SULLO SFONDO DEGLI ATTUALI CAMBIAMENTI
FUTURO POSSIBILE MA QUALE?
La domanda per gli
istituti oggi è se il futuro è riposto nel fare tutti insieme o attraverso
minoranze esploratrici. Una cosa è certa: sopravviverà solo chi adotterà come
misura non il passato ma il futuro.
Traduco il titolo in una domanda: il futuro della VR è riposto nel tutti insieme o in minoranze esploratrici di nuove possibilità?
Per una risposta non emotiva è necessario partire dal prendere di peso un dato di fatto: “Le cose di prima sono passate…”.
Fino a poco tempo fa queste espressioni erano considerate proprie di persone “insofferenti”, ora provengono da persone e ambienti molto accreditati. Ne richiamo solo alcune, quelle che in questi ultimi mesi hanno incuriosito maggiormente.
Madre Teresa Simionato (presidente USMI): «è imperativo capire che il primo tempio della VR è crollato e che il secondo tempio è scosso nella profondità…».
Padre Bini al capitolo generale dei minori: «il momento storico in cui viviamo ci invita a una revisione globale della nostra esistenza: non è più il tempo di ritocchi marginali, di rattoppi temporanei».
Padre Gabriele Ferrari:«L’attuale modello di vita religiosa è arrivato a esaurimento».
I CAMBIAMENTI
AVVENUTI
In particolare che cosa è cambiato?
È cambiato (o sta cambiando) il modo di intendere la comunità. La comunità religiosa si è costruita sul modello di “famiglia” ma «famiglia patriarcale ove si dava per scontato che tutti condividessero le stesse premesse implicite». Il religioso di un tempo non ha faticato a riconoscere come familiare questa modalità perché «quasi sovrapponibile a quella di molte delle famiglie di provenienza dove era abituato a un regime gerarchico, che presupponeva il ruolo indiscutibile dell’autorità». Ora per le generazioni più giovani, se la comunità vuole essere famiglia non può riproporre quel modello in cui è norma «la dipendenza come valore indiscutibile e sacralizzato»1 non è il modello di famiglia delle nuove generazioni per le quali c’è stato il passaggio da una famiglia fondata sull’autorità ad una famiglia fondata sulla relazione e su patti di reciprocità.
È cambiata l’età media dei religiosi. A metà del 1900 andava dai 30 ai 40 anni; ora in Europa è dai 65 ai 75 anni. L’età (non solo cronologica) non è indifferente al fine di «esplorare vie nuove per attuare il Vangelo nella storia» (VC 84b).
Il direttivo generale dei maristi pone delle condizioni per nuove realizzazioni: «nessuna nuova provincia può decollare senza almeno il 40% dei fratelli sotto i 60 anni e la previsione di almeno due nuovi fratelli professi ogni anno».2
L’età è rilevante anche per il fatto che non basta avere una missione ma necessita una missione “missionaria” vale a dire con capacità di annuncio all’interno di un mondo cambiato che postula atteggiamenti dinamici e di frontiera.
Sono cambiati i bisogni che hanno orientato nel passato le scelte apostoliche. La vita religiosa si era attrezzata con delle risposte adatte a quel tempo in cui la gente era carente di beni di cui vivere (salute, sapere, educazione…), oggi la gente è carente del perché vivere.
La presidente dell’ USMI disse nella assemblea 2003: «Un millennio di fioriture di opere sembra chiudersi per far fiorire segni di umanizzazione e di prossimità senza strutture per affiancarci di più e più direttamente all’uomo d’oggi».
È tempo dunque di passare dalle opere alle sfide e di accogliere in particolare le povertà invisibili, accettando anche che il segno non significhi visibilità: il lievito non si vede ma ci si accorge se la pasta è lievitata (cf. VC 10). Dire questo non significa preclusione a ogni tipo di opera ma a quelle che non sono trasparentemente strumento in funzione delle sfide.
