RIFONDAZIONE DELLA VITA MONASTICA

STABILITÀ NON RIGIDITÀ

 

A insistere sulla necessità della rifondazione è l’abate Simón Pedro Arnold, priore di Chucuito, Perù. Lo ha ribadito parlando sulla formazione monastica nell’oggi dell’America latina alla 10a assemblea dell’ABECCA, che si è tenuta a Lima dal 24 al 31 luglio.

 

Nella prospettiva della rifondazione, l’interrogativo riguardante la crisi si orienta in due direzioni: la prima è la nostra infedeltà ai fondamenti della spiritualità benedettina. Se non siamo convincenti è perché non siamo segni di ciò che proclamiamo.

Attraverso i tempi, la nostra vita si è caricaturata, “mondanizzata”, pervertita fino a giungere a delle contraddizioni flagranti. Più ancora, nei nostri stili istituzionionali e modi di vita si sono introdotti meccanismi perversi, disumanizzanti, patogeni. Questa affermazione non riguarda esclusivamente la vita monastica. Vale per l’insieme della vita consacrata. Ma è importante interrogarci su questi meccanismi nel nostro contesto. In effetti, se non li denunciamo e non li saniamo, ripeteremo sempre gli stessi sbagli, cadremo all’infinito nelle stesse impasse. Inoltre bisogna demandarsi se è legittimo proporre a questa generazione un modello che la fa ammalare anziché guarirla e liberarla.

È tuttavia anche certo che la congiuntura culturale, sociale, politica, economica e anche religiosa del nostro continente e del mondo postmoderno interpella anche ciò che vi è di più sublime nella nostra proposta. Ciò che ci è dato di vivere non è solo una pentecoste tra diversi linguaggi umani, ma un dialogo tra pianeti estremamente lontani. Il rischio di questa costatazione è duplice: o la vita monastica si considera come un tutto intangibile nella sua forma e nei suoi contenuti, condannandosi in tal modo alla “morte di Socrate”, chiusa nel suo nobile manto di certezze; oppure cediamo alle seduzioni del mercato e abbassiamo in maniera vergognosa le esigenze profetiche della nostra proposta per poter sopravvivere in una mediocrità tanto mortifera quanto la posizione precedente.

La rifondazione cerca di evitare questi due scogli. Propone, in primo luogo, di reincontrarci con ciò che sta a fondamento della nostra tradizione, benché sia arduo e scandaloso per il mondo d’oggi. A questo scopo, rifondare significa pentirsi e convertirsi, rinascere dallo Spirito come Nicodemo, e prendere le distanze dalle pompe di controtestimonianza dei nostri stili e delle nostre istituzioni.

Ma rifondare vuol dire anche lasciarsi interpellare dalla cultura attuale per chiederci che cosa di nuovo essa ci può insegnare. Che linguaggio nuovo di Vangelo per oggi, quali carismi assopiti o inediti può rivelarci? In effetti, la vita monastica, come tutta la vita religiosa, è prima di tutto una risposta storica e non un modello a priori. Lo Spirito è costante e cangiante allo stesso tempo, come la vita, come la storia, e bisogna lasciare che ci cambi per questa epoca. Non bisogna confondere la stabilità con la rigidità dei cadaveri, anche se sono cadaveri rivestititi dell’oro prestigioso delle nostre tradizioni.

 

UNA PROFONDA

CRISI ISTITUZIONALE

 

Tutti gli studiosi del nostro tempo sono d’accordo nel caratterizzare la cultura contemporanea come la morte di ogni discorso ideologico e di ogni sistema istituzionale che giustificano e sostengono. Tutti i discorsi, nella postmodernità, hanno perso la loro credibilità, specialmente quelli che propongono una salvezza (religioni, marxismo ecc.). Non c’è da meravigliarsi, pertanto, se il discorso religioso è uno dei più colpiti dal cataclisma e, all’interno del mondo religioso, se sono colpiti i sistemi più istituzionalizzati.

Non possiamo negare che la vita monastica, nel corso dei tempi, è andata sempre più istituzionalizzandosi. Nel ventaglio di proposte di vita consacrata, il monachesimo è certamente una di quelle che lascia il margine più stretto per improvvisare e per l’imprevisto, sia negli orari, le forme e gli stili di preghiera e di celebrazione, sia nell’espressione dei sentimenti e degli itinerari personali. La nostra stabilità si è incarnata in una specie di monotonia agraria (anche se trasgrediamo continuamente il modello a livello individuale in maniera non ufficiale), molto diversa dal movimento creativo perpetuo della vita urbana.

In particolare, più grave del monolitismo dei nostri stili, è l’individualismo che si è infiltrato nel nostro prezioso personalismo comunitario.

