LA FORMAZIONE NELLO JUNIORATO

UN TEMPO MOLTO ESIGENTE

 

L’obiettivo globale consiste nel crescere e sperimentare maggiormente il radicalismo evangelico, posto al cuore della vita religiosa, che è seguire Cristo a tempo pieno e con tutto il cuore e giungere a condividere la sua vita  e la sua missione.

 

La formazione è indubbiamente un compito molto arduo e richiede grande pazienza. È un processo continuo, dinamico, progressivo, graduale, di integrazione. A essere coinvolta è la persona nella sua totalità. Per questa ragione deve essere intesa come un processo scandito in diversi momenti e tappe con un dinamismo di crescita che richiede continuità e pazienza.

Una di queste tappe è lo juniorato ed è su questo argomento che qui viene attirata l’attenzione. Ci si chiede: come si può orientare questa tappa della formazione? Una volta terminato il noviziato, si apre una nuova fase formativa: ma dove si destinano le juniores, e con quale criterio? Lo juniorato è un periodo per produrre o per continuare la formazione in un’altra maniera? Che cosa deve prevalere  nelle nuove destinazioni: il criterio di rispondere alle urgenti necessità della provincia o di considerare ciò che è maggiormente utile per la formazione dei nostri giovani?

 

LO SCOPO

DELLO JUNIORATO

 

Qual è lo scopo dello juniorato?  Che cosa si chiede a questa tappa della formazione?

Penso che l’obiettivo globale consista nel giungere a crescere e sperimentare maggiormente il radicalismo evangelico, posto al cuore della nostra vita religiosa, che è seguire Cristo a tempo pieno e con tutto il cuore, per condividere la sua vita  e la sua missione, vale a dire formare degli “uomini che hanno  votato la loro vita al nome del nostro Signore Gesù Cristo” (At 15,26). E tutto questo integrato e consolidato in una sintesi vitale: esperienza di Dio, vita in fraternità e formazione per la missione, secondo il carisma di un determinato istituto per giungere a fare un’opzione articolatrice, totalizzante e definitiva di tutta la vita e di tutto nella propria vita.

Il “principio di integrazione” di tutti gli elementi formativi è come la chiave di volta dell’intera formazione del religioso/a. Questa integrazione deve realizzarsi nel periodo dello juniorato in un clima di apprendimento comunitario, proprio di ciascun istituto, senza trascurare alcune attività apostoliche che, a volte, avranno un valore di esperienza formativa. L’obiettivo generale si concretizza poi in obiettivi specifici che lo precisano e sviluppano.

La centralità di Gesù come esperienza fondante

La crescita nello Spirito, che ha avuto il suo momento forte nel noviziato, non può arrestarsi durante la formazione, al contrario deve progredire e approfondirsi nella docilità allo stesso Spirito che ci parla al cuore e ci spinge a crescere nella grazia della nostra vocazione.

Attraverso la pratica spirituale deve realizzarsi una vera pedagogia della preghiera personale propria del “contemplativo in azione” – vale a dire scoprire Dio in tutto e tutto riferire al Signore – che trova un mezzo privilegiato nel ritmo quotidiano per poter giungere a mantenere e accrescere la familiarità con Dio in tutte le cose integrando i diversi aspetti della vita.

Non si tratta, come qualcuno ha detto, di una preghiera superficiale, “da passerotto” che becca un po’ qua e un po’ là, ma di una preghiera  “da bue” (p. Palmés) che rumina lentamente e assimila amicizia e conversione, scoperta/passione per Qualcuno e impegno per la sua causa, familiarità con il Signore e trasformazione della vita. Credo che la sfida consista nel giungere a formarsi una colonna vertebrale spirituale, senza confondere spiritualità con esercizi di pietà (recita delle ore, rosario, devozioni…). Potremmo essere persone che recitano tante preghiere senza essere persone che pregano.

Non si tratta di una preghiera da compiere ma di un’esigenza da vivere poiché nasce da un cuore amico, bisognoso e riconoscente. Ci saranno religiosi/e dove ci saranno uomini e donne appassionati di Gesù e del suo progetto che si sentono chiamati a seguirlo nel suo stile di vita. Senza questa esperienza teologale, senza questa relazione personale, senza questa seduzione non compiamo neanche un solo passo nella vita religiosa.

Che cos’è caratteristico della preghiera durante lo juniorato? Che sia più incarnata nella realtà socio-economica, culturale, politica ed ecclesiale in cui si è posti a vivere. Dio si è rivelato a noi nel suo Figlio incarnato e noi ci sentiamo spinti a seguirlo nel suo cammino di incarnazione che è vicinanza, solidarietà e identificazione. Deve essere vissuta l’esperienza di Dio come Signore della storia, come Qualcuno che è vicino e opera facendo cose buone, che promette e apre prospettive di futuro. Né spiritualismo disincarnato né pragmatismo secolarista.

