ALLA RICERCA DELL’IDENTITÀ

MI DOMANDO MA IO CHI SONO?

 

Il religioso oggi ha perso molte cose che sembravano essere esclusive del suo stato e parevano costituire la sua specificità. Viene interpellata la sua identità e la natura della sua condizione nella Chiesa. Le riflessioni che seguono sono di un religioso che si definisce immaginario, ma non troppo.

 

Il dilemma: continuare a leggere o smettere? Non è un dilemma da poco: se continuo a leggere gli articoli sulla vita religiosa rischio di rimettere in discussione tante certezze e convinzioni assodate in 40 anni di (quasi) onorato servizio nella vita consacrata; se smetto continuerò a credere che quanto appreso e vissuto sia ancora valido, ma mi resterà comunque il tarlo del dubbio sulla sua validità attuale, dubbio instillato appunto dalle pagine lette.

Perché la lettura (non da oggi, ovviamente, ma in questi ultimi tempi in modo accentuato) mi chiama a riflettere non su una questione marginale che posso allegramente catalogare tra le elucubrazioni stagionali degli esperti, ma addirittura sull’identità e natura stessa della vita consacrata. L’inquietudine è poi aggravata non di poco dal fatto che in tutti questi volumi e articoli ritorna ossessionante la parola crisi che apre all’anima tranquilla (e che vorrebbe restare tale) una serie di interrogativi che non lasciano dormire e chiamano in causa il senso stesso della vita scelta.

Si mette la vita consacrata – così come finora è stata concepita e vissuta – sotto la lente di una rinnovata teologia, delle esigenze della cultura contemporanea e la si trova superata, inadeguata, da ripensare seriamente e in profondità. E la constatazione che tale crisi riguarda tutti gli istituti e non soltanto il mio non è di grande consolazione: in questo caso non esiste il mezzo gaudio.

Quello che più mi preoccupa e non lascia vie di facile fuga nell’ottimismo o in una liberante alzata di spalle è il fatto che la crisi che i testi descrivono è reale e le riflessioni non sono per niente contestabili: i vari autori, gente qualificata e niente affatto incline al superficiale pessimismo, presentano ragioni inconfutabili, direi visibili per chi non si chiude volontariamente in un passato blindato. Hanno ragione di essere preoccupati: la situazione della vita consacrata è piuttosto seria.

 

UN INTERROGATIVO

NON DA POCO

 

Le prove sono inquadrate in un clima storico e culturale ineccepibile e le conseguenze hanno la forza logica dei sillogismi, quelli veri. Dal che risulta che sono chiamato a interrogarmi: Ma io chi sono?. E non è un interrogativo da poco, dopo i 40 anni di tranquillo possesso del mio “io religioso”. Qui vacillano le basi e le radici del mio essere. Ma l’analisi è credibile e mi dice che devo ripensare la mia identità di religioso, per sbarazzarmi dell’uomo dalle concezioni vecchie per rivestire le concezioni nuove, per essere un uomo religioso nuovo.

La vita consacrata – mi dicono, in sintesi, le letture – si deve liberare, magari con comprensibile riottosità, dopo tanti anni di sicurezze comunitarie e di placidità individuale, di alcune specificità che fino ad ora la contraddistinguevano, nella concezione e nella prassi di tanti religiosi, in rapporto alla vita del cristiano comune e si deve sbarazzare della presunzione di essere e di avere quel qualcosa in più rispetto alla massa del gregge cristiano che la mettevano su un piedestallo a parte e riverito nella Chiesa.

Le letture mi chiedono una conversione mentale di un certo rilievo dottrinale ed esistenziale. Provo a enumerare per me alcuni aspetti che sono chiamato a prendere in considerazione.

