In preparazione all’assemblea Cism
CHIESA LOCALEE VITA CONSACRATA
I punti nodali della prossima assemblea generale Cism: universalità e particolarità della Chiesa locale, la riscoperta dei carismi, la conoscenza del proprio ambiente, disagio emergente tra VC e Chiesa locale, debole riconoscimento della VCnegli organismi ecclesiali.
“Chiesa locale, vita consacrata e territorio: un dialogo aperto”; è questo il tema della prossima assemblea generale della Cism che si svolgerà, dal 3 all’8 novembre, a Valdragone.
Il perché più immediato e contingente di questa scelta è legato, da una parte, al 25° del documento postconciliare Mutuae relationes e, dall’altra, alla particolare attenzione che proprio in questo periodo la Cei sta riservando alla parrocchia, a quella realtà ecclesiale, cioè, in cui si concretizzano, ma forse ancora spesso si ignorano, i rapporti tra chiesa locale, territorio e vita consacrata; a questo riguardo sono già apparse delle riflessioni su alcuni aspetti al centro del dibattito assembleare.1
Il presidente della Cism, don Mario Aldegani, sollecitando i superiori provinciali a non disertare l’assembla, ricorda che il tema scelto «tocca situazioni concrete e problemi con i quali, nel nostro servizio, abbiamo a che fare ogni giorno», in un periodo in cui siamo tutti chiamati «a risvegliare la speranza, a operare scelte coraggiose di riorganizzazione e, soprattutto, di rivitalizzazione».2 Fra le novità più significative nella impostazione dei lavori, don Aldegani parla di uno strumento di lavoro più breve e sintetico, di gruppi di lavoro specifici sulle relazioni principali, di spazio previsto per due testimonianze, quella di un vescovo e quella di un superiore maggiore, di una “relazione finale” che vorrebbe andare ben oltre le solite e schematiche conclusioni dell’assemblea.
“STARE DENTRO”
LA VITA QUOTIDIANA
Parlare di chiesa locale, territorio e vita consacrata, scrive il cappuccino fra Paolo Martinelli, significa affrontare alcuni “nodi teologici” che vedono impegnati nel dibattito la riflessione magisteriale, teologica e pastorale insieme; più propriamente, si tratta non solo di chiarire i rapporti della vita consacrata con gli elementi istituzionali della chiesa locale, ma anche di riflettere sulla relazione tra universalità e particolarità della Chiesa.
Negli ultimi decenni siamo stati “costretti”, dice Martinelli, a riscoprire i carismi per una lunga serie di motivi: la riflessione sulla identità della vita consacrata, la riscoperta del carisma di fondazione, la presenza sempre più massiccia dei nuovi movimenti ecclesiali e delle nuove comunità. Se nella ecclesiologia di comunione oggi sempre ricorrente, ogni dono nella Chiesa ha bisogno degli altri per poter portare frutto, questa impostazione non può non essere allora «gravida di conseguenze ecclesiali»; mentre da una parte «la gerarchia non deve semplicemente “utilizzare” la vita consacrata, ma raccogliere, correggere e valorizzare quanto lo Spirito ha fatto sorgere nella sua porzione di popolo di Dio, anche se magari “inaspettato” o “scomodo”», dall’altra la vita consacrata non può non riconoscere «la realtà istituzionale della Chiesa in cui è inserita», a cominciare dal vescovo, fino al punto da «sentire la diocesi e le indicazioni dei pastori come inerenti alla propria vocazione».
Nello stesso tempo però va anche ricordato che il carisma della vita consacrata, come ogni carisma, non è “prodotto” dalla gerarchia, ma dono dello Spirito, per cui, pur essendo inserita in una realtà locale, la vita consacrata «non è da essa definita». Se il comune punto di partenza oggi è quello della vocazione di tutto il popolo di Dio alla santità e alla missione apostolica evangelizzatrice, allora anche la vita consacrata non può non mettersi al cuore della Chiesa stessa; e questo lo deve fare con la sua specifica peculiarità, vale a dire, stimolando, nella chiesa locale, «l’assoluta necessità dell’unione con Dio»; insieme, dovrebbe cercare di essere nella diocesi «fermento di creatività nell’ambito apostolico», attraverso la individuazione di «nuove e più significative forme di presenza cristiana nel territorio»; questo comporta anche, da parte dei consacrati, la capacità di saper intercettare le domande e i bisogni del popolo di Dio, di quelle persone, cioè, che lavorano vivono, educano i figli e cercano di comunicare il vangelo nelle circostanze della vita quotidiana; proprio qui allora, conclude Martinelli, entra in campo la «significatività delle nostre presenze» in tutti quegli ambiti del territorio, come conventi, scuole, quartiere, educazione, scuole, parrocchie, con i quali interagiscono, di fatto, tutte le strutture e le realtà di vita consacrata.