Direi che la preghiera nello juniorato deve essere più semplice, più spoglia, ma più profonda e intensa. C’è meno tempo per pregare che nel noviziato. Se manca, ci vuole più immaginazione, flessibilità e creatività: bisogna che sia una preghiera che nasca maggiormente dalla vita e si traduca in vita come vediamo nella Bibbia. In altre parole, la nostra contemplazione deve essere più attiva e la nostra azione più contemplativa.

Ha un grande valore formativo quel tempo intenso e quotidiano di discernimento che siamo soliti chiamare esame di coscienza (presa di coscienza). Inoltre, un mezzo privilegiato e necessario per crescere in questa ricerca costante della volontà di Dio nel concreto della storia personale di ciascuno e nell’attuale momento storico è il discernimento continuo.

L’esperienza insegna che per la crescita nell’esperienza spirituale, uno dei mezzi più importanti in questa fase della formazione è l’accompagnamento personale. Questo comporta un incontro frequente con una persona esperta e vicina (formatore, accompagnatore spirituale, superiore…) che aiuti lo/a junior a oggettivare, discernere e optare per ciò che il Signore le sta chiedendo nel suo cammino. E tutto perché si realizzi più pienamente. Questo accompagnamento non può ridursi a una semplice confidenza. Bisogna passare dalla confidenza al dialogo spirituale comprensivo ma capace di mettere in questione, dall’ambiguità alla trasparenza, dal lasciarsi portare a giungere a impegnare la propria vita, chiamando le cose con il loro nome. Tutto ciò in un ambiente di fiducia e di verità. In questo accompagnamento non si tratta di proteggere ma di aiutare a scegliere nuovamente, non nell’euforia del noviziato, ma nella lucidità che scaturisce dalla crisi in cui spesso vive lo/a junior.

Scoprire e amare il “gruppo di appartenenza”

I due anni di noviziato non bastano per dare una formazione solida alla propria spiritualità. Ovviamente è necessario che in antecedenza gli istituti chiariscano e nel modo migliore possibile il loro carisma e la loro missione specifica.

Gli juniores devono crescere nell’interiorizzazione dei valori, dei criteri, degli orientamenti e dello stile di vita proprio (il “nostro modo di procedere”) del loro istituto. Bisogna aiutarli a crescere nell’appartenenza e nell’integrazione della loro congregazione concreta attraverso la comunità in cui vivono, quale mediazione dell’inserimento nel corpo totale del loro istituto.

Il mezzo principale per l’integrazione nell’istituto è la vita di comunità, intesa non come una semplice condivisione dello stesso tetto, della stessa mensa e del medesimo regolamento, ma  come una condivisione della fede, della ragion d’essere e di operare in quanto istituto, di ciò che si pensa, si sente, si progetta. In essa si dovrebbero superare i due possibili pericoli che sogliono incontrarsi in noviziato nel campo affettivo: l’esagerato ascolto dei sentimenti, ma anche il loro occultamento, ossia il mondo affettivo sotterraneo. Bisogna intendere la comunità come luogo privilegiato in cui si deve convivere, condividere e partecipare la vita di ogni giorno e la comune vocazione, in modo che si costruisca giorno per giorno con chiarezza e gioia il proprio “gruppo di appartenenza” in contrapposizione complementare ad altri “gruppi di riferimento”.

La comunità deve essere un autentico sostegno e uno stimolo umano e fraterno in cui si realizzi la crescita personale e la maturazione affettiva in un sincero clima di amicizia. Deve essere anche il luogo in cui si gestiscono i conflitti, dell’apertura dialogica con il mondo, della scoperta dell’unità nella diversità. Ciò esige che la comunità divenga luogo di apprendimento e sia assunta come un compito continuo, dove ci si senta responsabili della comunità concreta in cui si è posti a vivere, e luogo di crescita personale comunitaria, che si sviluppi la capacità di mettere in comune i problemi, le aspirazioni e i progetti; dove si impari a cercare insieme la soluzione dei problemi e delle inquietudini, e l’Eucaristia sia il centro e il fondamento della comunità di coloro che sono chiamati a essere “amici del Signore” per costruire il Regno.

Lo juniorato è un tempo prolungato in cui dovrebbero irrobustirsi le amicizie profonde e durevoli. Non dimentichiamo che una delle caratteristiche della nostra gioventù è l’ipertrofia dell’affettivo, dello psicologico; tutto si sente affettivamente, si giudica affettivamente. Un’amicizia sana  è sempre liberatrice ed è capace di articolare armoniosamente la persona senza riduzioni che rimpiccioliscono e senza indebite dipendenze, ma in una necessaria comunione.