 

1) Credevo di avere abbracciato lo stato di perfezione, il che mi spingeva alla ricerca, senz’altro dura, ma elitaria, della santità. Adesso mi dicono, giustamente e con tanti argomenti di ecclesiologia più che convincenti, che la santità è la ricerca e il traguardo naturale di tutti i cristiani, richiesta dal battesimo stesso e dalla sequela di Cristo. Addio all’esclusiva della perfezione che dava un tocco di nobiltà alla vita consacrata.

 

2) Una pulce, grande, in verità, nell’orecchio me la mettono pure nei confronti dei voti: anche i sacerdoti diocesani non debbono scherzare su questi punti. Riguardo alla povertà: non è che possono, se intendono essere a servizio serio della Chiesa, trafficare in borsa, cercare il proprio profitto a ogni costo, anche se un pensiero a un onesto benessere non è certo escluso, e debbono pensare alle opere parrocchiali e ai poveri. Riguardo all’ obbedienza: hanno anche loro un superiore, il vescovo, al quale promettono obbedienza e disponibilità per i luoghi e la natura del ministero, e spesso vengono loro richiesti gesti di obbedienza più forti che a tanti religiosi. Riguardo alla castità: anche loro non possono sposarsi e un po’ di attenzione in questo vasto e complesso campo non guasta. Senza contare che tantissimi laici molte volte obbediscono più fortemente di noi nel mondo del lavoro e vivono la povertà in modo più profondo e reale.

E così se ne va un’altra esclusiva, anche se questa – in verità – già meno evidente di quella ricordata in precedenza.

 

3) Mi restavano le opere della congregazione, orgoglio storico dell’istituto e ragione di essere personale: sentirsi utile per la congregazione in una o più opere, causa trasferimenti e cambiamenti di ministero, era una sensazione acquietante e appagante e si aveva la netta impressione di essere necessari alla società e insostituibili in settori primari della vita civile.

Adesso mi dicono, trasformazioni culturali e sociali alla mano, che tante opere hanno cambiato, stanno cambiando e cambieranno committente: lo stato si è messo nel campo scolastico, sanitario, assistenziale e molti istituti si sono trovati e si troveranno ancora di più nei prossimi anni – in questi ambiti così vitali, tipici e significativi per la loro identità – a spasso, per mancanza di clienti.

E allora: addio a tante opere nelle quali generazioni di religiosi hanno trovato la ragione della loro vita consacrata.

Inoltre – sempre nel settore “opere” – occorre per i religiosi convincersi che non sono in una terra di nessuno ove è possibile lavorare, scavare, costruire senza rendere conto a nessuno né dipendere da alcuno. Infatti la chiesa locale – così rivalutata nell’attuale riflessione e prassi postconciliare – ha qualcosa da dire, pur tenendo conto dell’universalità della vita consacrata, nel campo pastorale, educativo, liturgico. Mi si richiama alla diocesanità, da precisare, certo, ma da tenere presente nell’impegno pastorale.

E allora: addio anche a certe indipendenze, gioia e delizia di tanti consacrati e addio a un’altra – questa presunta, autodefinita, in verità – specificità.

 

DOV’È FINITO

LO SPECIFICO?

 

Mi sento defraudato delle mie già vacillanti certezze, un po’ scorticato vivo: mi tolgono pezzi di pelle ideologica che aveva tenuto insieme le ossa e i muscoli della vita consacrata.

Insomma mi chiedo: non c’è proprio uno specifico che salvi il mio essere persona consacrata e che mi dice: vale la pena e ha senso essere religioso e non diocesano, per esempio? Se cadono tutte queste esclusive che mi resta?

Eppure tanti ambiti hanno il loro bravo specifico. Diamine, si cercava anche lo “specifico filmico” quando si studiava il mondo dei mass media: problema intrigante, che interessava sì e no una dozzina di cinefili su milioni di spettatori, ma lo si discuteva seriamente.

Se voglio essere religioso in un istituto tradizionale di vita attiva, riconosciuto dalla Chiesa e con tanto di santo fondatore all’origine, con un carisma mica male e collaudato dalla storia, dove devo radicarmi per non entrare in fibrillazione di identità, per riconoscermi non superato, inutile, spostato? Per non essere alienato, come chi non ha più certezze, gratificazioni, luogo di consistenza?

