IN UNA VITA RELIGIOSA RINNOVATA

MISSIONE E SUE MODALITÀ

 

I rapporti tra vita religiosa e missione ad gentes sono profondamente cambiati negli ultimi decenni. Nuove frontiere si sono aperte,tra le quali il rapporto e il dialogo con le altre religioni su cui anche la teologia oggi sta riflettendo.

 

La vita religiosa nel cammino di aggiornamento messo in moto dal concilio ha percorso un lungo tratto di strada, ma non l’ha ancora esaurito. È ormai tanto comune quanto vero dire che il suo è un rinnovamento incompiuto. C’è ancora qualcosa che manca! In questa ricerca si inserisce la nostra riflessione sulla missione della vita religiosa.

Essa viene dalla sua identità e potrebbe sembrare presuntuoso voler rinnovare la missione quando non è ancora compiuto il rinnovamento della sua identità. Ma noi speriamo che rinnovare – alla luce dell’esperienza e dell’insegnamento della Chiesa e della teologia – a missione, sia l’occasione di chiarificare e far emergere l’urgenza di trovare quella radice profonda, spirituale, della missione che forma l’identità della vita religiosa. Non è forse così che succede anche alla Chiesa? Dall’ortoprassi si risale all’ortodossia.1

Per parlare della missione della vita religiosa, partiamo dalle istanze di rinnovamento della missione ad gentes. Forse di primo acchito non tutti si riconosceranno in questo modello forte della missione. Ma se è vero che la missione ad gentes è il significato fondamentale e la attuazione esemplare della missione tout court o, detto con altre parole, il costante orizzonte e il paradigma per eccellenza di ogni attività missionaria nella chiesa, allora comprendiamo che questo discorso non è peregrino e l’accostamento non è senza significato, ma riguarda anche la missione della vita consacrata nella Chiesa.

Ora la vita religiosa – e la sua missione – in questo momento pone una domanda che non possiamo eludere: Quali dovrebbero essere le modalità della missione dei religiosi in una vita religiosa rinnovata? Questa non sarà più come è stata per tanti anni, legata alle opere dell’istituto, ma dovrà essere testimone della sua origine, di quel esistere a causa di Cristo, che è la sua ragione teologica e del carisma di fondazione, secondo il principio dell’incarnazione. È poi della natura stessa della vita religiosa (totale conformazione a Gesù Cristo per essere memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato) entrare nel mondo e assumere la realtà della storia, in umiltà e spirito di servizio, senza imporre se stessa, nel dialogo e nell’intento di rispondere alle attese del mondo contemporaneo.

 

LA MISSIONE

PRIMA DEL CONCILIO

 

Sono ormai alcuni decenni che abbiamo tematizzato l’elaborazione della nuova missione. Dal concilio in poi è cresciuta la consapevolezza che la missione non può essere più vissuta come nel passato. Il rinnovamento ecclesiologico insieme con i cambiamenti socio-politici del mondo impongono una nuova maniera di essere missionari. Il cambiamento è difficile e lento e molti missionari non riescono (o non vogliono?) abbandonare i metodi del passato che sono per loro come un vestito che non si può più togliersi, divenuto una ineliminabile identità. Come si caratterizzava la missione del recente passato?

 

– Una missione universale del molto fare. La missione, in linea con l’ecclesiologia preconciliare, era organizzata in modo centralizzato, aveva una destinazione universale, senza limiti geografici e doveva arrivare ovunque verso quelle che erano chiamate le «terre di missione», popolazioni che appena allora emergevano sull’orizzonte del mondo occidentale. La missione si configurava perciò come un «fare», fino a fare molto, tutto e di tutto, dalla predicazione alle opere sociali, sotto la spinta dell’urgenza dei bisogni immediati.

 

– Una missione occidentale. La missione tanto era universale nella sua estensione geografica quanto unica e uniforme nella sua attuazione. Essa aveva un solo modello di vita cristiana, di fede, di liturgia e di governo quello che veniva dal centro della Chiesa, ispirato da una teologia unica, quella «romana», inevitabilmente occidentale. A causa della sua origine, delle motivazioni e delle modalità concrete di attuazione, la missione preconciliare è stata segnata e inquinata da una specie di colonialismo spirituale e politico che porta in sé un inconsapevole complesso di superiorità. Senza che nessuno lo affermasse o lo teorizzasse, la missione era a senso unico, aveva tutto da dare e nulla da imparare.

