MONS. NESTI AI GIOVANI RELIGIOSI/E AFRICANI

TRE SFIDE E MOLTO ENTUSIASMO

 

I giovani africani devono diventare sempre più protagonisti dello sviluppo della vita consacrata in Africa. A loro spetta affrontare le sfide dell’inculturazione, della pratica dei consigli evangelici e della formazione.

 

Di fronte alle sfide che il terzo millennio lancia alla vita consacrata, i giovani religiosi/e dell’Africa devono avere il coraggio di prendere seriamente in mano il loro destino. È la consegna che ha lasciato loro mons. Piergiorgio Silvano Nesti segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, parlando in occasione del colloquio nazionale organizzato dalle conferenze dei superiori/e maggiori della repubblica democratica del Congo, a Kinshasa dall’1 all’11 marzo scorso.1

Rivolgendosi in particolare ai giovani religiosi e religiose ha detto loro: «Se la vita consacrata vuole continuare a vivere in Africa, è necessario che essa affondi profondamente le sue radici nel messaggio evangelico, nell’approfondimento della teologia dei consigli evangelici, nello studio e nella conoscenza del carisma dei vostri istituti, inoltre nel rispetto dei valori più autentici e più prossimi a Dio, propri della vostra cultura». Ma, ha aggiunto, «per riuscire in questo progetto, avete bisogno di entusiasmo, di fedeltà, e soprattutto negli anni della vostra formazione, di un atteggiamento sincero a lasciarvi formare (docilitas) per crescere nella fede e nella vocazione religiosa, per “aderire sempre più a Cristo, centro della vita consacrata” (Ripartire da Cristo 21)».

Come in molte parti del mondo, ha affermato mons. Nesti, anche in Congo la vita consacrata ha conosciuto nella sua storia, con le sue luci e le sue ombre, dei momenti di sviluppo, di approfondimento e di istituzionalizzazione. La vitalità manifestata nella ricchezza dei diversi carismi, la forte crescita numerica, l’opera intensa di promozione umana e sociale compiuta dai diversi istituti, coesiste con le difficoltà e le resistenze a cui bisogna prestare attenzione e che divengono altrettante sfide a cui bisogna rispondere con coraggio e sapienza apostolica. A questo riguardo ha invitato i presenti a rileggere ciò che la medesima Congregazione per gli istituti di vita consacrata ha scritto nel documento Ripartire da Cristo, a cinque anni di distanza dall’esortazione apostolica Vita consecrata: «Uno sguardo realistico alla situazione della Chiesa e del mondo ci obbliga a cogliere le difficoltà in cui si trova a vivere la vita consacrata. Tutti siamo consapevoli delle prove e delle purificazioni a cui essa è oggi sottoposta. Il grande tesoro del dono di Dio è custodito in fragili vasi di creta (cf. 2Cor 4,7) e il mistero del male insidia anche coloro che dedicano a Dio tutta la loro vita…».

 

LA SFIDA

DELL’INCULTURAZIONE

 

Tre sono in particolare le sfide che mons. Nesti ha indicato: l’inculturazione, una formazione solida, completa e continua, vivere i consigli evangelici come dono e impegno.

Anzitutto l’inculturazione. Infatti, come ha detto anche Giovanni Paolo II, «il cristianesimo del terzo millennio deve rispondere sempre meglio a questa esigenza. Rimanendo del tutto fedele a se stesso, nell’assoluta fedeltà all’annuncio evangelico e alla tradizione ecclesiale, esso rivestirà il volto di innumerevoli culture e innumerevoli popoli in cui è accolto ed è radicato» (Novo millennio ineunte, 40). Si tratta, commenta mons. Nesti, di un’esigenza che vale anche per la vita consacrata.

Questo processo di inculturazione comporta tre particolari esigenze. La prima riguarda il religioso stesso che deve lasciar maturare in se stesso un’esperienza religiosa personale, autentica, consapevole della verità, della validità della sua fede cristiana e della sua identità carismatica e spirituale che si radichi nella sequela Christi, vissuta e confessata in comunione con la vita e la missione della Chiesa. È un principio del resto già sottolineato anche da Vita consecrata (79),

La seconda esigenza consiste nel saper discernere ciò che, nella Rivelazione contenuta nella Bibbia e trasmessa lungo i secoli dalla tradizione della Chiesa, ha un valore essenziale, e dunque indispensabile, da quanto, al contrario, è contingente e caduco. Ciò è ribadito anche dall’esortazione apostolica Ecclesia in Africa in cui si dice che l’inculturazione è un «compito difficile e delicato poiché essa mette in gioco la fedeltà della Chiesa al vangelo e alla Tradizione apostolica in una costante evoluzione di culture» (62). Da parte sua, Vita consecrata attira l’attenzione sui criteri da tenere presenti: la familiarità con la parola di Dio, non solamente letta nella Scrittura santa ma anche simultaneamente compresa e riformulata grazie alla frequentazione di persone della propria epoca, un dialogo attento alla cultura contemporanea (VC 94.98), e infine la libertà di spirito, a volte a costo di un distacco radicale dalla propria mentalità e cultura.