Sono interrogativi che richiedono una risposta o almeno la ricerca di una risposta. «Ne va della mia vita» direbbe don Abbondio.

 

QUALCOSA

FORSE RESTA

 

Per fortuna le letture, dopo che mi hanno cancellato dalla testa varie certezze, tra l’altro trasmessemi senza tanto spirito critico e discernimento, lasciano aperto un varco di speranza: resta la vita comunitaria. È vero che mi spingono a rivederla in alcuni settori e nei riguardi di certi convincimenti, ma almeno mi offrono una via di scampo.

Se tengo presente questo specifico – lasciatemelo chiamare così, almeno per noi religiosi degli istituti tradizionali – anche le altre esclusive perdute riprendono un colore e un senso nuovo.

Infatti: è vero che il mio ministero è sulla stessa strada – la causa evangelica è comune, ovviamente – dei diocesani, ma si inserisce in un contesto di forza e di comunione fraterna comunitaria che il pur necessario “presbiterio” non possiede. Nella comunità religiosa – se funziona, come dovrebbe – il progetto è più chiaro, la diversità dei ruoli è concepita nell’unità del disegno e nella complementarietà del servizio, la condivisione è possibile ogni giorno, a cominciare dalla corroborante e stimolante agape fraterna.

In questo contesto la ricerca della perfezione, pur essendo compito di tutti i cristiani, avviene in un reciproco aiuto, in un clima di fraternità e santa competizione e di carità, che soltanto una stretta convivenza basata sullo Spirito rende possibile.

I voti – colti nel loro profondo significato di rinuncia a se stessi per donarsi completamente a Cristo – diventano la radice della formazione di una famiglia spirituale che riunisce persone convocate non dal sangue ma dallo Spirito, per una vita nello Spirito.

Comunità, ultima speranza? Forse o – amo credere – senz’altro. Centralità di Cristo e comunione con lui, ma cercato e vissuto in comunione con i fratelli! E il carisma riscoperto realmente come un dono comune, che radichi la vita spirituale e guidi la natura delle opere, che ci vogliono, ma viste in una nuova ottica.

A questa comunione possono allora guardare gli altri, diocesani e laici, e scoprire in essa il perché di una famiglia un po’ strana secondo gli standard vigenti, ma valida e significativa secondo gli standard sovvertitori del vangelo. E quanto più la comunione è ritrovata e vissuta tanto più si espande nella più grande comunità della Chiesa, senza tradire il proprio carisma, come si dice, ma portandolo a fecondare le comunità cristiane locali. Le infinite vie del Signore passano sempre – per la vita consacrata – attraverso le comunità ecclesiali.

La comunione della comunità mi chiede, innanzi tutto, di vivere questa dimensione, che diventa l’apostolato primo e indispensabile, mi rassicurano le letture, prima ancora di ogni opera. Se ho ben capito: allora il mio essere religioso si struttura prima di tutto in una vita fraterna di comunione con Dio, comunione che posso raggiungere soltanto facendo comunione con i fratelli.

Cosa non facile, ma propria, specifica della vita consacrata. Forse – dico forse – ci siamo: la vita religiosa, così come concepita e vissuta in questi ultimi secoli, non è del tutto diluita in uno stile cristiano pur richiesto a tutti i credenti. Nella Chiesa ha ancora valore la vita religiosa, anche se occorre giustamente ripensarla, accantonando per sempre tanti aspetti “esclusivi” che rischiavano di fare dei consacrati una “casta” a parte nella grande comunità del popolo di Dio.

Bene, cercherò di aggrapparmi a questo sostegno e punto di riferimento, per non perdere 40 anni di (quasi) onorato servizio. E che Dio me la mandi buona (la comunità).

 

Ennio Bianchi