A PROPOSITO DI ESERCIZIO DELL’AUTORITÀ

IL SUPERIORE GENERALE

E IL SUO CONSIGLIO

 

Quale rapporto tra il superiore generale e i suoi consiglieri? E quali sono le caratteristiche di un consiglio che eserciti un buon servizio? Considerazioni su alcune possibili “disfunzioni”.

 

Un ampio articolo di padre Agostino Gardin – già superiore generale dei frati minori conventuali – ha affrontato il tema delicato del rapporto tra il superiore generale e il suo consiglio.1 Testimoni lo offre ai suoi lettori dividendolo in due parti, rispettando la distinzione fatta dall’autore nel trattare l’argomento.

Padre Gardin intende condividere «delle semplici considerazioni sul funzionamento concreto di questa istituzione, suggerite dalla pratica, mettendo in luce soprattutto ciò che ostacola lo svolgimento dei rispettivi ruoli. Ovvio che quanto andrò dicendo potrà essere applicato, magari in scala ridotta, anche al superiore provinciale e al suo consiglio».

 

IL CONSIGLIO E L’AUTORITÀ

PERSONALE DEL SUPERIORE

 

La sua analisi inizia richiamando il dettato del CJC, che dedica al consiglio dei superiori solo il canone 627, composto di due paragrafi. Esso recita:

 

§ 1. I Superiori abbiano il proprio consiglio a norma delle costituzioni e nell’esercizio del proprio ufficio sono tenuti a valersi della sua opera.

§ 2. Oltre ai casi stabiliti dal diritto universale, il diritto proprio determini i casi in cui per procedere validamente è richiesto il consenso oppure il consiglio, a norma del can. 127.

 

Il CJC, inoltre, affida alle costituzioni dei singoli istituti il compito di delineare una più definita fisionomia del consiglio, denotando la non piccola importanza di questo strumento di governo.

Non è superfluo ricordare, in primo luogo, che «l’autorità del superiore è personale, non collegiale, anche se possono essere collegiali alcune modalità di decisione previste dal diritto. Le decisioni sono sempre del superiore, egli ne è il vero responsabile, anche se, per giungere a esse, opera un discernimento nel quale il consiglio è chiamato a dare il suo rilevante apporto, in forme diverse. Il consiglio non è dunque un organo di governo, né i singoli consiglieri si devono considerare dotati di autorità o di potere decisionale; non sono dei “superiori”».

Nello stesso tempo – sottolinea p. Gardin – «nell’esercitare la sua autorità, il superiore deve essere assistito dal consiglio e di esso deve avvalersi. Perciò i consiglieri esercitano una funzione importante nella vita dell’istituto (o della provincia, o della comunità quando sia previsto il consiglio locale). Sul piano strettamente giuridico il compito dei consiglieri si esercita sostanzialmente nell’esprimere il consenso o il parere rispetto alle decisioni che il superiore è chiamato a – o intende – prendere; ma è evidente che l’aiuto al governo del superiore può essere dato in tanti altri modi suggeriti dalle circostanze».

 

UN SERVIZIO

ALLA FRATERNITÀ EVANGELICA

 

La finalità precipua del superiore e del consiglio è quella di servire l’istituto, «offrendo ai membri ogni aiuto utile a tendere alla “perfetta carità”, a vivere la sequela di Cristo e la conformità a lui, ad attuare – per richiamare i tre grandi capitoli di Vita consecrata – una profonda relazione con Dio, un’autentica vita fraterna, un impegno generoso nella missione».

In mezzo a tante problematiche di carattere amministrativo, giuridico, organizzativo, gestionale, ecc., è opportuno che il superiore richiami sovente a se stesso e ai suoi consiglieri la vera finalità del compito dell’autorità. Un’autorità che, convinta del primato dello spirituale, considera suo «compito prioritario l’animazione spirituale, comunitaria e apostolica della sua comunità» (La vita fraterna in comunità 50). Un’autorità «operatrice di unità... che si preoccupa di creare il clima favorevole per la condivisione e la corresponsabilità, che suscita l’apporto di tutti alle cose di tutti» (ivi, 51).