L’amicizia esige tempo ed energie e nello juniorato ci sono le due condizioni. È il tempo privilegiato per vivere questa esperienza per vari anni con compagni/e della medesima età e per aprirsi anche a quanti appartengono ad altre generazioni. Questa sana vita comunitaria produce una soddisfazione affettiva che aiuta grandemente la stabilità vocazionale e la realizzazione personale. La comunità deve essere un luogo di pace, di sostegno, di stimolo, di perdono e di gratuità in cui si respira gioia, dove si ha voglia di tornare perché è luogo di gratuità, di riposo e di festa. Il lavoro non deve farci ammattire né essere fonte di squilibri, ma la missione deve essere vissuta con creatività e coraggio, con serietà e pace.

Le riunioni comunitarie  serviranno per creare un ambiente di rapporti interpersonali e per approfondire la vita fraterna e la comunione di fede. I momenti di riposo condivisi e i ritiri comunitari sono anch’essi dei mezzi di grande valore per l’approfondimento della vita fraterna. Lo/a junior deve conoscere la propria congregazione, con le sue luci e le sue ombre, in una traduzione incarnata in qualche modo nella comunità locale dove vive. Gli juniores non dovrebbero essere inseriti troppo presto in una convivenza difficile, ma bisognerebbe collocarli in una comunità dove si possa acquistare una conoscenza affettiva che renda loro amabile l’istituto.

È anche assolutamente indispensabile che sviluppino la capacità di costruire comunità attraverso l’ascolto e il dialogo, una franca comunicazione, l’accoglienza e stima dell’altro in quanto altro, del diverso, l’adesione cordiale a persone concrete, la comprensione dei limiti degli altri, la semplicità e fiducia per condividere e crescere, la corresponsabilità nei compiti comuni, l’amicizia, la ricerca comune nella preghiera e nel discernimento.

Progressiva partecipazione alla missione

La maturazione dello/a junior richiede un impegno apostolico, una partecipazione progressiva alle esigenze ecclesiali e sociali dell’istituto, secondo le linee di forza del carisma del proprio istituto, tenendo sempre presenti le attitudini e le aspirazioni personali. Il contatto con la realtà, la vicinanza all’esperienza sanguinante e all’ingiustizia disumana di tanti esclusi ed emarginati devono essere quelli di chi si sente “colpito” e desidera collaborare dal di dentro alla costruzione di un mondo più giusto e più umano, secondo il messaggio del Vangelo. In questo periodo si è soliti intensificare maggiormente la dimensione apostolica.

Nell’apostolato deve tradursi ed esplicitarsi il desiderio di evangelizzazione e di collaborazione all’estensione del Regno. L’apostolato deve costituire una fonte di motivazione e di confronto con lo studio e deve alimentare la preghiera personale. Deve sviluppare la capacità di interessarsi alle persone concrete e di costruire amicizie che aiutino a maturare affettivamente. L’apostolato deve aiutare a evitare una spersonalizzazione e intellettualizzazione della vita attraverso lo studio. Deve cooperare a risvegliare le qualità apostoliche e a conoscere diversi campi di apostolato in vista di una futura specializzazione intellettuale o pastorale.

Non è opportuno che le prime esperienze siano fallimentari o traumatizzanti perché si corre il rischio di creare dei complessi e di rendere incapaci di affrontare il futuro. Perciò è bene inviarli in un apostolato alquanto gratificante, senza un eccesso di attività affinché non si sentano in angustia. Non conviene destinarli a un’attività priva di sfide o di semplice esecuzione di compiti apostolici, senza responsabilità personale.

D’altra parte sono persuaso che in questa ampia stagione dello juniorato, sarebbe opportuno che i nostri giovani si prendessero dei tempi sufficientemente prolungati per stare in mezzo ai poveri per conoscere il loro mondo. Ci sono delle conoscenze che nessun libro è in grado di insegnare, ciò che fa invece la convivenza. Non è la stessa cosa guardare il mondo dal balcone di un palazzo anziché da una finestrella di un abituro. Questo contatto diretto e concreto con i poveri cambia normalmente i nostri occhi e anche il nostro cuore. Se questo non avviene, sarà impossibile impegnarsi nelle loro cause e lottare per la promozione umana.

L’impegno apostolico, ben dosato, non deve mai mancare. È il modo di motivare, affrontare e personalizzare gli stessi studi.

Questa missione o invio devono essere considerati molto più come un’opportunità di formazione che come un’esigenza di riempire un “buco” nell’apostolato. I giovani si trovano ancora in un tempo di formazione. E queste esperienze apostoliche valgono molto di più per le esigenze della formazione che per le prestazioni che potrebbero offrire.

