CONVERTIRE LE ILLUSIONI ATTRAVERSO LA PREGHIERA

 

Nei Vangeli vediamo in diverse occasioni come Gesù si ritiri in disparte per pregare. Nella preghiera Gesù trova progressivamente la conferma che è il Padre celeste a mandarlo.

 

Solo la preghiera ci consente di percepire un’altra voce, di rispondere a chiamate più alte, di trovare una via di scampo dal nostro bisogno di comandare e controllare. Allora i problemi che sembrano strutturare la nostra identità – chi dice bene di me e chi mi critica? Chi mi è amico e chi ostile? A quanti piaccio? – non saranno più così importanti. Se facciamo di Dio il fulcro delle nostre vite, la percezione che avremo della nostra identità dipenderà assai meno da ciò che gli altri pensano o dicono di noi. Cesseremo di essere schiavi dei rapporti interpersonali.

La preghiera ci educa infatti a non fare della sfera interpersonale un idolo. Ci ricorda che noi impariamo ad amare solo perché abbiamo intravisto o percepito un amore prioritario, supremo, assoluto. Qui sta la chiave di un amore che trascende la sfera interpersonale: «Noi amiamo, perché egli ci ha amato per primo» (1Gv 4,19). Quando siamo toccati da quell’amore prioritario troviamo la libertà. Perché è quell’amore a liberarci dalla nostra alienazione e scissione, a placare le nostre compulsioni ad accumulare e a pretendere di poter organizzare il futuro, a permetterci di amare il prossimo.

La preghiera promuove una disposizione di spirito che vede il mondo non come qualcosa da possedere, ma come un dono che incessantemente ci parla del suo Donatore. Ci libera dalla sofferenza che deriva dall’ossessione di far le cose a modo nostro, apre i nostri cuori a ricevere, ci rammenta che è il prossimo a rivelarci il dono della vita.

Allora troviamo il coraggio di affrontare i nostri limiti e le nostre lacerazioni, che siano il nostro aspetto fisico, la nostra emarginazione, i nostri ricordi di maltrattamenti o abusi, il nostro essere stati vittime dell’altrui prevaricazione. E nel trovare la libertà di gridare la nostra sofferenza, o di protestare contro quella altrui, ci scopriamo lentamente guidati in un luogo nuovo… Capiamo che la gioia non è fatta di svaghi e mondanità, ma non sta neppure nel possedere una casa o nell’avere dei figli modello. La gioia ha a che fare con un’esperienza profonda – l’esperienza di Cristo –. Nel quieto ascolto della preghiera, impariamo a percepire la voce che dice: «Che gli altri ti amino o no, io ti amo. Tu sei mio. Tu sei mia. Edifica in me la tua casa, dimora in me, come io dimoro in te».

Gesù risorto disse a Pietro: «In verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». Con queste parole, ci dice Giovanni, Gesù intendeva indicare con quale morte Pietro avrebbe glorificato Dio. Poi gli disse: «Seguimi» (Gv 21,18-19). Quanta radicalità in queste parole! Uno psicologo ci direbbe:«Quando eravate bambini qualcun altro vi vestiva e vi guidava, ma ora che siete cresciuti potete andare dove volete, agire di vostra iniziativa». Gesù ci dice invece che maturità significa disponibilità sempre maggiore a farsi guidare – anche verso luoghi in cui forse non desidereremmo andare –. Ed è in quell’ora e luogo del bisogno che noi ci volgiamo a un Altro. Ci rendiamo conto di non poter vivere senza Dio. E tutti i riconoscimenti e le consolazioni della vita assumono un aspetto diverso.

Queste cose sono difficili da dire e facili da fraintendere; possono essere interpretate come masochismo. Ma io non sto parlando di desiderio di punizione, bensì del lasciarci spogliare di quelle comode garanzie rappresentate dalla famiglia, dagli amici, dal successo, dalla salute e dai modi di pensare convenzionali. E noi siamo in grado di farlo, perché nella preghiera impariamo a confidare che la nostra nudità sarà da ultimo rivestita dalla misericordia di Dio. Piangere nel modo giusto le nostre perdite significa non solo affrontarle, ma anche accettarle di buon grado come occasioni per seguire con maggior radicalità la voce dell’amore.

Il Vangelo ci chiama incessantemente a fare di Cristo la fonte, il fulcro e lo scopo della nostra vita. In lui troviamo la nostra dimora. Nella sicurezza di quel luogo il nostro dolore può avvicinarci a Dio, addirittura condurci nel suo abbraccio amorevole. Allora piangere le nostre perdite si tradurrà in ultima analisi nella presa di coscienza del nostro essere amati, prediletti. Il dolore ci apre a un futuro che mai avremmo potuto immaginare, un futuro fatto anche di danza.

 

Henri Nouwen, Muta il mio lamento in danza. Vivere con speranza i tempi della prova,

Edizioni San Paolo, 2003, pp. 43–47