LETTERA DI P. TRABUCCO AI SUOI RELIGIOSI

ACCOGLIENZA VICENDEVOLE

 

Un accentuato pluralismo di persone, mentalità, culture, rende necessario riflettere su questo atteggiamento. Nella parola di Dio si trovano l’ispirazione ideale e gli orientamenti concreti di vita.

 

«Accoglietevi l’un l’altro, come Cristo ha accolto voi, per la gloria di Dio» (Rm 15,7). A partire da questo accorato invito di s. Paolo, padre Piero Trabucco ha scritto nel giugno scorso una lettera ai suoi religiosi – i missionari della Consolata – trattando il tema dell’accoglienza reciproca.

«La Parola di Dio permette di avviare la riflessione partendo da un’ottica di fede», per poter osservare la realtà vissuta avendo a disposizione validi riferimenti di valore. La vastità dell’argomento costringe il superiore generale a limitare la sua considerazione «all’accoglienza vicendevole che dobbiamo avere gli uni verso gli altri, come membri della stessa famiglia. Non tratterò invece di quella più ampia e tipicamente missionaria, rivolta a ogni persona che si avvicina a noi».

«“Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3).

Matteo usa queste sorprendenti parole nell’aprire il quarto discorso di Gesù. I discepoli vivono il Regno quando diventano comunità. E diventano comunità quando realizzano nella propria vita l’ideale del “bambino evangelico”.

 

IL BAMBINO

EVANGELICO

 

La figura del bambino viene qui presentata come modello per coloro che desiderano diventare parte della comunità cristiana, proprio perché, secondo l’antica mentalità semitica, il bambino veniva considerato un “nulla”. Il solo diritto che egli aveva di esistere gli veniva dato dal fatto di “appartenere” a qualcuno. Gesù prende il bambino che non ha niente, non può fare niente e ha bisogno di tutto, e lo pone al centro della sua comunità. Con lui pone tutti coloro che sono deboli, poveri, indigenti, bisognosi, fragili, vulnerabili. È candidato alla comunità cristiana chi si sente ed è peccatore, bisognoso di salvezza ed è disponibile a farsi aiutare. Come per il bambino, così anche per ogni membro della comunità di Gesù, la sola sua forza è la sua debolezza che lo rende bisognoso di altri, quindi “figlio” del Padre e “fratello” di ogni persona.

Dalla comunità cristiana viene così bandita ogni autosufficienza, perché essa nega la possibilità di diventare figli del Padre e fratelli dei propri fratelli…».

Padre Trabucco mette in evidenza come questo brano di Matteo può offrire anche a noi alcune indicazioni interessanti per una corretta comprensione dello spirito di accoglienza. «La comunità che Gesù vuole è agli antipodi di quella elitaria. Essa non è composta da persone sante e perfette, non sono i sapienti e i letterati i preferiti del Maestro, non sono nemmeno le persone efficienti quelle che Gesù considera come i migliori candidati. Solo chi arriva a sentirsi “bambino” ha le qualifiche per appartenere a questa comunità-famiglia di Gesù.

 

IN UN’OTTICA

DI FEDE

 

L’accoglienza dell’altro è possibile se abbiamo maturato un’ottica di fede sufficiente e corretta, secondo cui al centro della comunità non ci siamo noi, non ci sono i nostri sacrosanti diritti, i nostri programmi di vita e di lavoro. Al centro di questa comunità c’è Gesù e quelli che lui ha scelto: i fratelli bisognosi, i più deboli, i più fragili. Quanto è distante quest’ottica dalle nostre pretese di efficientismo!

Non solo accettando l’altro, ma sentendoci noi stessi “bambini”, possiamo fare parte di questa comunità. Tutti noi, infatti, soffriamo di debolezze e fragilità, tutti e costantemente abbiamo bisogno di una mano che ci sollevi e ci accompagni. Quanta difficoltà però ad ammettere questa verità! La tendenza insita in noi è piuttosto quella di nascondere, fingere, o di pretendere. E veniamo così a perdere tante opportunità per crescere nella comunione, per ottenere e dare perdono, per sentire la gioia di essere fratelli dello stesso Padre...».

 

“Chi accoglie uno solo di questi piccoli... accoglie me” (Mt 18,5)

 

«Ci sono momenti, che si ripetono ormai con frequenza, quando un Consiglio regionale o una comunità locale è chiamata a discernere se accogliere o meno un fratello “ferito”, uno di quelli a cui il Vangelo cede la corsia preferenziale nell’accesso al Regno. Sono momenti cruciali e, a volte, anche di sofferenza. È il “bambino” del Vangelo che bussa alla nostra porta, che chiede non solo di avere accesso alla struttura della nostra comunità, ma al cuore fraterno di ciascun suo membro. Sono questi momenti di grazia che, al di là del risultato pratico del discernimento, ci permettono di prendere atto della maturità della nostra comunità e di fare una verifica, senza barare, sulla consistenza della nostra fraternità. La preghiera allo Spirito, in queste circostanze, dovrà essere prolungata e insistente, affinché possiamo avere luce sufficiente per decidere il vero e il giusto, per noi e per l’altro.