Per questa ragione, il gruppo di persone composto dal superiore e dai suoi collaboratori ha bisogno di pensarsi come una sorta di «piccola fraternità a servizio dell’istituto» e deve avere una “fisionomia spirituale”. Solo partendo dal primato della vita spirituale, e dalla convinzione che il compito primo dell’autorità è aiutare l’itinerario di crescita dei confratelli o delle consorelle nella conformazione a Cristo, chi ha responsabilità di governo di un istituto non scadrà a mero organizzatore di attività e gestore di strutture.

Fatta questa premessa, p. Gardin passa più concretamente al tema della relazione tra superiore generale e consiglio e ad alcuni problemi che si possono dare in questo ambito, raccogliendoli attorno ai due principi giuridici dell’autorità personale del superiore, e dell’obbligo del superiore di avvalersi dell’apporto del consiglio. Il rispetto di questi due principi aiuta o ostacola il buon funzionamento delle relazioni tra superiore e consiglio.

Il can. 618 afferma che il superiore gode di «autorità propria nel decidere e comandare ciò che va fatto». Superiore e consiglio, quindi, non si fondono insieme diventando un’autorità collegiale, né il superiore viene “assorbito” nel consiglio.

Per esemplificare p. Gardin presenta alcune situazioni, in cui il consiglio (o i consiglieri) non rispettano adeguatamente l’autorità personale del Superiore.

 

POSSIBILI “GONFIATURE”

DEL RUOLO

 

Anzitutto, ci può essere una consapevolezza non chiara del proprio ruolo nel consigliere (o nel consiglio), «che tende a “gonfiare” il proprio compito, considerandosi autorità, autore o artefice di decisioni, sia pur unitamente al superiore e agli altri consiglieri.

Avviene anche che il consigliere si attribuisca un compito di controllore dell’autorità, quasi che il superiore debba rendere conto a lui, o al consiglio, di tutto il suo operato, anche di quello che appartiene all’esercizio quotidiano dell’autorità».

È un rischio realistico, e comporta giochi psicologici complessi: il consiglio (o uno o alcuni consiglieri) ritiene di “sostenere” il superiore, ma in realtà lo pilota; lo sollecita alla condivisione delle problematiche, ma allo scopo che esse siano risolte sempre e comunque secondo la sua linea, con scarsa considerazione della posizione del superiore.

In questi casi si passa dalla dovuta collaborazione al superiore alla indebita imposizione nei suoi confronti di decisioni o di linee di comportamento. «È ovvio che le forme dell’imposizione possono essere “morbide”, rivestite di motivazioni “ragionevoli”, specie se la personalità del superiore è debole e arrendevole e se nel consiglio si trovano personalità forti e decise; ma vengono comunque snaturati i ruoli diversi del superiore e del consiglio».

 

IL CONSIGLIO

SOPRA IL SUPERIORE

 

Può avvenire che il superiore venga ridotto a esecutore della volontà del consiglio, per cui quest’ultimo non dà più pareri, bensì solo consensi.

Come ricorda il can. 627 § 2, vi sono decisioni o atti del superiore che hanno bisogno, per essere posti validamente, del consenso del suo consiglio, mentre altri hanno bisogno del parere (o consiglio) del medesimo consiglio.

 

Alcune di queste scelte, stabilite dalle norme, esigono, pena la loro invalidità, una chiara espressione del parere di tutti i singoli consiglieri. Ma, al di là di questi casi codificati, è normale che il superiore sottoponga alla valutazione del consiglio tante decisioni o problematiche o situazioni bisognose del suo intervento o progetti operativi di varia natura: per riceverne, appunto, consiglio. Ovviamente egli è libero, nei casi che non richiedono per legge il consenso o il parere, di avvalersi dell’apporto dei consiglieri nella misura che ritiene opportuna.

«Tuttavia – ecco il rischio da segnalare – questo clima, di per sé positivo e auspicabile, di ampia comunicazione e di positiva collaborazione potrebbe, più o meno inavvertitamente, creare nei consiglieri l’idea che essi devono vagliare, e poi approvare o bocciare, ogni decisione o scelta di comportamento o progetto del superiore».

Anche in questo caso, verrebbe snaturato il ruolo del consiglio che è sostanzialmente chiamato, come dice il termine, a consigliare, non a dirigere il superiore, rendendolo di fatto subalterno al consiglio, “esecutore” della sua volontà.