 

FORMAZIONE SERIA

E RESPONSABILE

 

Formazione teologico-spirituale

Per quanto riguarda il programma di studio è necessario approfondire ciò che si è già iniziato al noviziato: teologia biblica, dogmatica, spirituale e pastorale e, soprattutto, l’approfondimento della vita consacrata, oggi e qui, e del carisma dell’istituto. Non è sufficiente una formazione teologico-spirituale, fatta in fretta e attraverso corsi slegati tra loro. Certamente la melodia è di Dio ma gli strumenti siamo noi. E non è la stessa cosa suonare la melodia con un  flauto d’argento o con una canna di bambù.

Una formazione povera impoverisce la nostra vita e la nostra missione e non darà né solidità né profondità al modo di vivere la propria vocazione. Dobbiamo essere più esigenti in questa formazione teologico-spirituale. Alcuni si spaventano di fronte ad atteggiamenti che sono profondamente evangelici. Ma il vino nuovo non può essere versato in otri vecchi.

Come ho appena detto, i nostri giovani devono assumere già la loro parte di responsabilità nella missione della Chiesa e del proprio istituto, sia di presenza, di testimonianza profetica e un determinato servizio, in risposta alla chiamata della Chiesa e del mondo, soprattutto nel contesto della chiesa locale. Questo compito richiede una teologia solida della Chiesa e della missione. Non possiamo accontentarci di alcune semplici nozioni di teologia. Inoltre si richiede una informazione sufficiente circa i modi di pensare e di agire dell’uomo d’oggi. Non posso offrire una buona notizia in un linguaggio che nessuno capisce. Devo tradurla in categorie, simboli e parole che l’uomo d’oggi possa captare e comprendere (questa è essenzialmente l’inculturazione). Altrimenti sarebbe come predicare nel deserto. Questo compito richiede: competenza, coraggio e audacia, veracità e lucidità, cose necessarie per qualsiasi apostolo di oggi.

Formazione professionale

Gli juniores devono prepararsi adeguatamente anche nel campo culturale e professionale. Questo senza assolutizzare la dimensione intellettuale e senza vivere l’angustia del lavoro. Il cristiano e il religioso non sono fatti per il culto del lavoro ma per il culto della vita. Perciò nel contesto del duro lavoro intellettuale devono esserci spazi di relax, di riposo e di distrazione. Inoltre ognuno valorizzi i talenti che Dio gli ha dato. Non rendiamo la vita tanto disumana da renderla insopportabile.

Questo non pregiudica la serietà con cui dobbiamo formare i nostri giovani dal punto di vista professionale. Il nuovo codice di diritto canonico afferma: «La formazione deve essere sistematica, adattata alla recettività dei membri, spirituale e apostolica, dottrinale e insieme pratica e portare anche al conseguimento dei titoli convenienti, sia ecclesiastici sia civili» (660.1). Ma non si tratta di ottenere solo un titolo accademico – in molti casi possibile e desiderabile – ma di far in modo che le conoscenze siano viste da un punto di vista sapienziale ed evangelico. Lo/a junior non è un più alunno, ma una persona con un genere di vita a partire dal quale guarda, riflette, educa, ecc. In questo modo si supera il dualismo tra la vita spirituale e intellettuale.

Ecco alcuni suggerimenti:

– la formazione dello/a junior è strettamente in relazione con il carisma congregazionale; le necessità sono diverse secondo il loro servizio di Chiesa;

– il noviziato garantisce l’integrazione nella fede di tutte le dimensioni della vita; lo juniorato deve far fronte sia al lavoro apostolico sia quello degli studi in base all’identità religiosa. Di qui il difficile apprendimento di riuscire a vivere la tensione preghiera-studio-vita comunitaria-lavoro apostolico; la prima missione consiste nell’essere religioso di questa congregazione;

– in alcune congregazioni la formazione spirituale, teologica e professionale è molto carente, dopo il noviziato, soprattutto nel mondo femminile. Manca, a volte, una solida impalcatura alla loro vita di fede. In alcune, al contrario, si attribuisce tanta importanza allo studio da ridurre lo juniorato quasi esclusivamente a esso, senza vegliare affinché parallelamente avvenga una crescita nella fede e nella maturazione della vocazione.

 

FIGURA

DEL FORMATORE

 

In quest’ultima parte della mia riflessione vorrei parlare di alcuni sostegni allo juniorato e proposte che si stanno sperimentando.

