ASSASSINATA ANNALENA TONELLI

ERA PRONTA A DARE LA VITA

 

Nell’amata Somalia, è stata assassinata una missionaria laica che non ha mai voluto un’organizzazione alle spalle. Donna e unica cattolica in un paese musulmano, non ha ceduto alla paura unendosi alla schiera dei testimoni che hanno speso la vita per gli ultimi fino al sangue.

 

«Cosa accadrà all’ospedale tubercolare senza di lei? Infatti tutto il denaro necessario alle sue molteplici attività (ospedale TB, la scuola per i sordomuti, il collegio per alcuni di questi bimbi sordomuti, la campagna contro le mutilazioni genitali femminili, la campagna di coscientizzazione contro l’Hiv/Aids, la promozione delle donne, la fondazione di un nuovo centro fisioterapico, una scuola per ciechi, tasse scolastiche per un certo numero di bambini…) le arrivava tramite alcuni suoi amici. … Il presidente della Somaliland (Dahir Riyale Kahin ndr) ci ha accolti esprimendo il suo profondo rammarico per l’assassinio di Annalena che conosceva personalmente (infatti proviene da Borama). Mi sono presentato come vescovo di Djibouti e amministratore apostolico di Somaliland, Puntlandia e Somalia… Lo scopo della mia visita era quello di incoraggiare sia il governo della Somalilandia sia le differenti agenzie delle Nazioni Unite unitamente ai molti “Amici di Annalena” a continuare o almeno a salvaguardare alcune delle attività di Annalena, in particolare l’ospedale per tubercolotici. La sua prima preoccupazione infatti era quella di aiutare i bisognosi».

In queste note di mons. Giorgio Bertin ofm, all’indomani della feroce esecuzione (5/10/03) della missionaria laica Annalena Tonelli, nata sessanta anni fa a Forlì, possiamo ritrovare le coordinate di una vita spesa per il Regno: la laicità come fede in Dio e desiderio di povertà da condividere col prossimo, la debolezza e la forza dell’amicizia messi al servizio dei più poveri nel mondo islamico, il nascondimento e il coraggio di un annuncio del Vangelo che diventa denuncia dell’oppressione di un popolo.

 

IO SONO

POVERA COSA

 

Lo scorso anno in Vaticano, durante una delle sue rare uscite pubbliche in occasione della Giornata internazionale per il volontariato, Annalena ha abbozzato la sua testimonianza di vita. Dopo la laurea in Giurisprudenza, diplomi di controllo della tubercolosi (tbc) in Kenya, di medicina tropicale e comunitaria in Inghilterra, di leprologia in Spagna, dal 1969 è vissuta al servizio dei somali. «Volevo seguire Gesù e scelsi di essere per i poveri. Per lui feci una scelta di povertà radicale, anche se povera come un vero povero io non potrò mai esserlo. Vivo il mio servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza uno stipendio, senza versamento di contributi per quando sarò vecchia. Sono non sposata perché così scelsi nella gioia quando ero giovane. Volevo essere tutta per Dio. Partii decisa a gridare il Vangelo con la mia vita sulla scia di Charles De Foucauld, che aveva infiammato la mia esistenza. Trentatrè anni dopo, grido il Vangelo con la mia sola vita e brucio dal desiderio di continuare a farlo sino alla fine. Questa la mia motivazione di fondo, insieme a una passione da sempre invincibile per l’uomo ferito e diminuito senza averlo meritato, al di là della razza, della cultura e della fede».

A Borama nell’estremo nord-ovest della Somalia non c’è nessun cristiano con cui si possa condividere la fede. «Due volte all’anno intorno a Natale e a Pasqua, il vescovo di Djibouti viene a dire la Messa per me e con me. Vivo sola perché le compagne di strada, che assieme ai poveri fecero della mia vita un paradiso in terra durante i miei diciassette anni di deserto, si dispersero dopo che io fui costretta a lasciare il Kenya. Fu nel 1984. Il governo del Kenya tentò di commettere un genocidio a danno di una tribù di nomadi del deserto. Avrebbero dovuto sterminare cinquantamila persone. Ne uccisero mille. Io riuscii a impedire che il massacro venisse portato avanti e a conclusione. Per questo un anno dopo fui deportata… I giornali e la BBC hanno parlato a lungo del mio intervento. E oggi molti dei somali che avevano remore contro di me mi hanno accettato e sono diventati miei amici. Oggi sanno che ero pronta a dare la vita per loro, che ho rischiato la vita per loro. Al tempo del massacro, fui arrestata e portata davanti alla corte marziale... mi dissero che mi avevano fatto due imboscate a cui ero provvidenzialmente sfuggita, ma che non sarei sfuggita una terza volta… poi uno di loro, un cristiano praticante, mi chiese che cosa mi spingeva ad agire così. Gli risposi che lo facevo per Gesù Cristo che chiede che noi diamo la vita per i nostri amici».