 

– Una missione che insegna ma non dialoga. Era inevitabile che in queste condizioni, a partire dall’ecclesiologia bellarminiana della Chiesa società perfetta, la missione non sentisse il bisogno e il dovere di entrare in dialogo con le tradizioni religiose locali. La convinzione di avere un messaggio assoluto, e quindi indiscutibile (non negotiable), insieme con la paura di mettere a rischio la sua ortodossia e la sua autorità, e con la poca stima delle culture non occidentali, tipica dell’etnologia del tempo, faceva in modo che la missione si trovasse davanti degli interlocutori passivi. La distanza tra autorevolezza e arroganza non è molto grande e la missione – senza volerlo e senza accorgersene – è diventata una missione chiusa su se stessa e chiusa a ogni apporto umano, religioso e culturale.

 

– Una missione ovunque uniforme. La missione di una Chiesa a modello unico non poteva che essere sostanzialmente sempre e ovunque la stessa. Essa produceva una forma di globalizzazione ante litteram o di integrismo, incapace di adattarsi alle realtà, che anzi chiede alla realtà di adattarsi alla Chiesa. La missione non prendeva in considerazione la storia, come il luogo della sua attuazione, come del resto la chiesa stessa rischiava di vivere fuori della storia, appellandosi sempre a principi assoluti ed eterni, e pensando di avere una parola e una soluzione prefabbricate per ogni possibile contingenza. Nessun dialogo, nessuna mediazione, nessuna possibilità di gradualità e di ricerca erano più necessari, dato che tutto era previsto e risolto in anticipo.

 

Tutti comprendono che questo genere di missione ha fatto il suo tempo e non è più praticabile, così come non più possibile mantenere un modello unico di Chiesa e di vita religiosa. La varietà delle situazioni storiche e la molteplicità degli ambienti culturali in cui essa vive, chiedono alla Chiesa, alla vita religiosa e alla missione di rispondere in modo differenziato.

A una Chiesa centralizzata è succeduta una Chiesa comunione di chiese locali o particolari; a una Chiesa a modello unico, succede una Chiesa che si accultura e incultura nei differenti ambiti umani; a una Chiesa maestra succede una Chiesa sorella che accosta tutti nel dialogo e nella compagnia solidale; ad una Chiesa uniforme nella sua strutturazione succede una Chiesa ricca di forme, di doni, di carismi. Ovviamente si tratta sempre della stessa unica Chiesa di Cristo, che tuttavia vive nei luoghi diversi e ha pertanto connotazioni storiche e antropologiche differenti.

 

MISSIONE E VITA

CONSACRATA RINNOVATA

 

Non sarebbe giusto parlare di una missione nuova e diversa, se con questo termine si intendesse una missione che cambia il suo nucleo centrale, l’evangelizzazione che è e rimane la grazia, la vocazione, l’identità più profonda della Chiesa. La missione è sostanzialmente sempre la stessa: l’evangelizzazione, ossia l’annuncio del regno di Dio inaugurato in modo definitivo da Gesù Cristo e affidato ora alla sua chiesa: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco io sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 19-20). Il compito non è cambiato, il messaggio è ancora quello: il regno di Dio, la conversione, l’entrata nella comunione offerta da Dio, la trasformazione del mondo secondo il progetto del Regno, in attesa del futuro ritorno del Signore.

Ma la maniera di svolgere la missione e di porgere il messaggio deve tenere conto dei nuovi tempi e della cultura odierna dei popoli a cui si rivolge, affinché il messaggio sia comprensibile e persuasivo. Il problema della missione va quindi riformulato in un altro modo: quali sono le modalità e gli orientamenti della missione? Alcune indicazioni ci sono venute già dal concilio Vaticano II e dal magistero che è seguito: la missione non si può ridurre solo all’annuncio della parola di Dio, alla celebrazione dei sacramenti e al servizio della comunione. Oggi la missione deve essere servizio allo Spirito, servizio a quella cattolicità antropologica che va alla ricerca dei germi del Verbo presenti nelle persone e nelle culture, e deve impegnarsi nella promozione dei valori del Regno e di quei beni spirituali e morali e i valori socio-culturali, che si trovano sparsi, ad opera dello Spirito Santo, nelle tradizioni culturali e religiose dei popoli, anche al di fuori della chiesa. Malgrado queste indicazioni, la missione non è stata ancora rinnovata: essa attende qualcosa d’altro!

