KAROL IL GRANDE

 

Difficile raccontare 25 anni di un pontificato straordinario come quello di Karol Wojtyla. Ci aiuta un libro, uscito postumo, che è il sesto scritto dal giornalista Domenico Del Rio sul papa. Con lo stile semplice e brillante che lo contraddistingue, le prime 90 pagine sono una breve biografia dalla nascita all’elezione del santo padre; quindi se ne raccontano, interpretandoli con geniali pennellate, viaggi e documenti e incontri “storici”.

Luigi Accattoli al termine delle esequie di Domenico il 27 gennaio 2003 ha reso testimonianza alle sue ultime parole: «Vorrei far sapere al papa che lo ringrazio. Che lo ringrazio, con umiltà, per l’aiuto che mi ha dato a credere. Io avevo tanti dubbi e tanti difficoltà a credere. Mi è stato d’aiuto la forza della sua fede. Vedendo che credeva con tanta forza, allora anch’io un poco mi facevo forza. Questo aiuto l’avevo a vederlo pregare, quando si mette in Dio e si vede che questo mettersi in Dio lo salva da tutto. Ho scritto un libretto sulla fede del papa, quello intitolato Roveto ardente. Lì è spiegato che cosa intendo per “mettersi in Dio”. Ho cercato di fare come lui. I dubbi non li ho superati, ma non li ho più considerati. È come se li avessi messi in un sacco e li avessi lasciati mettendomi in Dio, come ho imparato a fare dal papa. Di questo lo ringrazio. Da nessuno mi è venuto tanto aiuto come dalla sua fede». Questa chiave di lettura, riportata nell’introduzione, illumina tutto il volume.

 

METTERSI

IN DIO

 

Nato il 18 maggio 1920, in un giorno di eclissi di sole, Lolek (diminutivo di Karol) Wojtyla aveva visto suo padre darsi alla preghiera subito dopo la morte prematura di mamma Emilia. Del resto egli stesso sentiva misteriosamente il fascino della contemplazione e, nelle pause dei turni di notte, si immergeva nella preghiera in un angolo della fabbrica Solvay di Cracovia.

Qui affonda le sue radici un pontificato non di santa quiete ma di movimento: «Voglio andare da tutti, da tutti coloro che pregano, dove essi pregano, dal beduino nella steppa, dalla carmelitana o dal monaco cistercense nei loro conventi, dal malato al suo letto di sofferenza, dall’uomo attivo nel pieno della sua vita, dagli oppressi, dagli umiliati. Voglio oltrepassare le soglie di tutte le case… ».

Ancora la preghiera fa da sfondo alla vicenda dell’attentato in piazza San Pietro, il 13 maggio 1981, raccontata in base alla diretta testimonianza del segretario del papa Stanislaw Dziwisz (pp. 112-126): pregò Woytila durante tutta la corsa in ospedale prima di svenire, nella lenta ripresa per accompagnare la contemporanea agonia del primate di Polonia card. Wyszynski, il giorno di Pentecoste per affidare la Chiesa e il mondo alla Madre di Dio.

Questa capacità di mettersi in Dio si è espressa, per esempio, con due atti simbolici di straordinaria potenza teologica e mediatica nell’anno 1986: con la visita alla sinagoga di Roma e nell’incontro insieme ai rappresentanti di tutte le religioni in Assisi (pp. 152-164). Mettersi in Dio ha significato dunque, per il papa globe trotter, sentirsi in casa ovunque si recasse («Io, disse ai vescovi americani in un drammatico incontro nel settembre 1987, non vi raggiungo dal di fuori, sono già dentro la vostra Chiesa»): all’est nel mondo che rigettava Dio costituzionalmente e all’ovest dove un mondo pensava di fare a meno di Dio.