 

IO

NON HO PAURA

 

Dopo il Kenya il Signore l’ha voluta fra i somali. Prima a Mogadiscio, poi a Merca, che lasciò nel 1995. Il medico italiano che la Caritas manderà a sostituirla, Graziella Fumagalli, pochi mesi dopo trovò la morte per mano di sicari armati dai signori della guerra. «Io non ho paura. Mi hanno picchiato, aggredito, espulso» confidò a Nigrizia. L’ultima aggressione a ottobre 2002, proprio a Borama: si attaccò a sassate l’ospedale per contestare la sua campagna contro le mutilazioni genitali femminili.

I primi interventi contro la tubercolosi risalgono alla fine degli anni 1970: gli ammalati sono in maggioranza nomadi, e per combattere la tubercolosi sono necessari nove mesi di cure continue, cure alle quali i nomadi non vogliono sottostare proprio per non doversi fermare. Annalena nel 1976 diventa responsabile di un progetto dell’Oms che le chiede di “inventarsi” un metodo adatto a loro. Lei riduce i tempi di cura e cerca un accordo con i capi carovana. Nasce il primo esperimento del Dots che prevede un dosaggio specifico di quantità e tempo, mentre il malato assume i medicinali davanti agli infermieri e si identifica un garante per ogni ammalato (uno della famiglia o del clan: viene arrestato se il malato non assume i farmaci!). Mentre si raccoglievano i frutti della cura contro la tubercolosi cresceva la piaga dell’Aids. «Per noi è ancora più difficile combattere la malattia in un ambiente musulmano dove il rifiuto di questa malattia è fortissimo. Lo scorso anno a ottobre siamo stati attaccati e abbiamo chiuso il Centro per un mese e mezzo, ci hanno preso a sassate, hanno gridato “a morte” contro di noi, perché non potevano accettare che il mondo parlasse di Borama come un luogo dove esiste la doppia infezione, della tbc e dell’Aids… Adesso abbiamo tanti bambini ammalati e voglio lottare per loro, per riuscire ad avere le medicine. Pur essendo stati scelti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come centro pilota e di insegnamento, non abbiamo accesso ai medicinali perché l’Africa è considerata incapace di gestire le cure».

Ci troviamo dunque di fronte a una dei pochi apolidi dell’aiuto umanitario, con carattere ecumenico. Nel suo Centro a Borama ha pensato di aprire una scuola di Corano, una di alfabetizzazione e una di lingua inglese. «Gli ammalati arrivano a noi come esseri mortificati, sofferenti, impauriti, calpestati, infelici. Dopo le prime settimane di cura, appena si sentono meglio, vorrebbero fuggire e tornare alla boscaglia, ai loro cammelli, alle loro capre, ai loro campi di miglio. Nella scuola dei colloqui con lo staff ogni giorno, nelle scuole di alfabetizzazione, di Corano, di lingua inglese, acquistano fiducia, capiscono i motivi della necessità di assumere i farmaci sotto controllo».

 

IO SONO

MADRE DI TUTTI

 

«Solo chi mi conosce bene – è ancora la martire forlivese a raccontare di sé – dice e ripete senza stancarsi che io sono somala come loro e sono madre autentica di tutti quelli che ho salvato, guarito, aiutato, facendo passare così sotto silenzio la realtà che io madre naturale non sono e non sarò mai». Raccontava poi di «un vecchio capo che ci voleva molto bene...”Noi musulmani abbiamo la fede”, ci disse un giorno, “e voi avete l’amore”. Fu come il tempo del grande disgelo. La gente diceva sempre più frequentemente che loro avrebbero dovuto fare come facevamo noi, che loro avrebbero dovuto imparare da noi a to care per gli altri, in particolare per quelli più malati, più abbandonati. Diciassette anni dopo, subito dopo il massacro di Wagalla, un vecchio arabo mi fermò al centro di una delle strade principali del povero villaggio e profondamente commosso perché in mezzo ai morti c’erano suoi amici, perché mi aveva visto quando mi avevano picchiato una volta sorpresa a seppellire i morti, perché lui aveva avuto paura e non aveva fatto nulla per salvare i suoi mentre io avevo tutto osato e rischiato per salvare la vita dei loro che erano diventati miei, gridò per essere sentito da tutti: “Nel nome di Allah, io ti dico che, se noi seguiremo le tue orme, noi andremo in paradiso”. A Borama, dove vivo oggi, la gente prega intensamente perché io mi converta al musulmanesimo… cercano di farmi sentire “assimilata” a loro, vicinissima… il dialogo con le altre religioni è questo. È condivisione. Non c’è bisogno quasi di parole».