La comunità può giungere a dire un “no” all’accoglienza di un fratello sulla base di motivazioni serie con cui si è confrontata. Se chiude la porta dovrebbe essere solo per potersi preparare meglio, per mettere in ordine ogni cosa, affinché l’Ospite che verrà a bussare la prossima volta possa trovare casa tra noi.

Non può essere invece motivo sufficiente per negare a un fratello la possibilità di accedere a una Regione o a una comunità il fatto che egli potrebbe diventarne un peso. E tale peso sarebbe il suo carattere non felice, la difficoltà che pone alla convivenza, un passato marcato da fallimenti. Meno ancora possono diventare scusa per un rifiuto il desiderio di essere maggiormente efficienti nel lavoro, la necessità di moltiplicare le attività, la remora che una tale presenza potrebbe costituire per gli altri. Se così fosse, verrebbe a essere scartata la prima e fondamentale condizione per realizzare il Regno al cui servizio noi abbiamo consacrato tutta la nostra vita.

 

NEL SEGNO

DELLA CARITÀ

 

Come missionari siamo mandati al mondo ad annunciare e mostrare che il regno di Dio è già presente tra noi. Questo atteggiamento nel segno della carità e dell’amore è una forza profetica che possiamo immettere nella nostra evangelizzazione, è un segno di credibilità che possiamo mostrare al mondo, è uno sforzo che può dare maggiore efficacia al nostro operare. Il Vangelo ci mette in guardia dall’essere noi a scegliere le persone da amare e servire, ma piuttosto a essere sempre pronti ad accogliere quelle che il Signore ci può mandare.

Non va dimenticato inoltre che ogni persona che si aggiunge alla comunità o alla Regione porta con sé qualità, doni, difetti, che contribuiranno in qualsiasi modo a darle una svolta nuova. Ogni cambio innesta infatti un meccanismo che, se viene giustamente guidato e indirizzato, porta a una crescita e a un arricchimento per tutti. Per questo motivo possiamo affermare che ogni fratello che arriva alla Regione e alla comunità locale, dovrà sempre essere considerato un “dono” della Provvidenza. Anche quando il bagaglio dei suoi limiti risultasse molto pesante...».

 

“Ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt 25,35)

 

«La comunità del Regno non è quella perfetta ed efficiente, messa insieme dai superiori con molta cura, nella quale ogni angolo è stato smussato a dovere, ogni ostacolo rimosso, ogni sporgenza appianata. Il test d’esame sarà quello di Mt 25, 31-46, e lo supereranno le comunità e gli individui che sono stati capaci di realizzare in ogni momento le opere di misericordia, di amore, di accoglienza, di magnanimità, di pazienza e di perdono…

Ci vediamo oggi confrontati da nuove sfide che hanno sovente la loro radice proprio nell’internazionalità e nella pluriculturalità che ormai ci contraddistingue. La nostra capacità di esprimere accoglienza e ospitalità si misura non solo sulla nostra abilità di rispondere al povero o al lontano, ma al fratello che mi sta accanto, che è parte della mia comunità, e che, tuttavia, è tanto diverso da me per razza, cultura, mentalità, formazione. Lui diventa per me l’ospite da accogliere, a cui fare spazio non solo nella casa, ma soprattutto nel mio cuore e nella mia vita.

Una corretta ospitalità significa anche resistere alla tentazione di volere fare l’altro a mia immagine, costringendolo ad adottare il mio stile di vita per trovare così la piattaforma comune nei rapporti mutui. Devo invece avere il coraggio di riconoscere al fratello il diritto di piena cittadinanza, permettendogli di restare se stesso e compiere il suo cammino, lento e laborioso, di inculturazione in nuove realtà».

 

COME RENDERE EFFICACE

L’ACCOGLIENZA DELL’ALTRO

 

«Ciò che distingue una famiglia religiosa da qualsiasi altra aggregazione sociale è che in essa l’appartenenza che dà identità e lo spirito che affratella non sono stati creati da noi, ma Dio ce li ha donati come dono suo. È lui che ci ha scelti e ci ha messi in questa famiglia, è lui che ci ha resi tutti fratelli. E poiché ora ci apparteniamo gli uni agli altri, non mi sarà più permesso dire all’altro: non sei mio fratello!

Io non amo la comunità, ma le persone che fanno parte della comunità. In essa, infatti, contano le persone concrete che io devo accogliere così come sono, di modo che esse possano crescere secondo il piano che Dio ha su di loro. Forse tutti noi siamo entrati nell’istituto perché sognavamo la missione. A poco a poco però abbiamo capito che questa non poteva essere l’obiettivo primo. Prima viene Dio e poi la famiglia-Chiesa in cui vivono tante persone che Dio ama e che anch’io devo amare. Solo così, attraverso una vita di famiglia, posso realizzare il sogno della missione.