Dobbiamo riconoscere, inoltre, che la discrezione benedettina si presta sempre al rischio di ciò che in francese si chiama “dilettantismo”. Si tratta di un modo di vivere simpatico, umanista, elegante, ma senza maggior rilievo per l’individuo, il gruppo la società o la Chiesa. Non disturbiamo nessuno, ma nemmeno significhiamo qualcosa di decisivo nel paesaggio. Siamo “dilettanti” più che professionisti della profezia che pretendiamo di vivere. E se questo “estetismo” senza pericolo, proprio del benedettismo storico, si riveste dei segni privilegiati della buona borghesia, la nostra neutralizzazione sociale, ecclesiale e culturale diventa perfetta.

 

CRISI

DI FEDELTÀ

 

La sociologa delle religioni Danielle Hervieu-Léger descrive la postmodernità come un cambiamento sociale da una struttura di gruppo a un sistema di reti. Secondo questa prospettiva, tutta la storia umana, e in particolare la modernità, si sono strutturate attorno a dei gruppi: famiglia, comunità, etnia, religione, ecc. Caratteristica del gruppo è di dare identità e coscienza di appartenenza all’individuo. Questa identità e appartenenza mirano alla stabilità e poggiano su un discorso ideologico e un edificio istituzionale. La dottrina e la morale occidentali nel loro insieme, comprese quelle cristiane, si riferiscono interamente a questo orizzonte.

La cultura delle reti, in cui stiamo velocemente entrando, non cerca né identità né appartenenza, meno ancora stabilità e progetto. Il suo ideale è la comunicazione plurale ed effimera, produttrice di armonie successive. In questo senso, assistiamo a ciò che potremmo chiamare una specie di “orientalizzazione” dell’occidente in una cultura del cambiamento perpetuo senza contorno né altro obiettivo preciso che l’armonia.

Come comprendere in questa cultura, mobile come la sabbia, la proposta benedettina della stabilità e del suo progetto di santità e di salvezza? Come convincere della gioia di un impegno unico e definitivo nella variazione continua della “ricerca di Dio” benedettina? Se questa domanda attraversa tutta la proposta cristiana in una cultura del transitorio, essa riguarda soprattutto noi monaci.

L’utopia postmoderna, anziché presentarsi come un progetto di salvezza, si attende una guarigione, una felicità, una riconciliazione dinamica e immediata. Mi pare pertanto che, da quello che abbiamo ricevuto dalla nostra tradizione, dobbiamo privilegiare la dimensione dell’itineranza riconciliatrice e sanante più che gli aspetti istituzionali e ideologici del nostro modello. Di qui dovrebbe passare, mi sembra, un’intuizione di rifondazione che tragga dal tesoro cose vecchie e cose nuove.

 

LA CRISI

DI AUTORITÀ

 

Dentro la problematica postmoderna globale dell’ideologia e delle sue istituzioni ci sono senza dubbio la giustificazione e l’esercizio dell’autorità che sono le più erose. Penso che tutti i superiori e le superiore qui presenti condividano segretamente i miei sentimenti. Personalmente non auguro a nessuno la disgrazia di essere abate o priore in questi tempi e, nello stesso tempo, mi piacerebbe che si presentassero subito dieci candidati entusiasti per la successione. Essere superiore oggi è qualcosa che assomiglia al martirio senza, peraltro, la consolazione di alcuna apologia.

Questo dramma dell’autorità nel contesto postmoderno si accentua ancor più nella tradizione monastica in cui questo servizio è privilegiato rispetto a qualsiasi altro ed è inteso come paternità spirituale definitiva, o per lo meno, di lunga durata. Come sarebbe bello, secondo lo stile moderno e democratico, limitare il nostro servizio a una sana ed efficace amministrazione del monastero e dei suoi membri per un tempo ridotto, come in qualsiasi congregazione più recente. Purtroppo è proprio ciò che san Benedetto rifiuta. L’abate deve stare al di sopra delle preoccupazioni materiali per essere al servizio delle “anime”, vale a dire dell’itinerario spirituale di ciascuno e del gruppo in se stesso, delle loro vocazioni. Per questa ragione, il nostro padre insiste che si deleghi ad altri tutto ciò che potrebbe distrarlo da questa responsabilità, come l’economia e l’amministrazione – anche se da lui devono dipendere in ultima istanza.