È cambiata la funzione dell’istituzione. Era prevalente una visione statica secondo cui l’istituzione è la cornice all’interno della quale si svolgono azioni e interazioni che al tempo stesso riproducono la cornice stessa. Questa era l’idea che ben si addiceva in tempi di continuità. Oggi invece si fa strada una visione dinamica secondo la quale l’istituzione è l’alveo entro cui scorre un fiume, che è tale se non rimane nello stesso punto, perché è se stesso solo in una dinamica di continua trasformazione. La prima visione ha portato la vita religiosa a situarsi in una atemporalità. La seconda è in sintonia con l’idea che «l’ordine del mondo (cosmologico, politico, conoscitivo e perfino morale) non è statico, non è definito una volta per tutte, ma è storico, cioè si dà temporalmente, attraverso una processualità di mutazioni».3 Questa visione incomincia ora a essere adottata. Se ne ha conferma leggendo qualcosa del documento di sintesi del capitolo generale dei cistercensi in cui si dice che «le comunità più giovani, devono resistere alla tentazione di riprodurre i modelli più antichi e più elaborati e rendersi conto di possedere esse stesse le risorse per la propria formazione».4 L’ esemplarità per l’oggi non è desunta come ripetizione del passato in senso passivo. Le nuove forme di vita religiosa intendono la rifondazione come qualcosa di nuovo che nasce nuovo. Per dirla con E. Bloch, «si impone un rinnovamento di prospettiva in ambito religioso che permetta di trasferirsi: dalla patria perduta alla patria in cui ancora nessuno fu, dalla terra posseduta alla terra promessa lasciando spazio alla fantasia, al cercare quel Dio che nessuno ha mai visto». L’unico ago in grado di orientare le scelte è la capacità di leggere i “segni del veniente”. Diversamente ci si troverà a essere fuori situazione che porta a «una certa melanconia collettiva che si manifesta con sintomi di insoddisfazione, di stanchezza esistenziale, di evasioni individualistiche, di delusione e disincanto nei riguardi del futuro».5
Sono cambiati i fondamenti della conoscenza e della legittimità del sapere. Un tempo l’uomo nel definirsi (concettualmente e operativamente) metteva a fondamento la fedeltà al passato. Oggi alla certezza basata sulle tradizioni si sostituisce la consapevolezza di dover attraversare gli stereotipi e produrre nuove rappresentazioni dei problemi. Voler rinnovare senza rinunciare al modello ereditato (non al valore) porta al fallimento.
La difficoltà sta nel fatto che abituati un po’ tutti a considerare permanenti alcuni valori, nel concreto non distinguiamo tra il valore e il modello con cui esso può essere vissuto.
La scienza costituisce il modello di riferimento di questa continua ridefinizione del sapere la cui forza non sta nel riferimento al tradizionale, al saputo ma al dubbio, alla ragione, alla verifica. In tempo di transizione culturale si dice di una persona di essere abile non per concentrazione di esperienze ma per quanti adattamenti è capace; per la duttilità e flessibilità. Parlando di identità di una “forma di vita”, vale lo stesso ragionamento che si fa per la persona: nell’identità è insita l’esigenza di dinamicità, di evoluzione.
E il tempo di gente che sappia uscire dalla cornice per diventare competente in un sistema complesso. Dentro la cornice il ventaglio delle possibilità è ristretto. Mi ha sempre interpellato il fatto che i nuovi protagonisti ecclesiali (movimenti e nuove forme di VC) non sono il frutto delle “grandi narrazioni”. Il nuovo è nato nuovo: «alcuni carismi suscitati dallo Spirito irrompono come vento impetuoso che afferra e trascina le persone verso nuovi cammini di impegno missionario al servizio del Vangelo» (Giovanni Paolo II).
TUTTI INSIEME
O MINORANZE ESPLORATRICI?
Ora dopo aver accennato ad alcuni cambiamenti ritorno alla domanda: il futuro è riposto nel tutti insieme o in minoranze esploratrici di nuove possibilità? Il fatto che “le cose di prima sono passate” porta a dire che sopravvivranno coloro che adotteranno come unità di misura non il passato ma il futuro. Allora l’interrogativo che si presenta è: la capacità di “trasferimento” è possibile ad un corpo sociale nella sua integrità? Padre Giacomo Bini disse ai capitolari: «L’Ordine, lungo la storia, si è sempre rinnovato grazie a gruppi di frati appassionati e capaci di sognare». Vale a dire che una istituzione nella sua integrità non è riconducibile a logiche significativamente evolutive.
Per servire oggi questa Chiesa gli istituti sono chiamati a essere laboratori sperimentali in cui verificare il rapporto con il mondo, inventare alcune soluzioni, assumerne i possibili rischi e questo è reso praticabile attraverso persone il cui giudizio sulle scelte non si riduca al giusto/sbagliato a seconda che conferma o contraddice i propri presupposti, ma adotta la nuova epistemologia che è quella dei mondi possibili; attraverso persone il cui modo di comprendere non sia quel pensiero logico razionale che mira al controllo preventivo delle situazioni, ma sappiano “abitare” cioè abbiano la capacità di conoscenza legata al radicamento e sradicamento. Il “tutti insieme” scaturisce dal timore di inevitabili fratture specialmente in chi ha preminente l’idea di famiglia coesa, rinserrata, specie nei momenti difficili, solidale, l’un per l’altro. Ma «non è lecito pretendere che tutto debba inserirsi in una data organizzazione dell’unità; meglio meno organizzazione e più Spirito Santo! Soprattutto non si può sostenere un concetto di comunione il cui valore pastorale supremo consista nell’evitare conflitti. La fede è sempre anche spada e può esigere anche il conflitto per amore di carità e di verità (cf. Mt 10,34). Un progetto di unità ecclesiale in cui i conflitti fossero liquidati a priori e la pace interna fosse ottenuta a prezzo della rinuncia alla totalità della testimonianza, ben presto si rivelerebbe illusorio».6
Il futuro possibile induce alla ricerca di un’arte nuova nel trasmettere valori, norme e forme attuative. La persona (per-sonans) non può essere pensata passiva o solo ricettiva. «Niente, nessun valore entra nella vita della persona se non ha partecipato a costruirlo, a cercarlo, a individuarlo e a farsene un parere con un suo modo personale». L’uomo vuole rivestire un ruolo attivo e partecipativo nei processi decisori. Un tempo «i progetti si facevano verso, oggi si fanno con».