Anzitutto desidero parlare del formatore in quanto servo dell’azione dello Spirito Santo. Durante un recente incontro di formatori, alcuni di essi, mettendo in comune i loro successi e insuccessi, affermarono con grande onestà di trovare in se stessi un notevole deficit nel rispondere adeguatamente al compito difficile e paziente, ma illusorio che le rispettive congregazioni avevano loro affidato. C’è ancora dell’improvvisazione nella scelta e preparazione dei formatori, a volte per le esigenze attuali della formazione, a volte per la mancanza di conoscenza dei soggetti designati e di capacità  per un buon accompagnamento che sia vicino, personalizzato e orientatore. E questo sia nel campo della spiritualità sia in quello della psicologia.

«Abbiamo costatato, così si diceva in una riflessione della CLAR, l’esistenza di formatori poco idonei, senza le attitudini che si richiedono in ordine all’accoglienza e al dialogo spirituale, con una mentalità confusa di fronte alle opzioni attuali della Chiesa, con scarsa conoscenza delle grandi sfide davanti a cui si trova oggi la vita religiosa e non molto esperti nella realtà dei nostri popoli e del modo proprio di essere dei giovani del paese».

Per questa ragione, da alcuni anni. sono stati creati dei centri di formazione in vari paesi. Si può dire che hanno costituito, in generale, un’istanza formatrice di primo ordine per le persone destinate a questa missione.

Ma qual è il profilo del formatore oggi?

Senza pretendere di essere esauriente, cercherò di indicare alcuni tratti che lo configurano nelle grandi linee.

Il formatore deve essere un amico fedele, docile allo Spirito, uno che accompagna umilmente appoggiando, stimolando, aiutando a chiarire situazioni a volte ambigue e sconcertanti e a fare delle opzioni dopo un serio discernimento, uno che sia capace di creare spazi di libertà, essendo egli stesso una persona libera e “non complicata” che non si irretisce nelle piccinerie né si perde nelle minuzie. Se la formazione è una partecipazione all’azione dello Spirito nel cuore del giovane, è chiaro, come ricorda Giovanni Paolo II, che “i formatori e le formatrici debbono essere, perciò, persone esperte nel cammino della ricerca di Dio, per essere in grado di accompagnare anche altri in questo cammino” (VC 66). Non si tratta di far percorre ai formandi lo stesso cammino del formatore ma di accompagnarli nel cammino che lo Spirito suggerisce a ciascuno.

Egli deve vivere con entusiasmo e con gioia la sua vocazione e trasmetterla. E ciò si avverte sia quando parla sia quando tace. Deve amare il proprio istituto e insegnare ad amarlo.

Deve essere una persona matura, integrata, serena, solidale. In questo modo aiuterà a maturare e a crescere. Non si insegna ciò che si sa o che si dice, ma quello che si è.

I formatori dovrebbero avere una mentalità aperta al cambiamento, dei desideri di ricerca e di superamento, senso critico e spirito creativo, capacità di vivere in comunità creando amicizie, e molta sensibilità sociale in un mondo così pieno di ingiustizie e di oppressioni nei confronti dei “piccoli”, dei poveri e disprezzati. Il formatore deve essere una persona che con la vita e i fatti aiuti a riconoscerli. Deve essere un seminatore di inquietudini, un suscitatore di speranze.

L’opera di formazione è difficile quando ai valori più alti proposti ai giovani  non corrisponde la testimonianza di una vita autentica, fraterna e di comunione. I giovani devono vedere che il “programma delle beatitudini” è diventato criterio quotidiano di vita nel loro formatore, che il radicalismo delle sue opzioni evangeliche genera una grande libertà interiore e diventa dialogo con ogni uomo, servizio concreto secondo il carisma proprio, crea pace e contagia la gioia di una persona realizzata poiché è sicuro della propria identità e la vive con cuore semplice, povero e disponibile. Forse la cosa più difficile sarà di verificare se è in grado di essere un maestro/a (di juniores in questo caso) che forma e non solo informa, che conduce senza fare violenza, ma anche senza lasciasi condurre; che fin dall’inizio impara e si arricchisce dai suoi juniores, ma il cui servizio principale è di arricchirli comunicando loro (contagiandoli) l’entusiasmo e la gioia con cui vive la propria vocazione. E questo coniugato con la dottrina, la storia, l’esperienza, la vita, sapendo equilibrare e dosare i vari elementi nella quantità e intensità convenienti, secondo la crescita umana e spirituale di ciascun formando o formanda.

Il formatore deve amare e capire i giovani e dimostrarlo loro, unendo insieme la capacità di comprendere e di esigere: comprendere senza esigere è permissivismo deformante; esigere senza comprendere è severità antievangelica. È importante che i giovani lo sentano vicino, amichevole, capace di conquistare la fiducia di tutti con la sua accoglienza, comprensione, con il suo appoggio e la sua lealtà… e inviti ad aprirsi (la formazione fondamentale viene data nell’intimo delle persone).

