MEZZI PER CURARE LA VITA SPIRITUALE

“O SI CRESCE O SI PRECIPITA”

 

Don Waldemar Longo, superiore generale dell’istituto di don Calabria, riflette sui mezzi per una cura adeguata, sulla crescita della vita spirituale e sulle conseguenze negative che ne deriverebbero, compresa la castità, se mancasse questo impegno.

 

«Vi pongo e mi pongo una domanda: il nostro cuore vibra di fronte agli appelli del nostro fondatore alla priorità da dare alla vita spirituale? Sentiamo l’urgenza di dedicarci alla preghiera e a fare della nostra vita, ovvero del nostro dire e del nostro operare, l’esito della nostra vita di preghiera?».

A porre questa domanda è Waldemar José Longo, superiore generale dei Poveri servi della divina Provvidenza (don Calabria), sull’onda dell’ultimo capitolo generale, in una lettera all’istituto, in data 22 giugno 2003, solennità del Corpus Domini, tutta intessuta di citazioni tratte dalle lettere di don Calabria, in cui ricorda i mezzi indispensabili per sostenere e far progredire la vita spirituale. Si dice infatti convinto che se non si cresce spiritualmente, si precipita. Scrive: «Sappiamo tutti molto bene come sia sempre in agguato per ognuno di noi, senza alcun rispetto per ruoli o incarichi, la tentazione della routine, di una vita che corre sui binari definiti e che fugge ogni possibile novità o cambiamento, tanto più se di cambiamento interiore e spirituale si tratta». In effetti «è proprio della vita spirituale quello di essere una realtà in continua crescita.

Non esiste vita spirituale che possa vivere nella stasi: o si cresce o si precipita più o meno lentamente in una tiepidezza che ci rende spiritualmente ed esistenzialmente insignificanti». Perciò, «via da noi l’idea che trattenersi con Gesù in preghiera sia una “perdita di tempo” ovvero un tempo sottratto a cose “ben più produttive”, a quelle attività che anziché essere il frutto della nostra fede, altro non sono che lo sgabello su cui ci solleviamo per ricevere il maggior numero di applausi e che fanno di noi dei “poveretti ingannati sotto una falsa luce”. Ma via da noi anche quello sterile spiritualismo non accompagnato dalle opere che corroborano la fede, via da noi quel falso misticismo e spiritualismo che riduce la religione a consolazione dolciastra, senza forza di contestazione e in esilio dalla storia e dalle tenebre quotidiane».

 

EUCARISTIA

E LECTIO DIVINA

 

Per coltivare la vita spirituale e farla crescere l’ultimo capitolo generale dell’istituto aveva suggerito i mezzi che sembrano i più adatti in questo momento storico: l’Eucaristia, la lectio divina, la vita fraterna in comunità, e il suo collegamento con il modo di vivere la vita affettiva e sessuale e la castità come espressione di amore puro e disinteressato.

In riferimento all’Eucaristia, la lettera di don Waldemar ricorda quanto il papa scrive nella recente enciclica Ecclesia de Eucharistia, ossia che essa è come uno «squarcio di cielo che si apre sulla terra» (19) e cita quanto scrive Vita consecrata: «L’Eucaristia sta per sua natura al centro della vita consacrata, personale e comunitaria. Essa è viatico quotidiano e fonte della spiritualità del singolo e dell’istituto. In essa ogni consacrato è chiamato a vivere il mistero pasquale di Cristo, unendosi con lui nell’offerta della propria vita al Padre mediante lo Spirito. L’adorazione assidua e prolungata di Cristo presente nell’Eucaristia consente in qualche modo di rivivere l’esperienza di Pietro nella trasfigurazione: “È bello per noi stare qui”. E nella celebrazione del mistero del corpo e sangue del Signore si consolida e incrementa l’unità e la carità di coloro che hanno consacrato a Dio l’esistenza» (95).

Don Waldemar avverte: «Corriamo il rischio di vivere le nostre liturgia in una maniera a dir poco impoverita che non permette a chi partecipa di gustare la ricchezza di significati di cui è portatrice nelle sue varie fasi». Quindi mette in guardia dagli arbitri, magari per reagire ai formalismi, e ricorda che «la liturgia deve avere serietà e dignità per creare un clima spirituale che elevi l’animo all’incontro con il mistero, sia nell’individuo come nell’assemblea. Quindi va desiderata, preparata bene con decoro e con cura e con momenti di calma e raccoglimento»

Un altro mezzo di crescita spirituale che sta ormai entrando in modo determinante nel progetto di ogni comunità e dei singoli religiosi, è la lectio divina. «Si tratta, scrive don Waldemar, di un cammino cui dedicarsi con pazienza, ma che offre frutti sicuri. La Parola è portatrice di una energia capace di plasmarci, di creare in noi una struttura spirituale nuova». Ovviamente «non sono eventi che accadono dal giorno alla notte, si tratta di un cammino lungo ed esigente. E sia chiaro per tutti, bisogna fare i conti con il deserto, questa “landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove non crescono se non arbusti, rovi e cardi”(Enzo Bianchi) e dove non rimane  che una sola guerra da combattere, quella del cuore (Evagrio Pontico). Deserto che è sia il luogo a cui Dio stesso ci chiama: “Ecco la attirerò a me , la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Là canterà come nei giorni della giovinezza” (Os 2,16-17)».