UN GOVERNO
“INTELLIGENTE”
È tempo di ricerca-azione che rimanda più che a un metodo di governo a un’immagine di organizzazione “intelligente” nel senso che progressivamente viene a riposizionarsi, modificarsi nella composizione delle forze in gioco a partire dalle competenze e dall’interesse di chi vi partecipa. La ricerca-azione si basa sull’implicazione dei soggetti dell’intervento, fin dalla fase di avvio, che procedono secondo quello che Lewin definiva il metodo dell’approssimazione successiva. Sono soltanto le energie di chi vuole mettersi in gioco la forza della ricerca-azione e non i pensieri fatti a tavolino da altri per il principio della delega.
Tutto questo deve incrociare un’arte nuova anche nell’esercizio di autorità non intesa esclusivamente come ritenzione del potere (di indirizzo e decisionale) nelle mani di uno solo o di alcuni. Questa concentrazione di potere – scrive Jean-Yves Baziou7 – conduce non soltanto a una ineguaglianza nei rapporti umani ma nello stesso tempo nella messa sotto tutela della maggioranza. L’autorità nella Chiesa deve tendere verso un’estensione del potere. Avere l’autorità è alla fine un donare, servire le capacità degli uni e degli altri, renderli autori, gestire il rapporto tra unità e pluralità, tenere viva la ricerca di nuove rotte e nuovi approdi. Nella Chiesa la funzione orientativa va ricondotta allo Spirito, vale a dire che l’autorità non comanda tutto nella Chiesa e che tutto non deve essere atteso dall’autorità. Le nuove esperienze sono sorte fuori dell’iniziativa della gerarchia per essere in seguito eventualmente riconosciute.
Attualmente i vari istituti interpellati dal fatto “che le cose di prima sono passate” si trovano tutti d’accordo nel ritenere che è tempo di ri-evoluzione, ma si differenziano sul senso da dare a tale espressione. Chi la intende come adeguamento e chi come qualcosa di più radicale: la logica dei primi è di resistere nel tempo, quella dei secondi di abitare il tempo. A tal proposito riporto quanto detto nell’assemblea USMI 2003 dal titolo Quale vita religiosa nella nuova Europa?: «Oggi la questione centrale è costituita in ogni caso dalla concezione del rinnovamento come rivoluzione, dove la novità non viene più legittimata ricorrendo alle fonti, alle origini o alle tradizioni». Questo cambiamento radicale è sollecitato dall’altrettanto radicale cambiamento della cultura attuale «si pensi, per esempio, alla rilevanza assunta dalla sfera individuale e dalla libertà soggettiva, come pure dall’importanza della razionalità…. e dell’autorità della scienza rispetto a qualsiasi altra autorità».8
Lo stesso relatore sintetizzava il suo dire con alcune ineludibili domande: «È pensabile esibire un’identità che non mutui almeno alcune caratteristiche fondamentali del passato?» E nello stesso tempo come «integrare in quella identità anche ciò che non è mai esistito appunto nel passato»?
Rino Cozza csj
1 L. PINKUS, Consacrazione e Servizio, 6/2003 p. 48ss
2 A. ARRIGHINI, in Testimoni, 8/2003, p. 26
3 M. GUZZI, in Religiosi in Italia, n.4/ 2002 p. 166
4 Testimoni,.4/2003, p. 12
5 WIRTZ M. P., in Testimoni n.14/ 2002, p. 26
6 Mons. PAGLIA vescovo di Terni, in Religiosi in Italia, p. 260
7 in Pretres diocèsains, aprile 2003, p. 103
8 P .GARGANO (riportando delle espressioni di G. Bonaccorso, preside dell’Istituto. di Liturgia Pastorale, Padova), in Consacrazione e Servizio n 7-8, 2003.