Anche per p. Luigi Gaetani è importante che ogni comunità parrocchiale o religiosa sappia «stare dentro la storia quotidiana» delle persone; ma bisogna saper “stare dentro” in uno specifico ambito territoriale «non in modo passivo o inoperoso, bensì assumendo un compito dinamico e creativo, impegnandosi in una funzione critica e dialettica, svolgendo un ruolo propositivo e progettuale»; per “stare dentro” non da disoccupati o da spettatori, ma da protagonisti, è necessario «conoscere lo sviluppo storico-sociale di quel contesto, le dinamiche ambientali e socio-economiche che si sono sviluppate, il cambiamento culturale e relazionale che si è imposto».
La conoscenza del proprio ambiente non ha certo lo scopo di «sovvertire la pastorale», quanto piuttosto quello di «individuare, nel rispetto del passato, quali scelte adeguate ed efficaci effettuare per il qui e ora». Già nella Pastores dabo vobis Giovanni Paolo II parlava della necessità di una conoscenza scientifica dei dati, della interpretazione della realtà e del discernimento evangelico dei fatti; purtroppo però, osserva Gaetani, la prassi della conoscenza approfondita e sistematica in cui investire tempo e risorse «è ancora poco diffusa e forse anche poco compresa»; non possiamo più accontentarci del pressappochismo di quanti dicono di sapere già in partenza «come stanno le cose»; chi soprattutto è sempre vissuto nello stesso ambiente facilmente è portato a presumere di «conoscere bene i problemi e la gente».
Ora spesso la conoscenza scientifica «è ostacolata dalla mentalità della improvvisazione. L’abitudine di molti a improvvisare per tamponare le emergenze, «può diventare vera e propria incapacità di pensare, progettare, sognare l’azione pastorale». La prassi della progettazione, nell’agire pastorale, fatica non poco a diventare “normalità”. Quanto sarebbe necessaria, invece, una maggior capacità progettuale proprio partendo dalla situazione attuale in cui, conlude Gaetani, «la fede tende perdere i suoi tratti di scelta responsabile, adulta, consapevole». Sempre più frequentemente oggi si nasce cattolici e si rimane cattolici «senza sapere che cosa significa essere cattolici, senza mai chiedersi il perché di quella fede, senza approfondire il come si crede, senza mai entrare nel merito del dove vivere la propria fede». Una fede non scelta e non maturata difficilmente potrà diventare «fede vissuta proprio; anzi, spesso rischia di assestarsi sui livelli di un vero e proprio «consumismo religioso».
DISAGI EMERGENTI
E POSSIBILE SUPERAMENTO
La relazione territorio-vita consacrata, scrive nel suo intervento p. Pier Luigi Nava, è “antica” quanto l’istituzione della vita consacrata stessa; storicamente abbiamo assistito a un profondo inserimento della vita consacrata nel territorio, fino al punto da interpretarne le esigenze e da accoglierne le istanze più disparate; nello stesso tempo, però, «non è mancata una relativa “distanza” dalla chiesa locale, traducibile forse in questo assioma: “a servizio di tutte senza identificarsi in alcuna”». In effetti, la sovradiocesanità degli ordini e istituti religiosi «ha direttamente influenzato l’organizzazione territoriale della vita consacrata (province, regioni, distretti) creando così una sorta di ambivalenza in relazione al territorio».
Ancora oggi è innegabile «una situazione di “emergente disagio” nella relazione tra identità e territorio nell’organizzazione istituzionale della vita consacrata. Ma quello che forse preoccupa maggiormente è il fatto che spesso i confini territoriali della chiesa locale «segnano anche i suoi confini mentali», vale a dire che «i suoi interessi ecclesiali difficilmente superano lo spazio occupato dalla circoscrizione diocesana». Se in passato, in molti casi, anche in conseguenza del secolare istituto dell’esenzione, di fatto, si è “pensato in proprio”, fino ad assumere «le emergenze socio-ecclesiali secondo strategie d’intervento praticamente in esclusiva» da parte di determinati istituti religiosi, «oggi “pensare in proprio” non solo non ci è consentito, ma sarebbe pure ostacolato».