A un buon formatore più che le strutture sempre necessarie, anche quelle indispensabili (non dobbiamo essere schiavi delle strutture, ma padroni), interessa che la persona si strutturi dal di dentro. La cosa più importante non è formare abitudini, piene di disciplina, ma vuote di impegno. Non sono i comportamenti esterni quelli che contano ma gli atteggiamenti profondi, i criteri evangelici che articolano e orientano in maniera definitiva la persona.

Questi formatori vanno preparati con cura e sostenuti fraternamente. Bisogna liberarli da altri impegni affinché possano compiere le loro funzioni con efficacia e in maniera stabile (cf can. 651,3). La provincia deve stimolarli e garantire loro il tempo per realizzare la loro missione non affidando ad essi altri compiti che li assorbano o li distraggano.

 

UNA VIGOROSA

COMUNITÀ FORMATRICE

 

La comunità formatrice è il centro di sintesi vitale per i soggetti in formazione, in rapporto alla vocazione specifica a cui sono stati chiamati. Si tratta di un compito che non si può delegare né all’università né ad altri. È qui, nella vita di tutti i giorni, camminando insieme, formatori e giovani, nella sequela incondizionata di Cristo, come fratelli, dove matura questa esperienza fondante che trasforma i giovani in “uomini nuovi”.

Ma quando una comunità è formatrice? Mi riferisco alla comunità dello juniorato: lo è nella misura in cui aiuta ciascun membro a crescere nella fedeltà al Signore, secondo il carisma dell’istituto e nella linea dei suoi doni più personali, per il servizio della Chiesa. Per questo la comunità deve:

– chiarire i suoi obiettivi e lavorare per una convergenza attiva per il loro raggiungimento;

– creare un clima favorevole allo sviluppo della libertà e della partecipazione responsabile in cui ognuno possa esprimersi come è, condividere ciò che sente e ciò che progetta; deve promuovere il dialogo, il discernimento e la corresponsabilità di tutti nel compito comune. Dovrà avere alcune strutture minime necessarie che favoriscano la libertà e la creatività nel processo comunitario. Qualsiasi gruppo sociale ha bisogno di alcuni sostegni strutturali minimi. Questo però sì: le norme e i criteri di vita comunitaria devono essere assunti personalmente e interiormente, non “subiti”. Ovviamente l’accento deve essere posto sulle motivazioni profonde. Senza di esse niente cambia veramente e in maniera durevole. Non bisogna disprezzare certi sostegni strutturali minimi che sono richiesti. In effetti c’è una spontaneità che genera mediocrità e non può essere dello Spirito. Bisogna creare un ambiente pedagogico, basato su una concezione seria della vita, che attribuisce importanza alla disciplina interiormente assunta e personalizzata attraverso l’uso responsabile della libertà. Se cadono certe strutture del noviziato non è perché i nostri juniores siano più anarchici ma perché siano più liberi e maturi;

– alimentare relazioni calorose e mature tra fratelli, piene di semplicità e fiducia, impregnate di sensibilità verso i bisogni e i tempi dell’altro e radicate nella fede e nella carità. Questa comunità formatrice rispetta, come Gesù, l’ora di ciascuno e la prepara:

– promuovere con cura i momenti di silenzio, di ascolto, di preghiera e quelli di incontro per condividere le esperienze di fede, di vita, di vocazione e missione; questi momenti forti di preghiera saranno la migliore garanzia per poter contemplare criticamente la realtà secondo la prospettiva di Dio e impegnarsi con  lui e come lui per trasformarla;

– vivere uno stile di vita austero e semplice che manifesti il nostro impegno nella sequela di Cristo e favorisca la condivisione solidale con coloro hanno meno di noi;

– sviluppare una capacità di analisi critica della realtà in atteggiamento di apertura, di ascolto delle sfide che stimolino la loro capacità evangelizzatrice, ponendosi di fronte alla realtà con una coscienza critica;

– aiutare a consolidare e a integrare progressivamente l’esperienza di Dio, la vita di fraternità, il servizio apostolico e la formazione teologico pastorale;

–accettare l’altro come è, al di là dei suoi limiti e deficienze, impegnandosi tutti in maniera libera e responsabile nel progetto comunitario;

– garantire un camminare insieme in un progetto di liberazione che suppone crisi, conflitti, successi e insuccessi.

Una comunità è formatrice quando ognuno dei membri, consapevole della propria responsabilità all’interno della comunità, non si accontenta di crescere personalmente ma stimola gli altri a crescere.

