A PROPOSITO DI BUSH IN AFRICA

I SOGNI MUOIONO ALL’ALBA

 

Il viaggio del presidente Bush e il vertice dell’Unione Africana a Maputo. Le belle parole non risolvono i problemi. C’è bisogno di «buoni samaritani» che s’accostino all’Africa e la rimettano in piedi.

 

In Italia abbiamo passato l’estate nell’attesa di un po’ di fresco e di pioggia che, spesso al suo arrivo, ha poi fatto dei danni. Un occhio alla colonnina del mercurio e davanti alla televisione, abbiamo atteso per giorni e settimane la buona notizia. Puntuali, ogni giorno, abbiamo seguito i comunicati che facevano il punto sullo  stato dei fiumi che, ormai secchi, mettevano in crisi l’agricoltura per mancanza d’irrigazione e provocavano il blackout della corrente elettrica, la quale a sua volta aggravava ulteriormente la situazione impedendo l’uso dei condizionatori d’aria nelle case, diventate ormai delle scatole bollenti. La prolungata canicola ha anche fatto morire tanti anziani ammalati (ma non sarà stata anche la solitudine?). Ce la siamo presa con il governo: e con chi se no? Ma non c’è stato niente da fare. È piovuto quando il cielo l’ha voluto.

Siccome tutto il male non viene per nuocere, forse abbiamo da far esperienza di quello che sta succedendo, ormai da troppo tempo, a tanti milioni di africani o di brasiliani per i quali la siccità dura anni…

In Africa ci sono 38 milioni di persone, in dieci stati, distribuiti da nord a sud, da est ad ovest del continente, che a causa della siccità corrono letteralmente (non è un modo di dire retorico) il rischio di morire di fame. Forse ci siamo resi conto di che cosa significa aver l’acqua sempre a disposizione in casa, poter contare sulla corrente e sulle sue applicazioni tecnologiche e vivere normalmente senza queste preoccupazioni basilari.

Mentre in Italia aspettavamo il fresco e la pioggia, e mentre magari facevamo le nostre vacanze, in Africa si è assistito a un’altra siccità e a una peggiore canicola, al sorgere e al tramontare di altre speranze. Ancora una volta dei sogni sono morti all’alba. Parlo del vertice dell’Unione Africana e del viaggio del presidente George W. Bush in cinque paesi dell’Africa.

 

VIAGGIO

DI BUSH IN AFRICA

 

«È molto importante che gli Stati Uniti non mostrino al mondo solo i muscoli, ma anche il cuore». Questa dichiarazione del presidente Bush alla CNN prima del viaggio era troppo bella per essere vera. Il suo in Africa era un viaggio programmato per l’inizio dell’anno, ma è slittato fino all’inizio dell’estate a causa della guerra in Iraq. Nella sua campagna elettorale George W. Bush aveva affermato che l’Africa non si trovava «nelle priorità della sicurezza nazionale degli USA». Ma poi si deve essere ricreduto, quando ha cominciato a temere che il radicalismo islamico stabilisse delle basi terroristiche sul continente africano. C’è anche un secondo problema che sta a cuore a Bush: il commercio dei prodotti agricoli geneticamente modificati che gli USA non riescono a smerciare come vorrebbero in Africa. Così, fedele alla sua politica neoliberista e leale verso i suoi potenti elettori, Bush s’è rimangiato i propositi elettorali ed è partito per l’Africa il 7 luglio per rimanervi fino al 12 dello stesso mese: una breve settimana, una parentesi in mezzo agli altri impegni.

Nel corso della sua visita ha mostrato, come si conviene ad ogni persona ben educata, una grande partecipazione e, almeno a parole, una profonda sofferenza per i mali dell’Africa: «Qualunque sia il partito o l’ideologia, il cittadino americano è profondamente toccato dal fatto che persone muoiano in massa a causa dell’HIV-AIDS. Piangiamo per l’orfano, piangiamo per la madre sola. Siamo preoccupati per questa strage e rispondiamo nel modo più generoso possibile». Molto bene!  