La terza esigenza, valida soprattutto per coloro che appartengono a istituti internazionali, sta nel vivere in maniera autentica l’esperienza carismatica e spirituale, che caratterizza il proprio istituto. Essa deve essere continuamente approfondita e rinnovata con discernimento profetico che, con la memoria dei valori trasmessi dalla propria tradizione scritta e vivente, aiuti a cogliere i valori della propria cultura vicini a quelli del progetto del fondatore o fondatrice.

A questo punto, il processo di inculturazione applicato ai diversi istituti prevede un duplice movimento nella duplice direzione del “dare” e “avere”.

Il primo consiste nell’accogliere con coraggio la sfida dell’inculturazione, discernendo i valori da assumere. In altri termini, si tratta di adottare l’atteggiamento fondamentale del servizio umile. Scrive a questo riguardo Vita consecrata: «Per un’autentica inculturazione sono necessari atteggiamenti simili a quelli del Signore, quando si è incarnato ed è venuto, con amore e umiltà, in mezzo a noi.

In questo senso la vita consacrata rende le persone particolarmente adatte ad affrontare il complesso travaglio dell’inculturazione, perché le abitua al distacco dalle cose e persino da tanti aspetti della propria cultura» (79). Adottando questo atteggiamento, sottolinea mons. Nesti, voi giovani consacrati potrete meglio discernere nella vostra cultura i valori autentici e il modo di accoglierli e di perfezionarli, con l’aiuto del carisma proprio del vostro istituto, sforzandovi di trovare nella vostra storia personale e in quella del vostro popolo le tracce della presenza di Dio.

L’altro movimento consiste nel provocare in maniera profetica una cultura e, di ritorno, nel rinnovare la propria identità carismatica e spirituale, assumendo in maniera critica i valori di questa cultura. Lo stesso vale per la vita consacrata che, se vissuta autenticamente, introduce un potenziale provocatorio nella cultura di un popolo.

Infine, un’osservazione: il processo di inculturazione del Vangelo e della vita consacrata non interessa solamente l’uno o l’altro aspetto particolare di una cultura o componente della vita consacrata, ma la cultura nella sua totalità e il progetto dell’istituto nella sua globalità. Per questa ragione il processo di inculturazione differisce sostanzialmente dalla tentazione di adattamento puro e semplice del messaggio rivelato. L’adattamento, nella maggioranza dei casi, rimane in superficie. È necessario invece un processo molto più ampio e profondo.

 

FORMAZIONE SOLIDA

COMPLETA E CONTINUA

 

Una seconda grande sfida per la vita consacrata in generale, e in particolare nelle regioni di recente evangelizzazione, è quella che riguarda l’accoglienza e la formazione delle nuove vocazioni. È una priorità fortemente sottolineata anche dai vescovi africani, e poi esplicitata nell’esortazione apostolica Ecclesia in Africa: «Nelle presenti condizioni della missione in Africa, è urgente promuovere le vocazioni religiose alla vita contemplativa e attiva, operando innanzitutto scelte oculate e provvedendo poi a impartire una solida formazione umana, spirituale e dottrinale, apostolica e missionaria, biblica e teologica. Questa formazione va rinnovata nel corso degli anni, con costanza e regolarità» (94).

Occorre mirare, rileva mons. Nesti, a una formazione solida, basata non solamente sull’acquisizione di conoscenze umanistiche e teologiche, ma su un rigoroso progetto. Bisogna sapere chiaramente qual è lo scopo della formazione nella vita consacrata: «I giovani, scrive Ripartire da Cristo, hanno bisogno di essere stimolati agli ideali alti della sequela radicale di Cristo e alle esigenze profonde della santità… La formazione, perciò, dovrà avere le caratteristiche dell’iniziazione alla sequela radicale di Cristo. Dal momento che il fine della vita consacrata consiste nella configurazione al Signore Gesù, è necessario mettere in atto un itinerario di progressiva assimilazione dei sentimenti di Cristo verso il Padre. Ciò aiuterà a integrare le conoscenze teologiche, umanistiche e tecniche con la vita spirituale e apostolica dell’istituto e conserverà sempre la caratteristica di scuola di santità».

Dovrà essere inoltre una formazione che miri allo sviluppo intergale della personalità, aiutando i candidati a raggiungere un grado sufficiente di maturità umana, cristiana e vocazionale. Maturità umana, anzitutto, sottolinea mons. Nesti, per evitare il rischio che rimangano problemi non risolti, come la fragilità psicologica, i problemi di identità personale, la mancanza del senso di responsabilità, la poca generosità o mancanza di spirito di adattamento. Tutto questo può causare un fallimento e una situazione di malessere per l’individuo stesso e la comunità.