È compatibile il “paternalismo” benedettino con la mentalità democratica moderna, soprattutto con le sue caricature estremiste neoliberali? Non è tanto facile rispondere a questa domanda. Da una parte, l’esercizio monarchico dell’autorità è oggi qualcosa di impossibile e persino perverso. La democrazia è un bene irrinunciabile perfino nei monasteri. Inoltre, l’abate postmoderno non ha spalle sufficienti per una carica del genere. Dall’altra, l’esagerata centralità del monastero lo riduce a una specie di punching ball2 comunitario in cui tutti i fratelli di tutte le età e il gruppo si esercitano a scagliare pugni, esprimendo così le loro insicurezze congenite, le loro ferite familiari passate e la loro bramosia bulimica di indipendenza e allo stesso tempo la loro contraddittoria dipendenza affettiva. Con questa descrizione, che sa un po’ di caricatura ma vicina alla realtà, intendo dire che è sicuramente la sacra istituzione abbaziale, colonna vertebrale della Regola, quella che ha bisogno più urgente di essere rifondata. Ma non domandatemi come. Sento che questo dipenderà dal coraggio e dalla maturità di ciascuna comunità di confrontare la regola con la realtà comunitaria e culturale del proprio ambiente. Non credo che spetti ai capitoli generali né ai convegni di abati rifondare l’abbaziato. Si tratta di un compito di tutti i membri della comunità, compresi i più giovani, come sottolinea san Benedetto nel capitolo sul consiglio. Ma questo compito promette conflitti, scoraggiamenti e impasse. Bisogna avere il coraggio di rischiare il consenso. Al di fuori di questo sforzo comune non vedo molto futuro per la nostra istituzione monastica. In effetti, dietro a questo dibattito, sono l’obbedienza e l’umiltà che hanno bisogno di essere rifondate ed essere nuovamente assunte. Se non le rifondiamo, continueranno a essere quello che sono: un saluto alla bandiera senza alcuna incarnazione convincente.

Inoltre, questa generazione postmoderna – non parlo solo dei giovani – ha il prurito dell’indipendenza e, allo stesso tempo, un’incapacità congenita di iniziativa e di rischio autonomo. Questa contraddizione fa sì che il punching ball abbaziale serva a sua volta come attestato di naufragio di una comunità terribilmente fragile, L’abate finisce, in questa contraddizione, per rimanere ostaggio di un gioco impossibile: di venire da una parte tacciato di essere un dittatore e dall’altra di essere un indeciso, cosa che finisce letteralmente col metterlo nell’angolo.

In questo crocevia dell’autorità monastica, entra in maniera esemplare la dialettica ascesi-piacere. Nella prospettiva della Regola, spetta all’abate incamminare i fratelli e la comunità verso la libertà spirituale, ciò che implica mistica e ascesi. Ma nel mondo postmoderno esageratamente individualista, la critica o la semplice osservazione, soprattutto se si fa in comunità, è un tabù la cui trasgressione è considerata dal gruppo come la peggiore mancanza dell’abate. In questa dialettica, l’autorità si vede ridotta, una volta di più, a un’istituzione muta. Ma il problema non è tanto mettere in questione lo schema monastico di autorità, critica che, personalmente ritengo valida e utile. Ciò che è grave è il vuoto abissale che lascia la neutralizzazione del meccanismo abbaziale in questo processo.

 

I tempi in cui viviamo sono molto gravi in tutti i sensi. Questa gravità riguarda sia ciò che oserei chiamare, con molta garbatezza, la nostra gentile “decadenza” monastica sia le sfide che la nuova cultura pone agli aspetti più fondamentali del Vangelo e dell’esperienza cristiana.

Perciò non mi azzarderei a rispondere alla domanda che io stesso vi pongo. Non ho ancora una risposta ma piuttosto molti interrogativi e ancor più obiezioni e dubbi. Quel che è certo è che il futuro della vita monastica nel nostro continente e in questa congiuntura sarà difficile e richiederà una conversione radicale con aspettative abbastanza modeste in quanto a numero di monaci e di prestigio delle nostre comunità.

Certamente potremmo adottare una posizione di ripiegamento, e non sono pochi coloro che ascoltano queste sirene, ritornando a schemi premoderni e curando uno scrupoloso isolamento della vita monastica da qualsiasi effluvio postmoderno. Ma questa mi pare un’opzione (incosciente e irresponsabile) per la morte…

Nonostante i miei moltissimi dubbi e i miei infiniti interrogativi opto per credere in un futuro nuovo e fecondo per i monaci in questo continente. Questo futuro lo vedo non tanto a partire dalla preoccupazione per la nostra stessa sopravvivenza, ma dal fatto che possiamo essere una buona notizia di felicità e di liberazione per la nostra gente di qui e di oggi.

 

1 L’ABECCA è l’associazione benedettina cistercense dei Carabi e delle Ande.

2 Il punching ball è uno strumento da palestra per l’allenamento dei pugili.