Ma, oltre a questi, sottolinea don Waldemar, «non posso esimermi dal ricordare quali altri mezzi per la vita spirituale la confessione e la direzione spirituale, strumenti indispensabili a organizzare e a disciplinare la nostra vita spirituale. È un ambito questo dove maggiori sono in questi tempi le resistenze perché si tratta di un lavoro sistematico e perseverante che ha come scopo di arrivare alla comunicazione più intima, quella che veramente crea comunione e crescita nella persona».

 

VITA FRATERNA

IN COMUNITÀ

 

Un altro nodo essenziale per un autentico rinnovamento e ripresa dell’intera vita consacrata è «il segno, pregno di significati, della vita fraterna in comunità»; se questo viene offuscato si ha «come inevitabile conseguenza, un indebolimento globale dell’intero impianto della vita consacrata». Perciò, «dobbiamo renderci conto che “il primo apostolato è fare fraternità” . La condivisione a cui siamo chiamati parte dalla Parola e arriva a farci condividere i nostri stati d’animo più profondi creando le condizioni per aiutarci a vivere come fratelli». Don Waldemar richiama a questo riguardo quanto è scritto nel documento finale dell’ultimo capitolo che invita ogni religioso e le comunità a sviluppare la sensibilità alla condivisione della propria vita materiale, affettiva e spirituale, in un clima di amicizia. E osserva: «Credo che uno dei motivi per cui il nostro parlare, come consacrati, della comunità abbia troppo spesso sortito ben pochi risultati è quello di non  averne visto il forte collegamento con il nostro modo di vivere la nostra vita affettiva e sessuale».

Ciò comporta anche la piena assunzione della propria corporeità. E questo è tanto importante in quanto veniamo da secoli in cui la spiritualità era quanto mai diffidente verso il corpo visto unicamente come fonte di peccato. «Anche se il concilio Vaticano II ha affermato con forza che “non è lecito all’uomo disprezzare la vita corporale; egli è anzi tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo” (GS 14), per molti di noi, rileva don Waldemar, prendere a oggetto di riflessione il corpo si tratta di compiere un’autentica torsione culturale. Ma oggi è quanto mai necessario tanto più che si ritiene ormai acquisito come non sia possibile elaborare un’integrale, positiva e feconda teologia della vita consacrata senza un’adeguata teologia della corporeità e, prima ancora, un’antropologia che consenta di ricondurre la vocazione alla vita consacrata all’interno stesso della vocazione di ogni essere umano all’amore e alla comunione, in modo da porre in evidenza che la chiamata a seguire Cristo “più da vicino” propria dei consacrati non soppianti né tanto meno annulli questa vocazione, ma al contrario la valorizzi e la faccia vivere nel suo più alto grado, rendendo i chiamati segni viventi di Cristo Signore e dell’amore di Dio-Trinità nel mondo». Di conseguenza «l’accettazione di sé e della propria corporeità sessuata, come dono che viene da Dio e “sacramento” specifico della realizzazione della chiamata alla sequela di Cristo, costituisce il punto di partenza, e quasi il fondamento, di ogni teologia, spiritualità e ascetica cristiana della vita consacrata. Il corpo in questa prospettiva diventa anche per il consacrato il luogo in cui si realizza la propria sponsalità con il Cristo, è luogo e oggetto di dono sponsale a Cristo e quindi anticipazione della condizione escatologica definitiva». Don Waldemar cita a questo riguardo quanto ebbe a dire Giovanni Paolo II nel 1980: «Il corpo umano con il suo sesso, e la sua mascolinità e femminilità (…), è non soltanto sorgente di fecondità e di procreazione, come in tutto l’ordine naturale, ma racchiude fin dal principio l’attributo sponsale, cioè la capacità di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono e, mediante questo dono, attua il senso stesso del suo essere ed esistere». Perciò, sottolinea don Waldemar, «quanta cura, fratelli, dobbiamo avere verso questo nostro corpo, quante attenzioni nel salvaguardarne l’integrità, quanto amore verso questa realtà attraverso la quale, anche come consacrati, possiamo trasmettere l’amore».

 

CASTITÀ

E CAPACITÀ DI AMARE

 

Queste considerazioni immettono nell’ambito più ampio della castità, su cui è necessario tornare a riflettere perché «fino a un passato recente, la pratica e la riflessione sulla castità sono rimaste limitate alla continenza sessuale… frutto di una visione meccanicistica, materialistica della persona e di una certa dose non indifferente di rifiuto della validità delle pulsioni corporee legate al piacere».