Noi saremo in grado di accogliere l’altro, se abbiamo fatto noi stessi l’esperienza di essere stati accolti da Dio e dai fratelli, così come siamo, nella nostra debolezza e fragilità. È facile accogliere un altro quando noi abbiamo bisogno di lui, quando i suoi talenti ci possono venire a taglio per realizzare i nostri programmi, o quando abbiamo bisogno di coprire un posto vacante. È invece molto più difficile essere accoglienti verso un altro quando “non abbiamo bisogno di lui”, quando la sua entrata in comunità aumenta solo il nostro lavoro, accresce i nostri problemi, o diventa un fastidio in più. Ma è proprio in queste circostanze che percepiamo l’accoglienza come opera dello Spirito.

Per diventare oblativi e accoglienti, per trasformare le nostre comunità in luoghi dove l’amore vicendevole si coglie al volo e ogni persona che ci avvicina ne viene contagiata, allora abbiamo bisogno di nutrirci [della] manna che Dio ci offre ogni giorno nella Parola e nell’Eucaristia. La capacità di vivere al meglio la quotidianità è un altro cibo indispensabile, così come lo sono l’attenzione, il saluto, una delicatezza per dire all’altro che conta per noi, la casa che cerchiamo di rendere accogliente affinché ognuno si senta a proprio agio, il dialogo interpersonale e comunitario favorito da una pianificazione attenta delle nostre giornate.

Impariamo infine a perdonarci e a ricominciare: è questa una regola d’oro per qualsiasi comunità, ma lo è in particolare per quelle dove l’accoglienza reciproca, per vari motivi, è il pane duro che dobbiamo mangiare ogni giorno. Il perdono è il cuore di una comunità cristiana dove tutti, dal responsabile fino all’ultimo arrivato, devono esercitarlo nella misura evangelica del settanta volte sette. Chiudersi al perdono significherebbe togliere ossigeno ai polmoni della propria comunità e mortificarne ogni ripresa e ogni speranza di futuro.

Quante situazioni missionarie ci portano a vivere al limite delle nostre forze! Quanto facilmente ci lasciamo prendere dall’attività che spreme tutte le nostre energie, fino a seccarci nella nostra affettività profonda! Esistono però degli anticorpi a questa malattia: la capacità di riposarsi e rilassarsi nel corpo così come ristorarsi nel silenzio e nella preghiera. Se gli individui a volte non sono capaci di prendersi tale cura di se stessi, tocca alla comunità provvedervi. Perché è vera malattia se un individuo diventa superattivo, sfugge dagli impegni di comunità a causa del lavoro, non si concede niente perché tutto preso dal servizio al prossimo».

 

L’ALTRA FACCIA

DELLA MEDAGLIA...

 

«Non voglio terminare senza fare un veloce accenno alla realtà del fratello ferito che ha bisogno di accoglienza. Non possiamo ignorare che tale “fratello ferito” posso essere io, poiché in ciascuno di noi resta sempre aperta una piaga che niente e nessuno potranno lenire. Essa è conseguenza dei nostri fallimenti, è la realtà delle nostre debolezze e la consapevolezza delle proprie contraddizioni. Tale piaga resterà sempre nostra fedele compagna di viaggio, che neppure le più belle realizzazioni o le più indovinate comunità riusciranno mai a rimarginare. Non solo perché il nostro cuore, assetato di infinito, non si appaga con le cose che passano e sono pur sempre contrassegnate dal segno della morte... Ma soprattutto perché ci sono i quotidiani limiti e i fallimenti che ognuno porta con sé, assieme a fragilità di ogni genere e a ideali mai realizzati.

Come portare allora questo bagaglio di debolezze e di incoerenza che tanto dolore e male può infliggere a noi stessi e agli altri? Ecco alcuni suggerimenti.

Dobbiamo innanzitutto sforzarci di deporre qualsiasi maschera. In particola­re quelle che ci costruiamo inconsapevolmente per nascondere la nostra povertà, le vulnerabilità, le ferite, e che conducono a isolarci e a rifugiarci nel lavoro o nei libri. La verità su noi stessi, accettata con realismo e fede, è il primo passo necessario verso la guarigione.

Un secondo passo consiste nel trovare la chiave di un possibile superamento proprio negli stessi nostri limiti, fallimenti e sbagli. Sono essi, infatti, una porta sempre aperta che ci dà accesso al Padre che accoglie, perdona e risana. Ci accompagna in questo viaggio colui che ha provato la nostra stessa debolezza, arrivando perfino a emettere il grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27, 46).

Un ulteriore passo consiste nel credere nella capacità che , nonostante tutto, la comunità e i fratelli hanno per curarci. Per questo motivo non dobbiamo mai tagliare i ponti con nessuno, isolandoci e chiudendoci in noi stessi. Sarebbe una resa fallimentare. E dobbiamo anche giungere ad accettare, con realismo, gli eventuali condizionamenti che la comunità ci potrebbe mettere, quando le soluzioni ottimali non possono essere trovate.

Infine, chi sa e accetta di essere nel bisogno è capace di cercare aiuto, si apre a chi lo può aiutare e non rifiuta mai la mano tesa. Un campo ancora troppo poco esplorato è quello della psicologia. Grande beneficio, infatti, ci possono offrire le persone specializzate nel campo dell’accompagnamento delle persone in necessità».