dagli extracomunitari alle famiglie rimaste a casa, che
saranno anche più consistenti di quanto lo stato riesca a sapere. E le promesse
fatte al G8 di Genova? Questa è l’ora della verità dell’Europa e nostra,
che mostrerà se siamo gli eredi di quella civiltà di cui andiamo tanto fieri.
E NOI CRISTIANI E RELIGIOSI?
Il problema è politico, ma è anche umanitario. Questa emergenza deve essere l’occasione per un cambiamento radicale, anche se non facile, ma è decisivo. È ora che la smettiamo di aver paura dell’altro e nello straniero che è tra noi dobbiamo vedere non solo una risorsa, ma anche un dono, un’opportunità per incontrare l’Altro. Finché gli extracomunitari non li sentiremo fratelli, riconciliati con noi, come Giuseppe e i suoi fratelli in Egitto, non ci sarà possibilità di accoglierci reciprocamente e di costruire un mondo diverso. Sì, questa è l’ora della verità: da come l’Europa risponderà a questa sfida si capirà quale è la sua radice autentica: se essa guarda solo all’interesse proprio o anche a quello di altri con cui condivide l’umanità, se essa è una comunità che si ispira davvero all’eredità ebraico-cristiana dell’Alleanza con il Dio “che non usa parzialità, che rende giustizia all’orfano e alla vedova, che ama il forestiero, perché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto” (Dt 10,17-18) e all’ “ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt 25,35) oppure se essa è retta solo dalle leggi del libero mercato. Vogliamo fare la prova? Se così non fosse, non sarebbe una grande ipocrisia litigare per introdurre un accenno a Dio nella costituzione europea e voler conservare il crocifisso nelle aule scolastiche e giudiziarie?
È ovvio che in questa faccenda sono chiamate in causa le chiese, le comunità cristiane e tutte le persone di buona volontà a cominciare da noi religiosi e missionari. La prima cosa da fare è quella di liberarci dalla paura e da quella specie di xenofobia che, qualche volta, contagia anche i nostri ambienti. Come cristiani e come religiosi, dovremmo essere i primi ad aprire le porte, con cordialità, anche se con la necessaria precauzione, a questi fratelli. Quante delle nostre case sono vuote o semivuote! Non si tratta sempre di metterle materialmente a disposizione, ma di tenerle cordialmente aperte, per offrire ascolto, conforto e, quando necessario, aiuto. Non dimentichiamo la lezione della donna cananea: “Anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni” (Mt 15,27). Essa piacque molto a Gesù che, dopo averne lodata la fede, le fece il miracolo richiesto, segno di quel Regno nel quale e dal quale nessuno sarà mai escluso.