LO STRUMENTO DI LAVORO DELL’ASSEMBLEA CISM

DENTRO LA STORIA QUOTIDIANA

 

Necessità e complessità di un dialogo tra chiesa locale, vita consacrata e territorio. Alle affermazioni programmatiche del concilio e postconcilio non corrisponde ancora una prassi consolidata di dialogo, confronto e collaborazione.

 

In preparazione all’assemblea generale della Cism, che avrà luogo a Valdragone (San Marino) dal 3 all’8 novembre, era stato promesso uno strumento di lavoro molto breve1; il gruppo redazionale è stato di parola. Dopo un rapido profilo teologico della chiesa locale, si entra subito nel tema di fondo dell’assemblea: chiesa locale, vita consacrata e territorio, un dialogo aperto.

Le premesse per una definizione di chiesa locale si trovano tutte nei documenti del Vaticano II; è stato proprio il concilio ad aiutarci a capire che non è possibile pensare la “cattolicità” di una chiesa locale «al di fuori, indipendentemente dalla cattolicità della Chiesa universale»; la cattolicità, infatti, non è solo una caratteristica della Chiesa universale, ma lo è anche, per principio e nella prassi, della chiesa locale. Il merito del Vaticano Il, in altre parole, è stato quello di avere immesso elementi essenziali per una nuova comprensione della realtà ecclesiale. La riflessione è continuata ininterrottamente anche negli anni postconciliari; oggi, più che mai, è facile comprendere come «ogni fedele nell’appartenere concretamente alla sua chiesa locale che vive nel suo territorio, accede immediatamente alla Chiesa nella sua universalità» (Lettera della Congregazione per la dottrina della fede Communionis notio); nello stesso documento si fa esplicito riferimento alla vita consacrata sottolineandone l’importanza nel contesto di una Chiesa-comunione; infatti, la vita consacrata, pur non essendo strettamente vincolata ad una chiesa locale e per il suo particolare riferimento al ministero petrino, si pone come elemento privilegiato «al servizio della comunione tra le diverse chiese particolari».

Sulla base di quanto detto dal concilio, si può allora dire che «incarnazione e dialogo culturale sono le parole preferenziali che la teologia usa per dare il senso della collocazione della Chiesa in un territorio». Se con l’incarnazione il riferimento immediato è quello a un determinato dato storico e geografico, in cui Dio ha piantato la sua tenda in mezzo a noi, il dialogo culturale, invece, «rimanda all’uomo contemporaneo nei suoi bisogni autentici, a un’idea di cultura non legata al sapere accademico, ma a quello che la gente sente e vive, soffre e spera».

Grazie soprattutto alla spinta del rinnovamento ecclesiologico conciliare, negli ultimi decenni «sono molto cresciute la presenza attiva e la collaborazione dei religiosi/e nelle comunità ecclesiali che locali, oltre che l’apertura a una incorporazione più attiva alla vita del popolo di Dio». La grande svolta iniziata con il Vaticano II e proseguita con il documento Mutuae Relationes, è stata poi avvalorata dal sinodo sulla vita consacrata, dall’esortazione apostolica Vita consecrata e dall’istruzione Ripartire da Cristo; gli approfondimenti sono avvenuti non solo sul piano giuridico e istituzionale ma più ancora su quello teologico-spirituale; hanno inciso non solo sul versante interno della vita consacrata, ma anche su quello esterno, nel suo rapporto con il mondo.

Questo processo di incarnazione ha richiesto la riscoperta del proprio carisma, opportunamente adattato alle nuove situazioni, il recupero di una piena immanenza della vita consacrata nella chiesa locale, il superamento dell’istituto della esenzione come una forma di sovradiocesanità disincarnata, una relazione comunionale di reciprocità con gli altri stati di vita, una concezione più dinamica dei voti.

 

RICCHEZZA DELLA VC

NELLA CHIESA LOCALE

 

L’esigenza di una piena ricollocazione ecclesiale della vita consacrata nella chiesa locale era già stata riaffermata nel documento Mutuae relationes; i vescovi, vi si legge, hanno il diritto di esigere dai religiosi un inserimento in maniera organica nell’azione pastorale delle singole chiese locali; ma a questo diritto corrisponde il dovere, sempre da parte dei vescovi, di garantire, con la loro sollecitudine, che gli istituti religiosi possano «crescere e fiorire secondo lo spirito dei fondatori, sostenendo la difesa della loro identità carismatica». A questo scopo i superiori maggiori, dal canto loro, erano stati chiamati a edu­care a un genuino senso ecclesiale; non basta sentire cum et in Ecclesia; si deve anche sentire Ecclesiam, fino al punto da identificarsi con essa «in una piena ed organica comunione»; dovrebbe essere facile, allora, guardando alle molteplici spiritualità e alle varie forme di servizio carismatico della vita consacrata, vedervi una ricchezza per la chiesa particolare, una ricchezza che, però, «chiede di essere sempre meglio offerta, sempre più valorizzata, e ripensata dentro una pastorale organica della chiesa locale».