Al T.B. Centre c’è anche una clinica per gli epilettici e per i malati con disturbi mentali. Li portano in catene, sporchi dei loro escrementi, spesso urlanti: dopo pochi giorni di cura e di care si liberano dalle catene, cominciano a lavarsi, pian piano vengono senza accompagnatori a prendere i loro farmaci. Ed è sempre grazie allo staff veramente unico che diventano promotori due volte all’anno di un Eye Camp: un team di specialisti degli occhi, nel giro di quattro giorni, opera una media di 330 ciechi soprattutto da cataratta usando la lente intraoculare.

La gente è infinitamente grata per questo servizio e a Borama si vedono bandiere con la scritta “Ero cieco e ora vedo”. Annalena andava anche fiera della nuova scuola per 54 bambini sordi, in un paese dove non esistono istituti per i bambini ciechi, sordi, con handicap e dove l´indifferenza è più assoluta verso i diversi. «Una scuola che integra bambini “normali”, accanto ai bambini amputati, vittime della guerra, polio, bambini poveri, ciechi o sordi. E poi il mio orgoglio sono i figli dei tumallo, somali considerati reietti tra i somali: i fabbri ferrai, i cacciatori di piccola selvaggina, i lavoratori del cuoio, i barbieri. Disprezzati, emarginati i cui figli non hanno mai avuto la possibilità di conoscere il valore e la bellezza dell´istruzione».

Annalena ha puntato tutto su queste esperienze per cercare di essere una cosa sola con tutti. «Questo dell’ut unum sint è stata ed è l’agonia amorosa della mia vita, lo struggimento del mio essere. È una vita che combatto e mi struggo, come diceva Gandhi, mio grande maestro assieme a Vinoba, dopo Gesù Cristo, che combatto, io povera cosa, per essere buona, veritiera, non violenta nei pensieri, nella parola, nell’azione. Ed è una vita che combatto perché gli uomini siano una cosa sola. Ogni giorno al TB Center noi ci adoperiamo per la pace, per la comprensione reciproca, per imparare insieme a perdonare». Il segreto di tale combattimento era semplice: «A Wajir eravamo una comunità di sette donne, tutte, sia pure in maniera e in misura diverse, avevamo sete di Dio, e capivamo che quando perdevamo o stavamo per perdere il senso del nostro servizio e la capacità di amare, potevamo ritrovare i beni perduti solo ai piedi del Signore. Per questo, avevamo costruito un eremo e là andavamo per un giorno, o più giorni o per periodi anche lunghi di silenzio ai piedi di Dio. Là ritrovavamo equilibrio, quiete, saggezza, speranza, forza per combattere la battaglia di ogni giorno, prima di tutto con tutto ciò che ci tiene schiavi dentro, che ci tiene nel buio».

Ma il dono più straordinario è stato per lei quello dei nomadi del deserto. «I miei nomadi del deserto mi hanno insegnato a tutto fare, tutto incominciare, tutto operare nel nome di Dio. Ci si alza nel nome di Dio, ci si lava, si pulisce la casa, si lavora, si mangia, si lavora ancora, si studia, si parla, si fanno le mille cose di ogni giornata, e finalmente ci si addormenta: tutto nel nome di Dio… Rendo grazie ai miei nomadi del deserto che me l’hanno insegnato. Poi la vita mi ha insegnato che la mia fede senza l’amore è inutile, che la mia religione cristiana non ha tanti e poi tanti comandamenti ma ne ha uno solo... che quell’Eucaristia che scandalizza gli atei e le altre fedi, racchiude un messaggio rivoluzionario: “Questo è il mio corpo fatto pane perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini, perché, se tu non ti fai pane, non mangi un pane che ti salva ma mangi la tua condanna”. L’Eucaristia ci dice che la nostra religione è inutile senza il sacramento della misericordia, che è nella misericordia che il cielo incontra la terra… Alla fine, io sono veramente capace solo di lavare i piedi in tutti i sensi ai derelitti, a quelli che nessuno ama, a quelli che misteriosamente non hanno nulla di attraente in nessun senso agli occhi di nessuno».

 

Mario Chiaro