DIO NON HA PAURA
«Vedo paura del futuro, e la risposta può essere solo rimettere al centro la Parola», ha affermato il presidente della Comunità di Sant’Egidio in occasione dell’uscita di un suo scritto.1
Andrea Riccardi, ordinario di storia contemporanea alla terza Università di Roma e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, vuol farci riflettere proprio a partire dalla paura: «Vedo in giro un sentimento di paura di fronte alle nuove trasformazioni e responsabilità. Paura del futuro, paura di una società ricca di perdere il proprio benessere, ma anche paura di essere condannati all’impotenza e all’irrilevanza, paura di guardare in faccia il mondo, paura di comprendere, di capire. Essere cristiani vuol dire vivere nel mare in tempesta. I discepoli si angosciavano e Gesù chiedeva conto della paura. La paura nasconde la nostra poca fede, ma anche la difficoltà di convivere con la debolezza. Credo che i cristiani europei sentano una qualche irrilevanza, che talvolta diventa un sentimento d’impotenza. È la ricchezza a darci l’illusione che si può vivere in un mondo senza dolore, senza fatica. La ricchezza è un grande anestetico».
UN BEL TEMPO
PER ESSERE CRISTIANI
Riccardi definisce il cristianesimo una “forza debole”, rifacendosi alla nota espressione dell’apostolo Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: “Quando sono debole è allora che sono forte”. È qui che troviamo la ragione di lottare contro ogni paura. «I cristiani sono persone normali, rigenerate alla speranza e alla forza del Vangelo. Dal Vangelo deve venire l’audacia che spesso manca alle nostre comunità. Voglio citare ancora san Paolo: “Tutto posso in colui che mi dà la forza”. Allora io dico: rimettiamo al centro la parola di Dio, la liturgia. Non occupiamoci solo della frequenza alla messa della domenica. Guardiamo anche come sono le nostre liturgie, come proclamiamo la parola di Dio. Leggiamo le Scritture? Insomma, noi abbiamo il pensiero di Dio?».
Il volume così può essere letto a partire dal capitolo centrale (pp. 138-149). In breve si dice che il novecento è stato il secolo più secolarizzato della storia. Eppure, ha conosciuto una profondità di fede che oggi resta nella memoria dei suoi martiri. Monsignor Romero, il beato Licthenberg, il parroco di Berlino che faceva pregare per gli ebrei mentre venivano perseguitati, e tanti altri ci hanno trasmesso l’essenzialità della forza debole della fede. Accogliere questa eredità vuol dire riscoprire che il mondo è terra di missione e noi dobbiamo essere cristiani in maniera pubblica. «La nostra responsabilità di cristiani è accresciuta. Il mondo ci entra in casa, niente è più lontano, l’Islam abita nella porta accanto alla nostra. I giorni d’oggi sono un bel tempo per essere cristiani, basta un po’ più di coraggio e un po’ più di speranza per guardare in faccia il futuro. Con fiducia».
Molti capitoli del libro sono nati intorno al giubileo del duemila e intendono aiutare a percepire il fatto che il cristianesimo non fa che ricominciare: c’è un tesoro di fede, in parte inesplorato e forse poco vissuto, che si offre ai cristiani del nostro tempo. Diceva infatti Giovanni XXIII: “Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. Non si tratta di inseguire l’effimero o il fittizio, ma di valorizzare il patrimonio di eredità e in particolare l’eredità dei nuovi martiri ancora così poco recepita. Sulla soglia di un mondo divenuto senza frontiere il cristianesimo si va ricollocando. Finito il secolo breve, il tempo tra il 1917 (rivoluzione d’ottobre) e il 1989 (caduta del muro di Berlino), la Chiesa deve scuotersi e trarre dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie. Questo nuovo inizio, auspicato tra l’altro dal papa nella Redemptoris missio (1990), non è altro che l’affermazione di una dimensione missionaria in tutta l’esperienza cristiana, una dimensione che presuppone un più profondo radicamento della fede e una spiritualità più matura dell’attuale.
DALL’AUTOREFERENZIALITÀ
ALL’UNIVERSALITÀ
Secondo il nostro autore il novecento è stato il secolo più missionario della storia cristiana, tanto da poter essere paragonato alla stagione del cristianesimo nascente. La Chiesa cattolica ha realizzato una presenza inedita su scala mondiale, passando da una realtà essenzialmente europea e americana a una dimensione universale: ci si è mossi sulla difficile frontiera dell’espansione europea e dello scontro fra civiltà occidentale e mondi africani e asiatici. «La missione ha creato un ponte, vissuto nella Chiesa, tra i popoli del sud e quelli del nord, che nemmeno le politiche di emarginazione del sud del mondo possono spezzare… questo ponte tra nord e sud è stato costruito da un gruppo ingente di uomini e di donne del novecento che hanno sentito il debito del Vangelo verso la gente del sud. È la storia della missione, che, con tutti i suoi limiti, è storia di gratuità ed espressione di un altro occidente».