I nostri giovani hanno bisogno di comunità formatrici in cui si respiri la freschezza evangelica, si viva con semplicità e con gioia il radicalismo della sequela di Cristo, si partecipi in una fedeltà creativa al carisma del fondatore, alla vita dell’istituto e della Chiesa, in cui si sviluppi un’autentica passione apostolica. Hanno bisogno di uomini e donne aperti agli appelli incessanti che Dio ci rivolge a partire dalla storia e con la sensibilità dei nostri fondatori per percepire le “disumanizzazioni” di cui soffrono i nostri fratelli e la lucidità e il coraggio per dare risposte evangeliche. In questo modo sono capaci di discernere e celebrare la presenza e l’azione di Dio nella storia personale e comunitaria, nelle angustie e speranze di un popolo che soffre, ama, lotta e spera.

Perciò la condizione più importante perché cresca e si rafforzi l’amore a Cristo, alla Chiesa, “ai piccoli” consiste nel vivere assieme a fratelli gioiosi della loro vocazione, che amino la vita e sappiano guardare al futuro con serenità e lottino con speranza per crearlo.

 

MA IN QUALI

COMUNITÀ APOSTOLICHE?

 

Ma quali comunità apostoliche possono accogliere i nostri giovani? Gli juniores sono soliti vivere lunghi tempi in comunità apostoliche. Non di rado  i superiori si chiedono se possono inviare i giovani in certe comunità e opere in cui c’è da temere che la loro esperienza non sia appoggiata e stimolata e possa anche soffrirne un danno.

Sarebbe deplorevole se la formazione seguisse un cammino e la vita religiosa adulta delle comunità apostoliche ne seguisse un altro. Non ho mai potuto dimenticare l’osservazione dolorosa e senza speranza di una junior nel descrivere la sua esperienza in una comunità apostolica: «Non ha senso optare per una vita del genere… meglio andarsene piuttosto che vivere in questa maniera».

Bisogna sottolineare con sempre maggior forza e convinzione la responsabilità di tutta la provincia per quanto riguarda la formazione dei nostri giovani. Che si voglia o no, tutti formiamo o deformiamo con la nostra vita impegnata o comoda, con il nostro atteggiamento semplice o pretenzioso, con la nostra umile solidarietà o la nostra fredda indifferenza, con i nostri criteri finemente evangelici o camuffati o apertamente mondani.

Alle fraternità che accolgono i nostri giovani si chiede che sentano la loro responsabilità formatrice, vale a dire che si sforzino di vivere generosamente  quanto ho appena detto circa la comunità formatrice e siano disposte a:

– camminare insieme nel discernimento e in fraternità, accettando le mutue differenze, molte volte fonte di arricchimento e non di rotture e divisioni;

– essere corresponsabili nella vita fraterna e nella missione. «Che non ci trattino, diceva un giovane, né come bambini cresciuti, né come professi maturi. Non siamo né l’uno né l’altro». Le persone sottomesse, senza criterio personale, non crescono; bisogna accettare il rischio della libertà e quello di assumere gradualmente le responsabilità;

– creare un ambiente dove sia facilitata la crescita dell’esperienza di Dio, la trasparenza e il dialogo, il confronto fraterno e il discernimento comunitario.

Una comunità troppo autoritaria fa sì che i giovani non vivano nella trasparenza. Una comunità rilassata è sentita come lontana. Non si tratta di metterli nel sicuro di una comunità “ideale”. La verità è che non esiste alcuna comunità ideale né questa sarebbe la più formatrice. Si richiede una comunità “normale” che permetta loro di scoprire la realtà della vita, ma che sia capace di incarnare, anche se poveramente, i grandi valori della vita religiosa.

La verità è che le nostre comunità spesso non sono preparate ad accogliere i giovani. Gli juniores risentono di ogni genere di problemi che scoprono nei più grandi: non riescono a capire la mancanza di comunicazione profonda, la poca freschezza evangelica con cui a volte si vive, la mancanza di serietà apostolica, ecc.

Ci sono delle giovani spezzate dall’autoritarismo di alcune superiore e altre che sono disorientate perché è lasciato loro di fare tutto quello che vogliono. Ci sono giovani valide che vengono tanto valorizzate fino a recare loro danno e altre che soffrono di una certa emarginazione che le deprime.

Benché sia doloroso, bisogna essere chiari e sinceri. Non tutte le comunità apostoliche fanno crescere e maturare i nostri giovani. E bisognerebbe destinarli solo a quelle che sono in grado di accoglierli.

 

ACCOMPAGNAMENTO

SPIRITUALE

 

Nel corso di questa riflessione ho insistito molto sulla necessità di un buon accompagnamento spirituale. Lo stesso Giovanni Paolo II ha affermato senza esitazioni che «strumento precipuo di formazione è il colloquio personale, da tenersi con regolarità e una certa frequenza quale forma di insostituibile e collaudata efficacia» (VC 66).