Nel futuro, la missione non si svolgerà più quindi solo secondo la «nota» dell’apostolicità della chiesa, (evangelizzazione e fondazione di comunità ecclesiali), ma anche e soprattutto secondo il modello che viene dalle note della santità e della cattolicità della chiesa. In altre parole la missione dovrà sempre più partire dalla testimonianza di una vita autenticamente cristiana che diventa irradiazione e appello a tutti (cf. At 2,48) e dalla capacità della Chiesa, non solo di arrivare ovunque (cattolicità geografica), ma di penetrare e rinnovare l’intimo delle persone e delle culture (cattolicità antropologica).

Paolo VI accosta i due modelli e li integra: «Per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geograficamente sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità» (Evangelii Nuntiandi 19).

Anche la vita religiosa dovrà acculturarsi e cercare di inculturare il suo carisma (Vita consecrata 80). Un compito enorme… come facilmente si intuisce, ma un compito che non può essere eluso, pena la mancata evangelizzazione e il mancato rinnovamento della vita religiosa. Se la vita religiosa non è ancora al termine del suo cammino di aggiornamento e rimane ancora estranea alla vita dei suoi contemporanei, non sarà anche perché non ha ancora imboccato con determinazione il tornante dell’inculturazione? Essa è rimasta legata non solo a un tempo ormai passato, ma anche a un’universalità di modello che rischia l’astrazione, l’essere fuori dalla storia. Così il progetto della vita religiosa non risponde né alla natura della Chiesa (sacramento universale di salvezza), né a quella della vita religiosa (memoria e profezia del Regno nel nostro tempo). Quali sono allora le nuove dimensioni della missione della vita consacrata nella missione della Chiesa?

 

UNA MISSIONE

PIÙ EVANGELICA

 

Il futuro della vita religiosa, come quello della missione ecclesiale, dipende dalla sua capacità di ritornare al Vangelo e di ripartire da esso. Dovrà ritrovare e mettere in maggior evidenza la prima e più profonda ragione della sua esistenza, e cioè la sua radice teologale. Siamo religiosi a causa di Gesù Cristo. Nello stesso tempo, dovrà assumere un nuovo stile coerente con il Vangelo. Infatti, nel corso della sua storia, la missione è diventata un’impresa di opere pubbliche (religiose e civili) da programmare e organizzare con spirito imprenditoriale e stile manageriale con l’inevitabile sottolineatura dell’efficientismo, della professionalizzazione e, in definitiva, dell’individualismo.

Le opere dell’istituto, tanto benemerite, cessando di essere strumenti della vita religiosa, hanno finito per identificarsi con essa, e hanno mandato in eclissi la vera motivazione della vita religiosa. La missione è prima di tutto una risposta evangelica, un «servizio allo Spirito», caratterizzato da una relazione teologale di invio al mondo, da un movimento spirituale, segnato dalla fede e dall’obbedienza allo Spirito, dalla carità e dal dialogo interpersonale.

 

Le indicazioni evangeliche

 

Per essere religiosi o missionari non basterà allora realizzare delle opere, bisognerà realizzarle per una motivazione teologale e spirituale, che non deve essere solo intenzionale, ma reale, testimonianza di una scelta spirituale che traspare da quello che viene fatto e soprattutto dalla rete di relazioni improntate alla gratuità, alla carità, alla giustizia, alla riconciliazione e al perdono, al dialogo e alla comunione fraterna.

Per rinnovare la missione bisogna ritornare al Vangelo e alle indicazioni evangeliche, quelle che Gesù ha dato ai discepoli (Mt 10,1-42; Mc 3, 13-19 e 6,7-13; Lc 10, 1-16). Questo è il punto di partenza obbligato per rinnovare la missione della chiesa: la comunione di vita con Gesù («li chiamò perché stessero con lui e per inviarli») e, grazie a lui, l’unione con il Padre («pregate il Padrone della messe»), il rapporto comunione-missione («li mandò a due a due»), l’essenzialità del messaggio («strada facendo predicate che il regno dei cieli è vicino»), la semplicità e la povertà come espressione della fiducia in Dio («non procuratevi oro né argento, né bisaccia da viaggio, né due tuniche …perché l’operaio è degno della sua mercede»), la gratuità («gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date»), l’attenzione alle persone e alle loro attese («entrando nella casa rivolgete il saluto») e la fiducia nelle prove insieme con il coraggio apostolico («non preoccupatevi di che cosa direte…vi sarà suggerito in quel momento»).

Il futuro della vita consacrata sta nel ritorno ai valori teologali della missione: «povertà, mitezza, accettazione delle sofferenze e persecuzioni, desiderio di giustizia e di pace, carità» (Redemptoris missio 91c) La missione nel futuro dovrà ritrovare una spiritualità evangelica, fatta di comunione e di missione, di testimonianza ai valori del Regno, di dialogo e solidarietà, di servizio disinteressato e di nuove relazioni con tutti coloro che incontra sul suo cammino.