Mettersi in Dio è ancora il motivo profondo dell’atto penitenziale compiuto il 12 marzo 2000. Nessun papa ha steso una lista così lunga e drammatica degli errori e degli orrori commessi dai credenti in Cristo, in alto e in basso nella Chiesa. Di fronte a quel drammatico storico orizzonte cristiano c’è la figura di un papa evangelico, orante, penitente, perdonante. «Chiedeva perdono al grande Crocifisso che era posto accanto a lui, antico, sanguinante, immagine e realtà di una sofferenza suprema, era il corpo caricato di tutte le iniquità degli uomini, non per una condanna ma per una offerta divina di redenzione. I piedi di quel Crocifisso baciò il papa. Li baciò a nome di tutti i cristiani, in penitenza di tutti i cristiani, perché voleva mostrare che quel Crocifisso era stato inchiodato al legno non dai nemici di Dio, non dai nemici della Chiesa, non dai persecutori dei cristiani, ma dagli stessi credenti in Gesù, dagli uomini che si erano proclamati e si proclamavano suoi fedeli…. Erano le mani cristiane che avevano crocifisso Cristo nel passato… C’era un’acqua per lavare quelle mani? Il papa ricordava sant’Agostino che diceva: “La Chiesa ha acqua e lacrime: l’acqua del battesimo e le lacrime della penitenza”» (p. 278 ss.). Karol il grande celebra una Pasqua penitenziale nel giubileo del duemila, per far emergere l’immagine dell’uomo nuovo nel nuovo secolo: l’uomo «che custodisce una pace giusta e duratura, che entra in dialogo con gli altri, che pone fine ai conflitti, alle tensioni, alle vecchie e alle nuove rivalità, che respinge razzismo e xenofobia».

 

COME

UN ROVETO ARDENTE

 

Da giovane, contro il nazismo, aveva fatto resistenza con l’impegno intellettuale, con il messaggio del teatro. Contro il marxismo, che inculcava un pensiero snaturante l’umanità, aveva reagito con l’insegnamento dell’etica: etica come resistenza al regime comunista e come celebrazione del valore dell’uomo, rivendicazione dei diritti di ogni creatura umana.

E tuttavia c’è di più: egli oppone a ogni ideologia o regime, anche a quella di stampo capitalistico, il Vangelo. Per Karol Woytila, solo apparentemente l’uomo è il soggetto principale, il vero soggetto è “Uno disceso dal cielo”. Uno apparso sulla terra nella veste di uomo, che ha amato le cose dell’uomo, la tavola, il pane, il vino, le strade, i poveri e gli emarginati, il lago, il fiume e i ragazzi che giocavano sulla piazza del paese. E alla fine ha prestato il suo volto al dolore dell’uomo, alla grande sofferenza in croce. È lui che racchiude in sé il volto di tutti gli uomini; lui che, in una redenzione continua, accompagna ancora ognuno sulla strada della terra.

Consapevole di tutto questo, Del Rio ha scritto con l’intenzione di andare oltre la pubblicistica che descrive il papa come un restauratore nel governo della Chiesa o quella che lo esalta come un pontefice politico. Non lo soddisfa l’interpretazione che è oggi maggioritaria: un pontificato progressista nel mondo e conservatore in casa. Perciò ce lo descrive preferibilmente come il sedotto da Dio, come colui che avverte su di sé il chinarsi di Dio, che sfoga la sua voglia di Dio restando immobile, per ore, perso in meditazione. Confermando così quel suo farsi “viandante sullo stretto marciapiede della terra”.

«Non è bene che un papa viva per vent’anni. È anormale e non produce buoni frutti»: così scriveva il cardinale J.H. Newman che aveva vissuto sotto Pio IX e Leone XIII. Ebbene Giovanni Paolo II sembra smentirlo, stravolgendo i criteri storiografici e imponendosi come evangelizzatore itinerante dal grido a volte tremendo verso una umanità in fuga da Dio e da Cristo. Come Mosè è salito sul Sinai e «ha avuto il dono degli occhi per vedere Dio». Un giorno in India ha rivelato: «Quello che desidero raggiungere, quello su cui mi sfogo e mi tormento di raggiungere è vedere Dio faccia a faccia. Per questo esisto».

 

M.C.

 

1 DEL RIO D., Karol il Grande, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, pp. 335, € 18,00.