Il banco di prova di questa reciproca disponibilità sono soprattutto le parrocchie affidate agli istituti religiosi; è quello il luogo privilegiato del rapporto tra chiesa locale, vita consacrata e territorio; proprio in ambito parrocchiale è percepita l’esigenza di «ricercare nuove tipologie di presenza per una pastorale fedele al carisma e incarnata nella chiesa locale».

Tutto questo non è possibile senza i cardini ecclesiologici fondamentali della comunione e della missione; la comunione ci viene a ricordare che «le vocazioni e gli stati di vita, nella Chiesa, oltre che ordinati gerarchicamente, sono ordinati l’uno all’altra, per un reciproco e complementare servizio e sono interdipendenti tra di loro»; la missione, a sua volta, ci aiuta a comprendere come «tutte le vocazioni e tutti gli stati di vita devono concorrere all’unica missione della Chiesa, ciascuno con l’apporto proprio». Da qui la ferma convinzione che la vita consacrata non può non riaffermare il suo riferimento «alla Chiesa in cui vive e in particolare al vescovo locale; nello stesso tempo, però, anche il vescovo dovrebbe poter guardare al carisma della vita consacrata presente nella sua diocesi «non solo come a una forza da utilizzare per i propri programmi, ma innanzitutto come ad una risorsa originaria, a un dono che lo Spirito ha suscitato per il bene della Chiesa tutta».

Partendo da queste convinzioni, appaiono allora tutte le possibili conseguenze sul piano pastorale operativo, dal favorire la funzione propria del vescovo e quella del superiore maggiore, al far crescere forme diversificate di coordinamento tra i vari istituti e una collaborazione tra questi e il clero secolare, al rendere possibile una pianificazione e armonizzazione pastorale delle presenze degli istituti in una chiesa locale e sul territorio regionale e nazionale, al promuovere la specificità del carisma di ogni istituto, al regolamentare, infine, in modo sapiente e dialogico, la giusta autonomia di vita e di governo degli istituti di vita consacrata.

Il confronto e il dialogo tra chiesa particolare e vita consacrata, poi, sono tanto più importanti quanto più ci si proietta sul territorio. È risaputo come la gran parte delle forme di vita consacrata «nasce come espressione della vitalità di una chiesa locale», e solo in un secondo momento si assiste alla sua espansione su un più ampio territorio. Quante volte, nella storia, le intuizioni nate all’interno di uno specifico ambiente sociale e religioso «si ampliano verso più vasti orizzonti»; nello stesso tempo, però, sono gli istituti religiosi che portano dentro la chiesa locale nuove sensibilità spirituali, culturali, teologiche, pastorali. La fisionomia del cattolicesimo italiano, ad esempio, da dove è nata se non «dall’incontro, talvolta anche molto vivace, tra queste diverse modalità di annuncio e testimonianza del vangelo?».

Lo stesso istituto della esenzione, si legge nello strumento di lavoro, «non ha significato solo un marcare ambiti e confini di competenze tra istituzioni che si trovano a operare l’una a fianco dell’altra, ma ha garantito una più libera dialettica tra le componenti ecclesiali, educando a saper andare oltre le misure localistiche e interpretando gli interessi particolari all’interno di una più ampia prospettiva ecclesiale».

 

COMPLESSITÀ

DEL TERRITORIO

 

L’appartenenza tanto della chiesa locale che della vita consacrata al territorio è un fatto incontrovertibile; a una condizione, però, e cioè che «si assuma il territorio non tanto e non solo in chiave geografica, ma come spazio delle relazioni interpersonali, economiche, politiche e della loro sedimentazione in tradizioni, costumi, stili di vita». Del resto, il rapporto della Chiesa con il territorio, ha da sempre profondamente influenzato i linguaggi dell’annuncio cristiano elaborati in dialogo con le culture territoriali e nello stesso tempo «ha plasmato e modificato i rapporti sociali, gli ordinamenti giuridici, i modelli di produzione e distribuzione della ricchezza».

È questo il motivo per cui ogni comunità diocesana e, ancor più, ogni comunità parrocchiale o di vita consacrata è chiamata a stare dentro la storia quotidiana in uno specifico ambito territoriale, assumendo un compito dinamico e creativo, impegnandosi in una funzione critica e dialettica, svolgendo un ruolo propositivo e progettuale, abitando il contesto territoriale non da spettatori, ma da protagonisti.