 

Una missione più spirituale

 

La missione della Chiesa non avrà il suo punto di forza, anzitutto, nell’organizzazione per fare molte cose o per risolvere i problemi della gente, ma in quel «servizio allo Spirito» che farà trasparire la sua realtà interiore, la relazione con Dio e con il suo mistero di salvezza. Sarà una missione che si appoggia sull’azione dello Spirito di Gesù Cristo, sarà motivata dallo Spirito Santo e si metterà alla ricerca dello Spirito del Risorto, come testimonia il libro degli Atti degli Apostoli. Perciò la Chiesa dovrà curare la qualità spirituale della sua presenza e il suo modo di essere in mezzo alla gente, attraverso la «testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità» (EN 41).

Non sarà più il fascino delle sue opere, né le promesse di sviluppo e di progresso, ciò che evangelizza il Regno, ma la fede della comunità che diventa epifania, cioè memoria e profezia del regno di Dio. Con il suo stile di vita cristiana, seriamente intesa, la comunità religiosa afferma che il Regno di Dio vale più di tutto ciò che si può avere, godere e potere e fa nascere nel cuore della gente che sta attorno il desiderio di vedere da chi le viene «la giustizia, la pace e la gioia» (Rm 14,17), l’amore per i poveri e per gli esclusi. La vita dei religiosi dovrà caratterizzarsi per la loro santità apostolica, per la contemplazione del mistero di Dio che appare nel Signore crocifisso e risorto, per quel rimanere in lui che li porta alla fecondità delle opere e all’azione: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diveniate miei discepoli» (Gv 15,8).

 

Nessun trionfalismo o protagonismo

 

Mons. Pierre Claverie, vescovo di Orano, poche settimane prima di essere assassinato diceva a proposito della chiesa e della sua missione: «Credo che la Chiesa muoia per non essere abbastanza vicina alla croce del suo Signore. Per quanto paradossale, la forza, la vitalità, la speranza cristiana, la fecondità della chiesa vengono di là. Non da altre fonti né in altro modo. Tutto il resto non è che polvere negli occhi, illusione mondana. Quando la Chiesa si pone come una potenza in mezzo alle altre, come una organizzazione umanitaria o un movimento spettacolare, inganna se stessa e inganna gli altri».2 La missione, come la Chiesa e la vita religiosa, deve abbandonare ogni ricerca di prestigio umano e ogni trionfalismo per vivere integralmente la sequela del Signore crocifisso.

Del resto oggi alla Chiesa non è più chiesto, e sempre meno le sarà permesso, di organizzare e gestire, in prima persona, opere e strutture sociali che sono sempre più rivendicate dai poteri civili. Quello di cui la comunità religiosa deve diventare specialista è la ricerca di Dio, il rinnovamento delle relazioni personali e la formazione delle coscienze, in una parola, le ragioni del vivere, sull’esempio di Gesù Cristo, così attento a risvegliare nelle persone quella attesa di salvezza che è in loro.

 

Santità e libertà per annunciare e denunciare

 

Nella misura in cui la comunità cristiana ritrova la sua natura spirituale, diventerà più libera per annunciare il Vangelo anche nelle sue implicazioni sociali. Dalla una maggiore prossimità con la gente, la comunità diventerà più immediatamente sensibile all’anti-Regno, alle situazioni di ingiustizia cioè che attendono di essere sanate, e si farà avvocata dei diritti della persona umana e delle comunità, soprattutto dei più poveri e indifesi. Di qui verrà l’impegno a essere voce di chi non ha voce, con quella parresia apostolica che caratterizza la missione dei primi discepoli. Il terzo millennio, sin dal suo apparire, mostra che non è finito il tempo della parresia per difendere i poveri e per promuovere una civiltà dell’amore, solidale e inclusiva. Non è questo un tratto specifico della missione della vita religiosa? (Ecclesia in Europa 38).

 

La santità motore della missione

 

Al venire meno delle opere proprie, deve emergere più chiaramente la santità dei religiosi e delle comunità. Le comunità degli Atti degli Apostoli (cfr. At 2,42-48 e 4,32-35) non avevano bisogno di fare della propaganda al Vangelo, che non è un prodotto da commercializzare attraverso la propaganda per convincere la gente. Era la qualità della loro vita a proporre il messaggio evangelico, era la loro santità che irradiava un Vangelo tradotto in vita vissuta. Per le prime comunità cristiane la missione era il dinamismo stesso dello Spirito presente in esse, il frutto normale della vita cristiana, l’impegno per ogni credente. Non era qualcosa che si ha o che si fa, ma qualcosa che sgorga naturalmente dall’«essere» discepoli.