Inoltre occorre verificare la maturità cristiana. Il formatore dovrà cioè verificare che il candidato abbia fatto di Cristo e del Vangelo l’esperienza su cui fondare e unificare la sua vita, abbia raggiunto un buon equilibrio tra contemplazione e azione, sia capace di impegnarsi seriamente nella preghiera personale e abbia il gusto della liturgia, come mediazione e luogo di incontro con il Signore, sia aperto all’accoglienza del mistero della croce nella propria vita.

Infine bisognerà verificare a quale grado di maturità vocazionale il candidato è giunto: la sua capacità di vivere i voti, di praticare uno stile di vita sobrio e in sintonia con quello delle persone con cui è chiamato a “fare causa comune”. Un ulteriore criterio per verificare la maturità vocazionale riguarda il rapporto col fondatore, il carisma e la storia dell’istituto. Spesso infatti manca un senso autentico di appartenenza alla famiglia religiosa, vissuto come esperienza gioiosa.

La formazione, infine, dovrà essere permanente e prevedere degli itinerari ben definiti che mirino a un approfondimento della fede, del significato della professione religiosa, ma anche a un approfondimento biblico e teologico; inoltre dei percorsi riguardanti una conoscenza sempre migliore del patrimonio carismatico dell’istituto, del suo spirito e della sua missione, sforzandosi di attualizzarlo e di tradurlo con fedeltà e creatività nella cultura dell’ambiente, come scrive anche il documento sulla formazione Potissimum institutioni (68).

 

CONSIGLI EVANGELICI

DONO E IMPEGNO

 

La terza sfida su cui è stata attirata l’attenzione riguarda i consigli evangelici che devono essere vissuti in maniera gioiosa, non come qualche cosa di imposto, bensì come un dono. «Bisogna che comprendiate, ha affermato mons. Nesti, che i consigli evangelici non sono innanzitutto una rinuncia o un’aggiunta alla vita consacrata; al contrario essi rappresentano un modo originale, nuovo, a cui non si può rinunciare, di incarnare ed esprimere la donazione al Padre, con un cuore indiviso, sull’esempio del Figlio che si è offerto a lui per la salvezza del mondo. Se vissuti con gioia e responsabilità, essi sono una testimonianza evangelica autentica, una “Buona Notizia” rivolta agli uomini e alle donne dell’Africa».

Anzitutto la castità per il Regno che diventa una testimonianza d’amore di Dio nella fragilità della condizione umana. Essa è una professione di appartenenza al Padre che poi la offre agli uomini. Non è in alcun modo un rifiuto della sessualità né una semplice continenza, e meno ancora una riduzione al celibato inteso come scelta di non contrarre matrimonio; è piuttosto un impegno di tutte le forze del corpo e dell’affettività umana per realizzare la comunione con Dio. Si tratta quindi di un valore evangelico che non è legato ad alcuna cultura particolare. La vera sfida non si pone sul piano culturale o morale; il nemico più insidioso è quello che intacca la dimensione teologale della castità. La sfida quindi non è soltanto di ordine pratico, ma sta piuttosto nel riuscire a credere nella castità. E la vita consacrata in Africa ha bisogno di uomini e donne che credano al valore profondo della verginità per il regno di Dio e si sforzino di viverla con equilibrio, padronanza di sé, spirito di iniziativa e maturità psicologica e affettiva.

Ma anche il modo di comprendere la povertà costituisce in Africa un’altra sfida importante che deve essere affrontata con coraggio e responsabilità. La testimonianza di Dio come vera ricchezza per il cuore umano (cf. VC 90) rappresenta un elemento teologale della povertà religiosa che bisogna incarnare nel contesto culturale africano. Il pericolo, ha sottolineato mons. Nesti, è quello dell’imborghesimento che minaccia molti religiosi africani. Bisogna piuttosto che ci sia sempre coerenza tra i valori proclamati e la “realtà ambientale” in cui si è chiamati a vivere.

 Infine, la sfida dell’obbedienza con cui mettiamo la nostra libertà a servizio del disegno di Dio, sull’esempio di Cristo che è venuto nel mondo per compiere la volontà del Padre. Da qualunque parte o cultura uno venga, è importante crescere in un’obbedienza responsabile, nella fedeltà a un “sì” detto al Signore e in una partecipazione inventiva e operosa alla vita della comunità, che merita di essere amata e servita così come è.

Queste, secondo mons. Nesti, le sfide che la vita consacrata in Africa ha davanti a sé all’inizio del terzo millennio.

 

A. D.

1 Informationes SCRIS, numero primo, 2003.