 

RISPETTO DEL SEGRETO

E RISERVATEZZA

 

Avviene non raramente che le situazioni personali di religiosi/e trattate dal superiore con il suo consiglio siano particolarmente delicate; il superiore può essere perciò tenuto, per varie ragioni, a un grande riserbo. La pretesa da parte del consiglio di vagliare ogni problema potrebbe indurre, o costringere, il superiore a violare una riservatezza che egli dovrebbe invece mantenere su alcuni casi particolari.

Quanto alla riservatezza e alla custodia del segreto, si tratta di un tema che il CJC richiama espressamente nel can. 127, che interessa direttamente il rapporto tra superiore e consiglio. Il § 3 di detto canone recita infatti: «Tutti quelli, il cui consenso o consiglio è richiesto, sono tenuti all’obbligo di esprimere sinceramente la propria opinione e, se la gravità degli affari lo richiede, di osservare diligentemente il segreto; obbligo che può essere sollecitato dal superiore». La riservatezza, come anche la discrezione e la prudenza, sono spesso atteggiamenti importanti per chi deve esercitare l’autorità o collaborare al suo esercizio.

La mancanza di riserbo o la non osservanza del segreto da parte di consiglieri è, in fondo, se non vi sono ragioni gravi, un attribuirsi un’autorità che essi non hanno. Tocca al superiore e alla sua discrezione, infatti, decidere se una questione possa diventare di dominio pubblico.

Padre Gardin ritiene che «un uso prudente dei temi trattati nelle riunioni del superiore con il suo consiglio, con l’insieme dello scambio di pareri o di dibattiti a cui essi danno luogo, sia particolarmente importante. Difficilmente esercita bene il suo compito un superiore proclive alla “chiacchiera” e alla facile divulgazione del materiale trattato con il consiglio. Ma anche la frequente e arbitraria “chiacchiera” del consigliere può recare danno a un esercizio prudente dell’autorità da parte del superiore».

 

IL CONSIGLIERE: SUPERIORE

“IN SCALA RIDOTTA”?

 

Un’altra possibile forma di mancato rispetto dell’autorità del superiore da parte di consiglieri consiste nell’assumere iniziative nell’istituto (o nella provincia) non concordate con il superiore: per esempio, progettare con confratelli/consorelle la chiusura o apertura di case; porsi come giudici “autorevoli” di situazioni conflittuali; trattare con vescovi o autorità analoghe per questioni che interessano il rapporto con la chiesa locale, ecc.

Se non riceve un preciso mandato dal superiore, o se non è in veste di visitatore canonico (perciò comunque delegato dal superiore), il consigliere non ha autorità di prendere o anche solo avviare iniziative che comportino decisioni che spettano a chi detiene l’autorità.

È ovvio che un consigliere generale, magari dotato di esperienza (per esempio un ex superiore provinciale), può dare un contributo notevole all’animazione della vita religiosa nell’istituto; tuttavia deve fare attenzione a non presentarsi, per così dire, come un superiore generale in scala ridotta.

Questo può succedere più facilmente nel caso, come avviene negli istituti più grandi, che il consigliere abbia il compito di prendersi cura delle province o case di un’area geografica dell’istituto. Sarà bene che ogni suo intervento di rilievo sia concordato con il superiore generale. Egli dovrà esser attento a non produrre confusione nell’istituto e disorientare confratelli/consorelle, creando non poche difficoltà a chi ha il compito di governare.

Sembra dunque opportuno che il principio dell’autorità personale del superiore venga riconosciuto e rispettato con cura dai consiglieri. Questo non toglie che il superiore possa e debba valorizzare al massimo il suo consiglio, ma sempre dentro i termini previsti dalla legge; il cui rispetto, come sempre, diventa una garanzia di protezione dei diritti degli uni e degli altri.

 

Perciò può essere utile, all’inizio di un mandato del superiore e dei consiglieri specie se eletti per la prima volta, prendere conoscenza della legislazione relativa al loro ruolo anche con l’aiuto di un esperto. Ciò potrà evitare che si instauri una prassi contraria alla legge, che prima o poi potrà far sorgere qualche difficoltà di relazione o incepperà l’importante organismo che è il superiore con il suo consiglio.

 

(continua)

 

E. B.

 

 

1 GARDIN A., Il rapporto tra il superiore generale e il suo consiglio, in Informationes SCRIS, volume primo, 2003.