E il primo ostacolo potrebbe venire proprio dalla chiesa particolare che per la sua pronunciata soggettività «rischia di rendere ancor più marginali gli stessi religiosi», visti, a volte, in contrapposizione ai “nuovi” soggetti ecclesiali: movimenti, aggregazioni laicali, forme diocesane di vita consacrata, non esclusa una certa “enfasi” sull’Ordo virginum; non è azzardato allora affermare che la chiesa locale prevalentemente vede ancora nella vita consacrata un «interlocutore funzionale: ci sei se mi servi», e molto meno un «riconoscimento di complementarietà di strategia ecclesiale». Anche nei confronti delle cosiddette “nuove forme” di vita consacrata «l’orizzonte mentale ed ecclesiale sembra essere ristretto nel territorio della loro origine».
A 25 anni dalla promulgazione delle Mutuae relationes tra vita consacrata e chiesa locale, c’è ancora un lungo cammino da percorrere e anche non poche “mentalità” da cambiare, sia da una parte che dall’altra. Nonostante tante consolidate affermazioni di principio sul magistero petrino ed episcopale, troppi religiosi “esenti” si comportano ancora, di fatto, come tali. Per il clero diocesano i religiosi continuano ad appartenere ad uno stato di vita “differente” e non solo “distinto” dal suo e da quello dei cristiani; sarebbe interessante, scrive p. Nava, svolgere un’indagine tra il clero giovane per sapere se continua a pensarla in questo modo; anche nei vescovi di oggi, che anagraficamente dovrebbero essere più sensibili alla nuova ecclesiologia di comunione, di fatto continuano a permanere «le pregiudiziali di sempre nei confronti del mondo dei consacrati».
Altra problematica situazione è quella delle parrocchie affidate ai religiosi; che dire del disagio dei secolari, se non l’aperta ostilità, quando la parrocchia dei regolari è di fatto un centro di servizi pastorali a più vasto raggio rispetto al ristretto confine della parrocchia?; che dire, ancora, del disagio nei confronti delle “pastorali alternative” dei religiosi per l’iniziazione cristiana di ragazzi o adulti, per la pastorale sanitaria, per quella scolastica, quando si vengono a sostituire «alla pastorale ordinaria del territorio?». Che dire, infine, della “vasta casistica” di ex-religiosi incardinati nelle diocesi che molti vescovi «rispedirebbero volentieri al mittente se non fossero presi per la gola…dalla carenza endemica di clero?».
Anche il debole riconoscimento della vita consacrata a livello di organismi ecclesiali, nonostante il “lodevole sforzo” della Cism al riguardo, è sotto gli occhi di tutti; oggi come oggi sembra di non andare molto oltre il livello di un semplice fair play. Quanto si è lontani ancora dal perseguire una “organica connessione”, intesa come «condivisione del pensare» e come realizzazione di comuni strategie ecclesiali. Del resto, se solo in questi ultimi anni sembra che il mondo dei religiosi manifesti maggior interesse per i piani programmatici della Cei, è pur vero che anche i parroci religiosi non sempre hanno saputo elaborare «un vero e proprio servizio pastorale alternativo, senza rimanere succubi di schemi di gestione pastorale a dir poco obsoleta o routinaria».
Sono ormai maturi i tempi in cui, come ha scritto p. Kolvenbach, citato da p. Nava, «la ricca e sconcertante diversità delle chiese locali, delle scuole di teologia e delle correnti di spiritualità, delle culture e delle lingue, delle vocazioni del laicato, del clero e della vita consacrata fondi un evento pentecostale». La preoccupazione e la visione più universale dei problemi di tanti ordini e istituti religiosi, dovrebbero più facilmente stimolare la creazione e lo sviluppo di istanze interprovinciali e sovraprovinciali; saranno poi queste istanze stesse ad aprirsi, scrive ancora p. Kolvenbah, verso «il rafforzamento dell’unione, la mutua comunicazione, la visione comune, la partecipazione a dei progetti comuni, per il compimento della comune missione che il Signore ci ha affidato».
Angelo Arrighini
1 Vedi i contributi di fra Paolo Martinelli, di p. Pier Luigi Nava, di p. Luigi Gaetani sul sito: www.cism-italia.org
2 Religiosi in Italia, n. 337