Il vero problema si pone su un altro piano. La realtà, osserva don Waldemar, è che «non siamo capaci di amare». Ma la capacità di amare deve essere compresa «come un dono che riceviamo e di cui dobbiamo renderci degni, un dono che rendendoci capaci di amare Dio come il tutto della nostra vita, ci abilita a un amore universale senza desideri di possesso e legami particolari».

L’impatto sulla vita spirituale è forte, poiché «renderci capaci di amare e coltivare la nostra vita spirituale sono la stessa cosa». Di conseguenza, «se non ci manteniamo vigili nella cura della nostra vita spirituale verrà meno la nostra capacità di amare e ci ritroveremo chiusi dentro gli steccati del nostro egoismo con esiti facilmente immaginabili. Curare la propria vita spirituale nel contesto della castità significa aver cura di quello spazio insopprimibile che c’è in ogni cuore e che solo Dio può colmare. Solo tale consapevolezza è in grado di salvare la nostra capacità di amare. Senza la salvaguardia di questo spazio insopprimibile rimarremo persone inabili all’amore, perennemente assetate di attenzioni e di gratificazioni».

In effetti, si domanda don Waldemar, a che cosa si devono imputare i momenti di fragilità che incontriamo nella nostra vita? E risponde: «Se guardiamo bene, essi hanno luogo proprio nei momenti di maggiore tiepidezza spirituale, nelle situazioni in cui vivo lontano dalla cura per la mia vita interiore. Una preghiera zoppicante rende il cuore bisognoso di stampelle… il più delle volte umane. La furia con cui ci gettiamo nelle attività rappresenta un palliativo che presto o tardi rivela affannosi vuoti facendo di noi delle persone che mendicano affetto e considerazione agli angoli delle nostre case. Solo intorno a una sana vita spirituale si può costruire una vita autenticamente casta».

 

RIFLESSI

SULLA COMUNITÀ

 

Vista in questo contesto, la castità «è ciò che dà ordine ai nostri impulsi non per sedarli o negarli, ma per incanalarli verso quelle forme che ci permettono di vivere la pienezza dell’amore e quindi la carità. Certamente una sessualità casta non cessa di essere una sessualità, ma che si sviluppa e si esprime attraverso un  ordine e che genera un’armonia che è di per se stessa fonte di testimonianza».

Evidenti sono anche i riflessi che essa ha sulla comunità. La castità, infatti, «è il cemento delle nostre comunità, ciò che permette l’amore disinteressato e puro, ciò che si apre a relazioni in cui si accetta la diversità nel rispetto dell’intimità». A ben guardare, la castità è il nostro modo di essere in relazione: «Relazioni turbate non possono che essere segno di una castità che non viene recepita come un dono capace di dispiegare tutte le nostre possibilità di incontro con  l’altro. Le nostre comunità devono divenire luoghi in cui non solo sia possibile, ma venga nutrita e coltivata con cura la castità. Siamo gli uni gli altri responsabili della castità che rendiamo possibile nelle nostre comunità. Un atteggiamento rilassato o peggio una vita che si nutra di ambiguità ha riflessi devastanti sulla vita comunitaria e sulla testimonianza che essa offre al mondo. A questo riguardo, una vita di amicizia all’interno delle comunità è sia frutto che stimolo alla castità. L’amicizia non solo salvaguarda, ma costruisce e intensifica la nostra castità. “La sana amicizia è un segno evidente di maturità affettiva e una sicura garanzia per una vita di castità” ».

Ricollegandosi con il motivo da cui era partito, don Waldemar invita a «rinnovare il nostro sì a Cristo fonte della nostra vita» e conclude con un richiamo alla vigilanza: «Siatene certi  è solo sul fondamento di questo sì che saremo in grado di negarci quelle gratificazioni immediate e passeggere a cui siamo tentati di dire il nostro “perché no? che male c’è?”. Si tratta di gratificazioni, talvolta genitali, che purtroppo in certi casi finiscono per coinvolgere persone che si trovano a essere abusate nella loro fiducia o nella loro innocenza procurando alle anime ferite difficilmente rimarginabili». E conclude: «Nessuno di noi si senta al riparo da tentazioni o da fragilità di qualsiasi tipo tanto più nel contesto culturale attuale…La Vergine ci sostenga nella nostra vita spirituale, ci aiuti a fare di Cristo il centro e l’unico della nostra vita, ci insegni ad amare gratuitamente tutti coloro che incontriamo a cominciare dai nostri confratelli, consorelle e collaboratori e persone che ci vengono affidate, ci sostenga nei dubbi e nelle paure, e nel buio del peccato ci sostenga fino alla luce della misericordia del Padre».

 

 1 CABRA P.G., Vita religiosa in missione, Brescia 1989, p. 166.

2 TERRINONI U., Parola di Dio e voti religiosi. Icone bibliche. 2 Castità, EDB 2003, p. 66.