La missione della Chiesa e la sua santità esigono un radicamento comunitario nell’assiduità all’ascolto della Parola, alla preghiera e soprattutto all’Eucaristia (la frazione del pane) e la comunione dei beni. Così la comunità attirava la simpatia della gente (cf At 2,47; 4,33) ed era un invito ad aderire al Vangelo e a entrare nella chiesa di Dio: «Intanto il Signore aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (At 2,48).

La missione del futuro, partendo dalla santità personale e comunitaria secondo l’esplicito invito del papa (Novo millennio ineunte 30), dovrà specializzarsi non tanto nella realizzazione di opere visibili e in performance clamorose, quanto nella ricerca di una santità feriale e quotidiana, fatta di orazione e di comunione, di carità e di servizio. I religiosi non saranno chiamati a essere i factotum per la chiesa locale, ma torneranno ad essere i testimoni della vita nuova nello Spirito, del regno di Dio che è “giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rm 14,17).

 

UNA MISSIONE

PIÙ DIALOGICA

 

Per le ragioni dette sopra, l’evangelizzazione della missione ad gentes è stata per molto tempo una proposta a senso unico, senza ascoltare quello che gli interlocutori si attendevano o già conoscevano. In una Chiesa, che si sentiva madre e maestra dei popoli, questo era del tutto normale. Tuttavia oggi il nostro mondo, segnato dal fenomeno del pluralismo culturale e religioso, non accetta più questo magistero esclusivo e a senso unico, e attende di essere interpellato.

Già nel corso del concilio Vaticano II la Chiesa ha scoperto di non avere solo un contributo da dare al mondo, ma di dover riconoscere anche quello che può ricevere dal mondo (Gaudium et spes 44). Di qui una nuova relazione di reciprocità e di dialogo e la convinzione che il dialogo è la nuova strada della missione della Chiesa. I discepoli di Cristo «profondamente animati dallo Spirito di Cristo, devono improntare le relazioni con [gli uomini in mezzo ai quali vivono] ad un dialogo sincero e paziente affinché conoscano quali ricchezze Dio ha dato ai popoli» (Ad Gentes 11). Questo è anche l’esempio di Gesù Cristo: egli, che pure portava il Vangelo di Dio e si imponeva alle forze del male, proponeva il suo insegnamento con autorevolezza (Mc 1,22.27), ma con umile semplicità e con atteggiamento dialogico senza mai imporre alcunché neppure in nome dell’urgenza e dell’assolutezza del Regno.

La comunità religiosa a partire dalla carità, dalla presenza dello Spirito Santo in essa, che è l’agente primo della comunione, dovrà rimanere aperta a tutti, senza chiudersi su se stessa per paura di diventare «impura» al contatto con il mondo, dovrà lasciarsi accostare da quelle persone che chiunque la cerca, soprattutto da quelle che magari non vanno più in chiesa o non ci sono mai andate, soprattutto dovrà avere sempre la porta aperta per i fedeli della altre religioni.

 

Il dialogo interreligioso

 

Infatti, una forma particolare di dialogo da sviluppare nella missione oggi è il dialogo interreligioso. Per molto tempo le religioni non cristiane non sono state iscritte nell’agenda della Chiesa. Ma il concilio ha ricordato che « lo Spirito operava nel mondo già prima che il Cristo fosse glorificato» (AG 4) e che i cristiani, particolarmente gli evangelizzatori, devono scoprire «con gioia e rispetto i germi del Verbo nascosti nelle tradizioni religiose» (AG 11). Di qui, da qualche anno ormai, è partita «la grande sfida del dialogo interreligioso, nel quale il nuovo secolo ci vedrà ancora impegnati» (AG 11).

In un mondo diventato un «villaggio globale», le religioni non cristiane sono diventate elementi permanenti del panorama religioso mondiale e anche di quello socio-politico e sono ormai di casa anche da noi. Anch’esse hanno intrapreso la loro missione, anch’esse soffrono, come il cristianesimo, l’erosione della secolarizzazione e della globalizzazione, anch’esse sono confrontate con i problemi della pace del mondo.