Se tutto questo vale per ogni tappa della formazione – e uno non finisce mai di formarsi – ciò vale molto di più per lo junionrato in cui a volte il giovane si trova molto solo e perfino disorientato di fronte a tante sorprese e novità che, nel miglior dei casi, mai avrebbe immaginato al noviziato e che non può eludere ma devono essere affrontate. Come agire senza cadere in una deriva esistenziale che gli faccia smarrire la strada intrapresa o senza che si adagi tranquillamente in una comodità che è sorella gemella della mediocrità? In ultima analisi, come far fronte da soli a sfide di tale peso da destabilizzare persino persone con un maggior numero di anni di percorso?

Che cosa ci dicono le esperienze? ci sono delle proposte? È chiaro che non abbiamo delle formule magiche, già codificate, applicabili a tutti i casi, che ci garantiscano la riuscita e il successo. Non esiste alcuna proposta di juniorato valida e indiscutibile. Molto dipende da certi fattori come il numero delle guide o delle juniores, dalla situazione in cui si trovano, dalle possibilità concrete della provincia, ecc. Non pare sensato avere una casa di juniorato per uno o due membri.

Le esperienze effettuate in questi ultimi anni sono state diverse. Occorre valutarle con obiettività e sincerità. Quali hanno dato i migliori risultati?  La cosa più raccomandabile sembra essere che, in generale, gli/le juniores vivano insieme per alcuni anni e non troppo tempo dopo il noviziato affinché, senza ripetere il cammino percorso, si progredisca in esso con una continuità dinamica e aperta alle nuove sfide che incontreranno sulla loro strada.

Ciò non significa che si faccia questa esperienza – inserirsi nella casa dello juniorato – immediatamente dopo il noviziato. Alcune congregazioni dopo i primi voti inviano le loro giovani in una esperienza apostolica che è spesso molto arricchente se è bene accompagnata. Attraverso di essa, il/la giovane si aprono a un apostolato più intenso in una comunità in missione. Si sentono così interpellati, il loro cuore si riempie di interrogativi nel sentire il grido del loro popolo, le inquietudini e le speranze e scoprono di non avere risposte a molte domande, ecc. Assumere responsabilità aiuta a crescere e a maturare. E questa esperienza apostolica si fa per uno o due anni al massimo. E quindi si torna allo juniorato istituzionale per continuare gli studi ma in un clima che aiuti a integrare e a condividere con i loro pari quanto si sta vivendo.

In altre congregazioni, dopo il noviziato, seguono tre oppure quattro anni nello juniorato, mentre si continuano gli studi in un clima che non è quello del noviziato, ma molto più libero e responsabile, più aperto e flessibile, tuttavia senza interferenze che possano fuorviare, e quindi vengono inviati in comunità di professi per lavorare apostolicamente o per continuare la loro formazione in qualche istituto professionale o all’università. Ma, ripeto, devono essere comunità formatrici.

Questa sembra la proposta migliore tra i vari esempi che ho portato. In ogni caso bisogna stare molto attenti e valutare i risultati.

C’è un’altra proposta che purtroppo si ripete con una certa frequenza e consiste nell’inviare, appena terminato il noviziato, il giovane o la giovane in una comunità apostolica. «Ci sono tanti vuoti da riempire ed essi hanno tanta vitalità; così alleggeriscono i pesi dei più anziani». E ciò suole prolungarsi per vari anni. Ma qual è il criterio orientatore da privilegiare: quello della produzione oppure che continuino a formarsi attraverso l’esperienza apostolica? Il fatto è che quando interrompono il loro lavoro apostolico e si uniscono per preparasi ai voti perpetui hanno già perso molte cose che è poi difficile recuperare. Non ci sembra opportuno raccomandare questa proposta poiché i risultati non la convalidano.

Non mancano anche coloro che disperdono i giovani e le giovani in comunità vicine e nominano un maestro che rimane in contatto assiduo con essi, li riunisce con frequenza, tengono dei fini settimane di ritiro e di riflessione insieme, ecc. È una proposta che senza essere cattiva, non è però la migliore.

 

Siamo così giunti al termine di questa riflessioni. Mi auguro che esse aiutino a continuare a riflettere per trovare i cammini di formazione che aiutino a plasmare religiosi e religiose capaci di affrontare con lucidità, creatività e coraggio le sfide che oggi si presentano alla vita religiosa.

 

José M. Guerrero sj

 

1 Questo articolo riprende testualmente, anche se in forma sintetica nella prima parte, e qualche altro lieve ritocco,  una trattazione di p. José M. Guerrero sj, teologo, già noto ai nostri lettori, docente e membro dell’équipe teologica della rivista Testimonio dei religiosi/e del Cile.

2 Quando si parla qui di juniorato o di junior/juniores si intendono sia il ramo maschile sia quello femminile, anzi in particolare quest’ultimo.