In realtà nel corso della visita ha ripetutamente parlato dell’AIDS che in Africa sta  provocando stragi incredibili e che, insieme con la fame, è diventato il male del continente e una priorità per chi voglia dare una mano alla sua rinascita. Ha offerto 15 miliardi di dollari per un piano di emergenza quinquennale che sarà coordinato da Randall Tobias, fino al 1998, dirigente di una industria farmaceutica di Indianapolis.

Ma detto questo, per il resto del tempo la visita si è svolta in favore degli interessi USA e molto, molto meno di quelli dell’Africa. Chi aveva dubbi ora può essere certo che l’Africa «non è nelle priorità della sicurezza nazionale degli USA». Ha visitato cinque paesi, nessuno di quelli che bruciano, come la Liberia, il Burundi, il Congo. Si è recato a far visita a due potenze regionali, il Sudafrica e la Nigeria (questa fornisce il 18 % del petrolio consumato in USA), e a tre paesi, il Senegal, il Botswana e l’Uganda, che sono allievi esemplari della scuola neoliberale americana, ossequienti esecutori degli aggiustamenti strutturali “proposti” loro della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale.

 

EGOISMO

E IPOCRISIA

 

I pensieri del presidente erano volti, come già detto, all’interno, al commercio statunitense dei prodotti transgenici «made in USA» e al consolidamento di alcune basi antiterroristiche sul territorio africano. Così sono stati destinati 100 milioni di dollari per il rafforzamento dei sistemi di sicurezza di alcuni paesi.

Bush, pur addolorato per le miserie africane che certamente gli sono state raccontate, non si è tuttavia preoccupato di dare una mano alla soluzione delle emergenze africane, guerra, fame, malattie, ecologia e analfabetismo, ancora meno ha affrontato il problemi del commercio africano che potrebbe essere una chiave di soluzione del cronico sottosviluppo di quel continente. Tutti sanno che il commercio africano non decolla nel mondo a causa del protezionismo occidentale sui propri prodotti agricoli. I prezzi americani del cotone, sovvenzionato dal governo federale, sono molto più concorrenziali di quelli del cotone africano. Non è che un esempio. Infatti, i coltivatori di cotone in America ricevono quattro miliardi di dollari all’anno per produrre cotone a basso prezzo. In questo modo gli undici milioni di coltivatori di cotone dell’Africa occidentale non riescono a vendere in USA il loro cotone che costa molto di più di quello americano e sono così condannati alla miseria.

Secondo l’agenzia umanitaria Oxfam «gli Stati Uniti spendono tre volte in più per sostenere il prezzo del cotone locale di quanto stanziano in aiuti per i 500 milioni di africani. Una sola società americana (la US Tyler Farms dell’Arkansa) nel 2001 ha ricevuto sei milioni di dollari di indennizzo, equivalenti al reddito combinato medio annuale di 25.000 agricoltori del Mali». Come si può competere in queste condizioni?

Questa visita ha mostrato all’evidenza la retorica vuota e ipocrita di certi discorsi sull’aiuto al Terzo Mondo, ma avrà almeno aperto gli occhi a coloro che ancora credono al buonismo dell’amministrazione americana perché difende i valori della religione. Non vengono in mente certe “tirate” dei profeti contro i re di Israele e di Giuda?