Giovanni Paolo II, che ha voluto i raduni di preghiera interreligiosa di Assisi del 27 ottobre 1986 e del 24 gennaio 2002, superando le perplessità di coloro che vi vedevano il rischio dell’indifferentismo, considera questi incontri la prova che possiamo trovarci insieme con i fratelli non cristiani nella comune ricerca di Dio e nella preghiera. Per questo il dialogo deve continuare, dice il Papa, anche perché, nel quadro di un più spiccato pluralismo culturale e religioso, quale si va prospettando nella società del nuovo millennio, tale dialogo è importante anche permettere un sicuro presupposto di pace e allontanare lo spettro funesto delle guerre di religione.

 

Mettere in gioco la propria fede nel dialogo

 

Senza dubbio il dialogo interreligioso caratterizzerà la missione del futuro. Non è questa anche la missione delle comunità religiose? Le comunità religiose, che si caratterizzano anzitutto come luoghi della ricerca di Dio, si devono aprire al dialogo con tutti coloro che cercano Dio. Dovrebbero essere ovunque luoghi di incontro, dove il dialogo diventa occasione per verificare il nostro essere cristiani, la nostra testimonianza evangelica, per comunicare a tutti la gioia di aver avuto il dono della salvezza, la scoperta che ha cambiato la nostra vita. Il dialogo in questo senso diventa non solo la sfida missionaria del nostro tempo, ma anche la grazia che costringe i religiosi a diventare più cristiani, più spirituali. Esso obbliga le comunità a essere fedeli a se stesse e a mantenersi aperte al mondo.

Di solito noi consideriamo il dialogo come una via diretta alla conversione e al battesimo. Questo è uno sbaglio che potrebbe compromettere la verità del dialogo. Il dialogo è un elemento della missione, è un cammino che prepara l’annuncio “per quando è ora”. Il tempo è di Dio e non è in nostro potere di accelerare il tempo della grazia: la conversione e la salvezza vengono da Dio, quando egli vuole. La nostra preoccupazione dovrebbe essere quella di far capire come è bello aver incontrato la nostra salvezza o pienezza in Gesù Cristo e come è possibile incontrarlo di nuovo nella persona dei nostri fratelli non cristiani. Così, in un mondo spesso chiuso dalla paura e dall’egoismo, le nostre case dovrebbero essere aperte e accoglienti per questi nostri fratelli, segni di quell’apertura che è stata provocata dalla croce del Signore.

 

UNA MISSIONE

PIÙ INCULTURATA

 

Abbiamo visto che la missione del futuro dovrà vivere in comunione e in dialogo con il mondo circostante e avere un’attenzione speciale alla cultura e al processo di inculturazione del Vangelo e della fede cristiana. È un’esigenza oggi particolarmente acuta ed urgente Ne va della capacità del Vangelo di essere accolto da tutti in modo profondo ed esistenziale, non superficiale o solo intellettuale, ne va anche dell’identità dei religiosi i quali sono chiamati ad una conversione che li coinvolge integralmente: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua mente e con tutte le tue forze» (Mc 12,30).

Purtroppo non sempre e non dappertutto la Chiesa ha testimoniato questa attenzione per la cultura e per la profondità della persona. Troppi pregiudizi hanno impedito, in passato, di credere alla validità delle tradizioni culturali e religiose dei popoli non cristiani, fino a sottovalutare l’importanza della cultura come mezzo di evangelizzazione. Ma anche qui nei nostri paesi noi non conosciamo spesso la cultura della gente, parliamo perciò senza trovare ascolto, parliamo senza farci capire e senza incontrare le vere attese della gente.

In qualche luogo la rapidità dell’evangelizzazione ha impedito di attardarsi alle esigenze delle singole persone e alla conoscenza delle loro tradizioni con il risultato di un cristianesimo steso sopra la cultura a somiglianza di vernice superficiale, che non ha potuto penetrare nel fondo dell’uomo e della società.

Anche la vita consacrata si è accostata alle culture senza tenere conto delle loro caratteristiche e senza rispettare le persone imponendosi in modo uniforme e superficiale. Pensiamo alla maniera con cui molti istituti sono entrati in altre culture e in altri popoli, portando la loro maniera di vivere la vita religiosa occidentale senza minimamente pensare ad acculturarla. Quanta fatica e quante energie sprecate per vivere un modo di essere che non era connaturale!