Nel mondo secolarizzato le chiese poi si sono scoperte in missione anche nelle loro terre storiche (vedi in questo senso la memoria presentata al cardinale Suhard dagli abbé Daniel e Godin, nella Parigi occupata dai nazisti, sulla scristianizzazione della Francia e dalla quale nacque l’esperienza dei preti operai che volevano condividere la vita del grande proletariato urbano): un appello alla “nuova evangelizzazione” che non deve tradursi tanto in riorganizzazione della vita ecclesiale quanto in rinnovata autocoscienza del cristiano come discepolo ed evangelizzatore.
In questo senso bisogna allora che le comunità siano educate a pensare sugli orizzonti del mondo, senza ripiegarsi sugli orizzonti locali con una territorializzazione che rischia di diventare etnicizzazione. La chiesa locale non è una comunità provinciale: nella Chiesa dovrebbe vivere questa passione universale anche per quelli che sono lontani, per quelli che non si conoscono, per i mondi ostili o difficili. C’è dunque un localismo da cui il mondo ecclesiale deve uscire. C’è un’autoreferenzialità, che è una vera malattia, per cui si pensa troppo ai problemi interni e non si è consapevoli della ricchezza del Vangelo e della fede. E le vie per uscirne ci sono! Qui il prof. Riccardi parla forte e chiaro dalla sua esperienza prospettica: «Quello che non accetto è il continuo giudicare le vie altrui, come se nella casa del Padre non esistessero molte dimore. Il messianismo di gruppo e di istituzione rappresenta ed esprime una coscienza debole.
coraggio critico
e missione
La Chiesa di oggi vive un plesso di esperienze dalla vita parrocchiale, ai movimenti, alla vita religiosa…Il grande nodo spirituale del nostro tempo è proprio quel riflesso che ci chiude e ci ripiega su di noi, quell’amore per sé, quella philautia di chi vive in un mondo tanto grande. La philautia diviene come una patina protettiva e difensiva, per cui anche l’esperienza religiosa viene riassorbita in una dimensione di amore di sé, di ricerca di equilibrio e di benessere».
Solo con questo coraggio critico e autocritico, sembra dirci, si può affrontare il grande tema della missione, cioè della comunicazione del Vangelo nella globalizzazione. La missione è incontro fra persone, è storia di una comunità che si sente tutta missionaria ma anche vicenda di persone che scelgono di spendere la loro vita per il Vangelo. Sembrano invece prevalere autoreferenzialità e fondamentalismo, due modi con cui si sta tentando di reagire allo piazzamento dovuto alla globalizzazione. Qui ci può aiutare un prete ortodosso martirizzato nel 1990, Aleksandr Men’: egli sosteneva che non ci si può accontentare di quello che siamo stati, che molte parole di Cristo non sono ancora comprensibili. Anche la missione può evolversi e rivelarsi non al servizio di uno scontro di civiltà ma dell’unità e della pace tra le genti, tra le culture religiose e le religioni stesse. Ciò non significa che la Chiesa debba essere un’Onu religiosa o delle religioni. Nel suo Dna c’è il sogno universale, nella parola di Dio trae l’insegnamento per respingere la cultura del nemico. «Il Vangelo deve creare una visione del mondo come comunione dei popoli. Infatti una globalizzazione senz’anima, fatta solo di consumi, rischia di uccidere tante identità, di farne impazzire altre, di seminare odi, di creare culture della morte».
“Non abbiate paura!”. Questo grido iniziale del pontificato di Giovanni Paolo II vuole vincere la paura di una fede debole fino al martirio. Di fronte al secolo appena iniziato, ci dice il fondatore della comunità romana, dovremmo essere tutti meno spaventati della debolezza. La lezione del novecento, di un secolo “uscito da Dio”, non è quella di una fede che si è nascosta nel privato e nella coscienza solamente. Oggi si è cristiani per scelta, ma in pubblico: si può vivere da cristiani nei crocevia di un secolo pluralista, laico e secolare.
M.C.
1 RICCARDI A., Dio non ha paura. La forza del Vangelo in un mondo che cambia, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2003, pp. 230, € 14,50.