Non è facile percepire fino in fondo la complessità del territorio; se anche oggi dal punto di vista geografico il territorio rimane uno spazio che è possibile definire con relativa semplicità e sicurezza, è molto più difficile, invece, comprenderne la fisionomia culturale, la identità spirituale, i bisogni che esprime. Entrare in relazione con un territorio significa allora avere la piena consapevolezza che la società contemporanea è sì omogenea, uguale a se stessa al punto da poter parlare di villaggio globale; però, nello stesso tempo, presenta molte dimensioni che tra di loro risultano spesso giustapposte; è una società, in altre parole, «attraversata da conflitti e divisioni, frammentata in gruppi talvolta anche spazialmente disgiunti, aggregato di minoranze portatrici di interessi divergenti».

Proprio per questo è determinante conoscere e capire la realtà; diversamente è difficile spiegare i meccanismi che la determinano, focalizzare la natura dei fenomeni che la caratterizzano, scoprire le patologie che la tormentano, individuare le cause per rimuoverle e per prevenirne gli eventuali effetti; non basta una semplice rilevazione dei dati; occorre un’indagine scientifica con la quale delineare un quadro preciso e concreto delle reali circostanze socio-culturali ed ecclesiali; infatti è in questa realtà che la vita consacrata oggi è chiamata a proporre la propria testimonianza; solo in questo modo può garantire continuità e innovazione insieme «una tradizione secolare di presenza fatta non solo di opere e attività pastorali, ma di testimonianza di santità, di amore evangelico, di compassione e condivisione del dolore».

Per muoversi in questa direzione è necessaria, però, una chiara capacità progettuale; ma, purtroppo, questa progettualità nell’azione pastorale stenta a divenire normalità; se è vero che i piani pastorali non mancano mai, ciò che si rivela debole è la mentalità e lo stile di sottofondo, lo stile della progettazione che diviene programmazione; non basta, attraverso questi piani pastorali, organizzare la distribuzione delle risorse materiali e personali, dei tempi e dei luoghi, degli interventi e delle responsabilità in modo da conseguire gli obiettivi fissati; è ancora più importante assicurare la qualità della testimonianza spirituale. Le comunità religiose, sul territorio, sono primariamente «luoghi di santità, ambienti nei quali le persone possono ritrovare il senso della loro esistenza, spazi nei quali vi sono uomini e donne che in modo non retorico sperimentano vie di riconciliazione e di pace»; forse alla radice di una certa insignificanza e marginalità della vita religiosa «c’è anche un venir meno della tensione spirituale ad essere presenze significative per santità, amore alla parola di Dio, gioiosa esperienza di preghiera».

Non è possibile ignorare il cambiamento in atto del quadro politico e legislativo italiano, in base al quale viene considerato sempre più centrale proprio il territorio. Gli assetti istituzionali civili saranno sempre più caratterizzati dalle prospettive di decentramento; la dimensione regionale civile e istituzionale acquisterà un rilievo sempre più consistente. Molte leggi nazionali e atti del governo centrale avranno sempre più caratteristiche di “quadro”: principi e obiettivi generali, da attuare creativamente su base regionale.

Ora «tutto ciò cambierà il rapporto della Chiesa con le istituzioni»; anche la salvaguardia dei segni di presenza ecclesiale nei vari ambiti della vita civile dovrà necessariamente ricollocarsi sempre di più sul territorio; saranno allora proprio le conferenze episcopali e quelle dei superiori maggiori, a livello regionale, che dovranno assumere una valenza sempre più chiaramente pastorale, culturale e pratica; infatti, proprio in regione «si prenderanno un sempre maggior numero di decisioni che riguardano la vita della gente, il territorio, le comunità ecclesiali che in esso vivono e in esso annunciano e testimoniano il vangelo».

A Valdragone, i superiori provinciali e quanti parteciperanno all’assemblea Cism, dovranno dare risposte concrete a precise domande presenti nel documento di lavoro; non potranno non chiedersi, ad esempio, in che modo la vita consacrata vive la tensione tra chiesa locale e Chiesa universale, quali sono le motivazioni delle difficoltà e, a volte, dei conflitti veri e proprio con i vescovi, fino a che punto è mutata o in via di mutazione la consapevolezza, da parte delle comunità religiose, del proprio rapporto con la chiesa locale e con il territorio in cui sono inserite. Le risposte e le proposte che potranno venire da Valdragone non interesseranno solo la vita consacrata; saranno accolte sicuramente con interesse anche dall’assemblea della Cei, che proprio in questo periodo sta ponendo al centro della propria riflessione la parrocchia, quella realtà ecclesiale in cui, di fatto, in positivo o in negativo, interagiscono quotidianamente chiesa locale, vita consacrata e territorio.

 

Angelo Arrighini

 

1 Cf. Testimoni 16/2003, pp. 15-16.