 

Rifare oggi il cammino nell’inculturazione

 

Oggi è il momento di rivedere quello che non è stato fatto come si doveva e di acculturare il carisma nelle varie culture per rivivere quell’esperienza di fede incarnata (il carisma) che sta all’origine dell’esistenza di un dato istituto. Questo processo domanda una conoscenza profonda delle culture nelle quali si trova l’istituto, una conoscenza fatta di amore, empatia, simpatia, comunione e partecipazione alla vita della gente. Vale anche per la vita religiosa ciò che il papa suggerisce ai missionari che vogliono evangelizzare in maniera credibile e fruttuosa. Scrive Giovanni Paolo II che chi vuol portare il proprio carisma religioso in un’altra cultura deve «inserirsi nel mondo socio-culturale di coloro ai quali sono mandati superando i condizionamenti del proprio ambiente d’origine, imparare la lingua della regione in cui lavorano, conoscere le espressioni più significative di quella cultura, scoprendone i valori per diretta esperienza» (RM 53).

La condizione per una autentica inculturazione è vivere la propria esperienza di fede inseriti tra la gente, condividendola con loro in uno stile di vita evangelico che rifletta quello di Gesù, la Parola fatta carne. Così potremo condividere anche il destino, le speranze e le sofferenze dei fratelli, e testimonieremo la nostra fede in semplicità e comunione, senza far pesare sui poveri la nostra potenza culturale ed economica. Questo è il compito dell’acculturazione che riguarda tutti, stranieri e locali.

Quello invece dell’inculturazione compete ai religiosi autoctoni. Ad essi tocca di vivere la proposta evangelica della vita consacrata che è stata portata in modo da potere poi «esprimere progressivamente la propria esperienza cristiana in modi e forme originali, consone alle proprie tradizioni culturali» (ib). Ma, per favore, lasciamoli tentare e sbagliare, senza essere dei censori fiscali e senza abbandonarli al loro destino!

Il processo di inculturazione deve essere accompagnato da una particolare benevolenza e da un’acuta attenzione tanto alla comunione di tutto l’istituto, che deve accogliere e sentire la nuova esperienza come una sua creatura, quanto alla salvaguardia della novità che sta nascendo e che viene ad arricchire l’intera congregazione.

 

GLI AMBITI

DELL’INCULTURAZIONE

 

L’inculturazione è una realtà abbastanza recente, e per questo se ne parla molto, senza peraltro che se ne vedano molte realizzazioni. Eppure rimane vero che «una fede che non diventa cultura, è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata e non fedelmente vissuta» (Ecclesia in Africa 78), come ha detto il papa alle chiese d’Africa. Nella vita consacrata il processo di inculturazione deve raggiungere tutti gli aspetti dai più esteriori e facili (linguaggio e vestito, espressioni culturali) fino ai più sensibili e delicati, come i voti, la vita comune, le strutture di governo e di comunicazione, fino a creare una nuova maniera di essere religiosi, una sottocultura. Solo così ci sarà un’autentica inculturazione. Solo così l’internazionalizzazione dell’istituto sarà un autentico beneficio per l’istituto e i suoi membri si sentiranno realmente a casa propria, fratelli all’interno di un’autentica comunione e non stranieri nella casa del proprio padre. Solo così l’internazionalizzazione non si salderà solo in un incremento numerico dell’istituto, ma in un arricchimento qualitativo e carismatico.

Non si deve credere che questo processo di inculturazione riguardi solo le nuove fondazioni o comunque quelle che non si riconoscono nella cultura di fondazione dell’istituto. Anche nell’ambito culturale originario dell’istituto il processo di inculturazione deve essere periodicamente verificato, soprattutto in considerazione dei rapidi cambiamenti della nostra epoca.

 

Dialogo e riconciliazione in un mondo diviso

 

Il papa ricorda un impegno particolarmente attuale nel nostro tempo affidato agli istituti internazionali: il compito di tener vivo e di testimoniare il senso della comunione tra i popoli, le razze, le culture. Quanto alle comunità internazionali «nelle quali si incontrano come fratelli e sorelle persone di differenti età, lingue e culture, si pongono come segno di un dialogo sempre possibile e di una comunione capace di armonizzare le diversità» in quest’epoca caratterizzata «dalla mondializzazione dei problemi e dal ritorno degli idoli del nazionalismo» (Vita consecrata 51). Tutto questo, ovviamente, sarà possibile se la comunità si sforzerà concordemente di vivere il Vangelo del Regno.

Sarà questa la maniera migliore di restituire ad una cultura il bene ricevuto: rendere, sotto forma di vangelo vissuto, di capacità di riconciliazione e di dialogo, di condivisione e di speranza, quel capitale umano che è entrato nell’istituto. In questi tempi di globalizzazione che fanno emergere con maggiore acutezza e tragicità le divisioni del mondo, le piccole comunità religiose possono essere in mezzo alla gente un segno di speranza cristiana e un luogo di incontro, dei laboratori di dialogo in cui si elabora una spiritualità della comunione e dell’accoglienza gratuita e gioiosa di tutti.

