IL RAPPORTO “CITTADINI INVISIBILI”

DISABILE O DIVERSABILE?

 

Il 2003 come “Anno del disabile” è occasione di cambiamento culturale. Il disabile è infatti soggetto–risorsa capace di trasformare la società della quantità in società della qualità, e il modello della competizione in strategie di solidarietà, a partire dalla forza della debolezza.

 

Cittadini invisibili, il Rapporto 2002 di Caritas italiana e Fondazione Zancan, si propone di verificare in quale misura, su alcuni specifici aspetti di disagio sociale, siano garantiti i livelli essenziali di assistenza così come enunciati nel testo della legge quadro nazionale 328 del 2000. Inoltre, si concentra sul fenomeno della partecipazione sociale e della cittadinanza attiva: “cittadini invisibili” sono coloro che non riescono a rendersi concretamente presenti nella città a causa di una situazione di svantaggio o a causa di un disinteresse alla partecipazione alla vita sociale.

Sul tema della disabilità si osservano alcune aree di sviluppo positivo, con la presenza di alcune sacche di inefficienza e di ritardo nell’assunzione delle responsabilità pubbliche, per una legislazione che fa fatica a trovare una piena e compiuta realizzazione. Come in altri settori del sociale si osserva inoltre una distribuzione a macchia di leopardo di servizi e opportunità, secondo una disparità territoriale che non fa che penalizzare i diretti interessati.

Qualche dato e qualche nodo critico. Nel mondo sono presenti oltre 500milioni di disabili permanenti, pari al 13% dell’intera popolazione. L’85% vive nei paesi poveri e un terzo è costituito da bambini. In Italia i disabili da 6 anni in su che vivono in famiglia sono 2milioni 615mila. Si stima un numero di bambini disabili fra 0 e 5 anni pari a circa 44mila unità. A questi dati va aggiunta una quota di circa 165mila disabili presenti in residenze. Complessivamente 2milioni e 800mila disabili. Si osserva un tasso di disabilità del 6% nell’Italia insulare e del 5,2% nel Meridione, mentre tale tasso scende al 4,4 % nell’area nord-orientale e al 4,3% in quella nord-occidentale. La percentuale media di alunni con handicap frequentanti le scuole non statali è pari a circa un terzo di quella registrata nelle scuole statali (nel complesso sono circa 130mila gli alunni disabili). La stragrande maggioranza di alunni con handicap è costituita da ragazzi con ritardo mentale lieve, medio o grave, con insufficienza mentale, con cerebrolesioni e con autismo. Per loro diventano necessari percorsi didattici personalizzati. Ben il 32,6% dei disabili non ha alcun titolo di studio, contro il 5,2% dei non disabili (più svantaggiate le donne, con una percentuale del 36,2%). Si stima che i disabili disoccupati non raggiungano le 150mila unità, pari al 21% delle persone disabili in età lavorativa.

Per l’anno scolastico 2002/2003 risultano iscritti a scuola circa 136mila alunni con handicap. Il numero dei posti di sostegno in organico di diritto assegnati dal Ministero per lo stesso anno è pari a circa 57mila. ­Occorrerebbero altri 11mila posti in organico per raggiungere un numero di insegnanti specializzati pari alla metà del numero degli alunni (rapporto medio di un insegnante ogni due alunni).

 

RISORSA PER

L’UMANITÀ

 

Negli ultimi anni la tendenza a considerare il problema dei disabili in una prospettiva basata sui diritti è maturata e si è ampiamente affermata a livello internazionale. Decisivo è stato il “Decennio del disabile” (1983-1992), dal quale è scaturito un processo caratterizzato dall’adozione di regole standard per l’uguaglianza di opportunità (1993) e da una nuova strategia della UE (1996): il concetto chiave è il passaggio dall’adattabilità all’integrazione delle persone disabili per rendere possibile la piena partecipazione ai processi economici e sociali (mainstreaming). Si tratta di abbandonare l’ottica dell’assistenza totale, della relegazione dalla vita sociale e dello sviluppo di servizi specializzati, per passare a una politica che porti alla diminuzione della dipendenza dai sussidi.