 

IL VERTICE

DI MAPUTO

 

Dal 9 al 12 luglio scorso, quasi in contemporanea con la visita di Bush, si svolgeva a Maputo la capitale del Mozambico il secondo vertice dell’Unione Africana (nata formalmente lo scorso anno a Durban, in Sudafrica) cui assisteva una folta delegazione dell’Unione Europea. Già questo mostrava il cammino distinto e parallelo delle due superpotenze mondiali. La riunione dell’Unione Africana è stata salutata con molta speranza e con un ottimismo che tutti vorremmo fossero veri e duraturi. È stata l’occasione per creare una «cabina di regia», la Commissione Africana, costruita sulla falsariga di quella Europea, cui è stato preposto Alpha Oumar Konaré, ex presidente del Mali, coadiuvato dal rwandese Patrick Mazimhaka e quindi otto commissari, quattro uomini e quattro donne. La speranza è forse che l’imitazione delle strutture burocratiche e organizzative del continente europeo compia il miracolo di rigenerare quello africano. Viene da chiedersi quando finirà questa voglia di copiare gli altri…

In quell’occasione il segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha espresso la sua soddisfazione nel vedere che «alcuni conflitti in Africa sono in via di soluzione». Alludeva alla firma dell’accordo per la costituzione di un governo unico nella Repubblica Democratica dal Congo e al passaggio non conflittuale dei poteri dal presidente tutsi al presidente hutu in Burundi. Purtroppo il suo ottimismo è stato smentito troppo presto. Proprio in quei giorni in Africa, insieme con la Liberia aveva ripreso a bruciare il Burundi e il piccolo territorio di São Tomé e Principe, teatro proprio in quei giorni di un colpo di stato.

L’Africa ha bisogno di essere aiutata. L’ha detto a chiare note il commissario europeo, Romano Prodi, parlando al vertice di Maputo, ma deve essere aiutata ad aiutarsi. Per questo ha invitato la controparte africana ad una riunione congiunta da tenersi in tempi brevi «per stringere e razionalizzare i tempi della cooperazione». È l’Africa che deve trovare le giuste soluzioni per i drammatici problemi del continente. Prodi, convinto teorico della necessità strategica dell’aiuto europeo, non ha cercato di addolcire le espressioni e ha definito i problemi africani disperanti. Non c’è dubbio che se USA e Europa trovassero una strategia comune per dare una mano all’Africa, quei problemi per quanto disperanti potrebbero trovare una soluzione. Ma finché si è preoccupati solo dei problemi interni e non si guarda all’Africa come a un continente che ha diritto di crescere sulle sue gambe, l’Africa sarà sempre un problema, anzi una minaccia, come un iceberg sommerso che minaccia gli altri e che impedisce a se stesso di emergere.

Bisogna che il mondo sviluppato creda nell’Africa e nella sua volontà e capacità di crescere. Sarà solo una svista o un caso? Il fatto è che Bush non si è degnato neppure di una dichiarazione e, ancora meno, di dare una parola di sostegno al NEPAD, patto di cooperazione per lo sviluppo sostenibile per difendere l’Africa dalla marginalizzazione cui la condanna il sistema della globalizzazione, promosso dai presidenti di Sudafrica, Senegal, Nigeria e Algeria.

 

PERCHÉ I SOGNI

NON MUOIANO ALL’ALBA

 

A Maputo la Comunità di Sant’Egidio ha consegnato ai capi di stato africani riuniti nell’Unione Africana 300.000 firme di giovani africani che esprimono il «desiderio di risurrezione delle nuove generazioni che non vogliono abbandonare e vedere abbandonato il loro continente». Santi desideri e degni propositi. Ma essi attendono che coloro che hanno in mano le sorti dell’Africa ritrovino con la giustizia e la solidarietà anche la capacità di cercare il bene delle popolazioni africane.

Agli occhi dei politici la situazione dell’Africa potrebbe sembrare disperata e senza futuro. Ma se tutti comprendessimo che a ciascuno di noi tocca di dare il suo contributo, il mondo africano potrebbe rimettersi in cammino. Ci vogliono ancora dei buoni samaritani che si fermino e che lo aiutino a riprendere coraggio e fiducia in se stesso. Altrimenti, ancora una volta, i sogni moriranno all’alba.

 

Gabriele Ferrari s.x.