 

Inculturazione, per il futuro della vita consacrata

 

Non sfugge a nessuno che il processo di inculturazione è una condizione per il futuro e il rinnovamento della vita consacrata. Come possiamo dire che la missione della Chiesa non riesce a penetrare in profondità se non si localizza nel contesto culturale, così, e a più forte ragione, la vita religiosa se non rinasce dentro la cultura. Ma il pluralismo culturale di un istituto è una ricchezza solo se è accompagnato da una reale inculturazione del carisma, altrimenti rischia di trasformarsi in una forma di pericolosa globalizzazione.

Il papa in Vita consecrata ricorda che la vita consacrata, se mantiene la forza profetica che le è propria, «diventa all’interno di una cultura fermento evangelico capace di purificarla e farla evolvere».(VC 80). È in fondo la lezione dei fondatori che sono stati sensibili alle esigenze del loro tempo e del loro ambiente e che «hanno saputo immergersi nel loro tempo senza farsene sommergere, ma additando alla loro generazione nuovi cammini» (VC 80). Non solo, ma la vita religiosa vivendo il suo carisma può «offrire concrete e significative proposte culturali” come “vivere l’accoglienza reciproca nella diversità, esercitare l’autorità, la condivisione dei beni, l’internazionalità, la collaborazione intercongregazionale, l’ascolto degli uomini e delle donne del nostro tempo» (VC 80).

 

Ecco alcune riflessioni che possono orientare la nostra ricerca sulla vita consacrata nel tentativo di vedere dove essa si incamminerà nel prossimo futuro. La prospettiva è diretta verso una vita consacrata più spiccatamente spirituale, ma non per questo meno incarnata nella storia. Non mi nascondo la paura che questo ritorno alla spiritualità possa essere inteso come una forma di riflusso verso un certo intimismo o uno spiritualismo che oggi vengono spesso sbrigativamente classificati come fondamentalismo.

Questo è oggi un sostantivo che suona come un gong che mette immediatamente in moto immagini di terrore e di morte. È vero che esso richiama sempre una reazione a qualche cosa che è andato fuori delle misure, una reazione in nome delle realtà fondamentali della fede e della vita. Ma «non è forse vero – si domanda provocatoriamente Joseph Moingt, gesuita già professore presso l’Institut Catholique di Parigi3 – che essere fondamentalista è proprio dell’essenza stessa del dato religioso, qualunque esso sia?».

Il nostro discorso è infatti volutamente un ritorno ai fondamenti della vita religiosa, a quelle scelte religiose per cui viviamo veramente da cristiani, secondo il Vangelo. Solo ritornando al Vangelo possiamo integrare tutti gli aspetti del vivere cristiano e del vivere religioso, compresa la missione. Ora francamente questo non mi pare una deriva fondamentalista, ma piuttosto il punto da cui ripartire per rimetterci sulle strade della storia, perché è là che Gesù Cristo ci ha lasciati, quando, in nome del potere universale che egli ha «in cielo e in terra», ci ha intimato: «Andate ed ammaestrate tutte le nazioni …Ecco io sono con voi tutti i giorni fine alla fine del mondo» (Mt 28,18).

Anche oggi noi, come i discepoli di allora, consapevoli di non essere sempre all’altezza della chiamata e della missione, abbiamo i nostri dubbi (Mt 28,17) e ci chiediamo se veramente Gesù ha fatto bene a chiamarci. Ma Gesù ci invia lo stesso, perché la forza per continuare non sta nella capacità e nell’impegno personale dei discepoli, ma nello Spirito Santo, nell’amore di Dio di cui abbiamo fatto personale esperienza, quando Cristo l’ha effuso su di noi: «Come il Padre ha mandato me così anch’io mando voi … Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,21-22). Abbiamo allora compreso che è «l’amore di Cristo [che] ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti… perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (2Co 5,14-15).

 

Gabriele Ferrari

 

 

1 Il presente “Speciale” riprende il testo della relazione tenuta da p. Gabriele Ferrari al convegno di Capiago (Como) del 13-19 luglio 2003, sul tema Vita religiosa e missione nel confronto con le culture oggi. La prospettiva della spiritualità.

2 Testo citato da La vie spiritelle, n. 743, juin 2002, p. 80-81.

3 Joseph Moingt, L’angoisse du fondement, in Spiritus 171 juin 2003, p. 181.