L’iniziativa UE del 2003 come “Anno europeo delle persone disabili” vuole raggiungere proprio l’obiettivo di promuovere lo scambio di esperienze di “buone prassi”, di intensificare la cooperazione fra gli operatori e di evidenziare i positivi contributi dei disabili alla società, facendo crescere la coscienza della diversità e delle discriminazioni.

In questo contesto si è posto il convegno internazionale dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII (Bellaria, 18-20/9/03), dando la parola proprio ai disabili per un handicap che diventi risorsa. Senza dimenticare la necessità di denunciare i rischi connessi con l’evoluzione in atto: «Dopo le battaglie per l’integrazione, dice don Oreste Benzi, da qualche anno c’è un ritorno all’assistenzialismo. C’è il rischio che i disabili vengano usati come ammortizzatore sociale, come occasione di profitto per gli altri». Un’analisi condivisa da Gianni Selleri, docente disabile di psicologia di Bologna e presidente dell’ANIEP, il quale ha riletto la vicenda dei disabili dal punto di vista dell’inserimento lavorativo come condizione di autonomia personale ed economica e come acquisizione di un ruolo esistenziale e sociale.

Per molti anni il collocamento al lavoro degli handicappati è stata una obbligazione legale per le imprese, che dovevano assumere un’alta percentuale di invalidi spesso senza qualifica e senza nessun meccanismo di raccordo tra domanda e offerta di lavoro (trovavano lavoro soprattutto i “falsi invalidi”). La nuova legge del 1999 sul “Diritto al lavoro dei disabili” ha abbassato l’aliquota d’obbligo e ha istituito il collocamento mirato, prevedendo anche un inserimento temporaneo dei disabili con maggiore difficoltà nelle cooperative sociali al fine di effettuare un percorso formativo personalizzato.

Il decreto legislativo sul mercato del lavoro (riforma Biagi) ha proseguito in questa direzione, istituendo formalmente il sistema del lavoro protetto permanente: per favorire i lavoratori svantaggiati e disabili con difficoltà di inserimento nel ciclo lavorativo ordinario, i servizi del collocamento stipulano con gli imprenditori convenzioni per il conferimento di commesse di lavoro alle cooperative sociali. Le imprese che conferiscono commesse di lavoro di fatto non devono assumere handicappati. «Si afferma, dice Selleri, una prospettiva di smantellamento progressivo del collocamento delle persone con disabilità nelle aziende private. L’iniziativa corrisponde a una concezione esclusivamente neoliberista del mercato del lavoro, inteso come ambito di competitività e di dinamiche selettive dal quale sono esclusi tutti gli attori che possono rallentare o rendere problematici i ritmi produttivi. Si acconsente alle richieste del mondo imprenditoriale più provinciale e incolto (“fateci pagare più tasse ma non mandateci invalidi nelle fabbriche”), si costituisce una logica di scambio di equivalenti tra il mondo delle imprese e il sistema delle cooperative sociali la cui merce sono tutti i lavoratori “disabili o svantaggiati”».

 

SALTO DI QUALITÀ

CULTURALE

 

A fronte di queste tendenze appare urgente diffondere una nuova consapevolezza, per la quale la diversità non necessariamente va associata a un limite ma può essere indice di differenti potenzialità. Da qui una nuova definizione: diversamente abile. Si tratta di smontare tutti i modelli basati sull’apparire, sull’efficienza, sul successo e sul potere: una realtà che diventa risorsa capace di aprire strade alternative, forme comunitarie basate su principi di solidarietà e di giustizia.

«Quello che non mi piace del termine “disabile” – afferma Claudio Imprudente, giornalista direttore della rivista Accaparlante e presidente del Centro documentazione handicap di Bologna – è il suo mettere l’accento sulle non abilità, creando una cultura del dis-valore. Quello che propongo è una rivisitazione della parola disabile e una sua rivalutazione in “diversabile”. Diversabile è una parola positiva e propositiva allo stesso tempo. Non confondiamo: diversabile non significa necessariamente autosufficiente. Quello che cambia però è il modo stesso di pensare a questa assistenza e di metterla in atto. L’assisitito diventa persona con la quale si insatura un rapporto». Un esempio concreto di questo salto di qualità l’ha offerto Luca Pieri – affetto da paralisi cerebrale infantile, laureato in Scienze politiche, sposato, genitore naturale e affidatario, redattore della rivista Sempre e responsabile di Operazione Colomba (progetto umanitario di pace della Comunità Giovanni XXIII): la sua abilità diversa gli ha permesso di chiedere aiuto per studiare, sposarsi e creare una famiglia aperta… ma anche di comprendere come la sua condizione contiene degli aspetti oggettivi di annuncio di Cristo: la forza della debolezza, cioè l’anima della non violenza.

Stefano Toschi, diversabile responsabile dell’associazione Beati noi! (sorta per promuovere una nuova cultura dell’handicap alla luce del messaggio evangelico), ci sembra abbia completato questo quadro con una interessante lettura dal versante spirituale. Agganciandosi alla distinzione dello psicologo Gordon W. Allport tra religiosità “estrinseca” e religiosità “intrinseca”, ha illuminato il senso del detto di Gesù sulla preghiera (Mt 6,7-8). Cristo parla dei pagani come di persone che credono di essere ascoltate da Dio solo per le molte parole con cui chiedono ciò di cui pensano di aver bisogno, e li contrappone ai veri credenti, i quali si fidano del Padre e della sua provvidenza. La religiosità “estrinseca”, che vuole ottenere favori attraverso le molte preghiere, è collegata a veri e propri disturbi della personalità. Unico scopo della modalità “estrinseca” è l’asservimento ai propri interessi personali per soddisfare bisogni quali la sicurezza, la difesa, e la necessità di migliorare l’immagine di sé. Nell’altro modo di vivere l’esperienza religiosa, ovvero in maniera “intrinseca”, la fede è considerata carica di valori in sé e non per i benefici personali.

preghiera

e precarietà

Ora, alla base di entrambi questi modi di vivere la fede c’è il sentimento di “precarietà” della vita umana. Nella cosiddetta religiosità “estrinseca” in particolare l’uomo ha paura della sua finitezza e per sfuggire a ciò cerca di assicurarsi i favori della divinità attraverso la preghiera. Invece fra preghiera e precarietà esiste un legame etimologico; infatti il termine preghiera deriva dal latino precaria, sostantivo femminile di precarius, cioè una cosa ottenuta non per diritto, ma per supplica e quindi in modo intrinsecamente instabile. «Io posso testimoniare, ha concluso Toschi, che i gruppi in cui è più forte la gioia di stare insieme e la lode a Dio sono quelli nati e cresciuti intorno alle persone cosiddette disabili e alle loro necessità concrete. Forse proprio perché il senso di precarietà che porta a non dare niente per scontato aiuta a vedere anche nelle piccole cose quotidiane la provvidenza di Dio e l’amicizia del prossimo. La semplice presenza di persone con deficit può portare tutti a interrogarsi sul proprio limite, può educare nel senso letterale, cioè può condurre l’individuo fuori da se stesso verso l’incontro con gli altri e con l’Altro, che a sua volta, attraverso l’incarnazione del Figlio e la sua morte, ha scelto la precarietà come la sua propria condizione».

La panoramica delle disabilità nelle diverse culture, religioni ed economie, insieme ai nove gruppi di lavoro (disabilità e… lavoro, guerra, spiritualità, tecnologie, scuola, vita intrauterina, affettività-sessualità, istituti, musica-arte) hanno confermato che ci sono i presupposti per rendere i diversabili soggetti di cambiamento: dalla società della quantità, nella quale essi diventano strumenti per fare denaro, alla società della qualità, nella quale essi esprimono tutte le loro potenzialità per umanizzare le relazioni. Su questa linea anche Romano Prodi, presidente della Commissione Europea, il quale ha però sottolineato i ritardi nella conversione di mentalità a livello di governi: la spesa per i disabili va vista come una spesa per una autentica risorsa, altrimenti si tratta di costo residuale sociale per il quale i soldi non ci sono mai!

 

Mario Chiaro