Il nuovo Percorso pastorale diocesano

MI SARETE TESTIMONI

 

Il “caso serio” della evangelizzazione e della trasmissione della fede nella diocesi di Milano. Il discernimento evangelico, l’incontro con Cristo e con la sua Chiesa, il vissuto delle comunità parrocchiali nella triade inscindibile Parola, sacramenti, vita: sono alcune delle tappe di questo percorso ampiamente illustrate nel documento.

 

L’evangelizzazione e la trasmissione della fede è il “caso serio” della Chiesa di oggi. È un po’ il leit motiv del “Percorso pastorale diocesano per il triennio 2003-2006” presentato l’8 settembre, nel duomo di Milano, dall’arcivescovo cardinale Dionigi Tettamanzi.

Se la destinataria immediata di questo documento programmatico è la Chiesa milanese, i problemi affrontati riguardano, come è detto espressamente, non solo «le Chiese che sono in Italia», ma anche «tutta la Chiesa nel mondo». Una conferma diretta viene dalle fonti principali e più ricorrenti delle varie citazioni presenti nel documento: non solo i tanti orientamenti pastorali precedenti del cardinale Martini e quelli del 47° sinodo diocesano, ma anche testi del Vaticano II, di Paolo VI, del Catechismo della Chiesa cattolica, di Giovanni Paolo II, della Cei.

Si tratta di uno strumento corposo, afferma il cardinale Tettamanzi; in effetti, nelle sue 240 pagine, vi si trova una visione d’insieme organica e la concretezza operativa di quanto si può dire e fare oggi a proposito della evangelizzazione e della trasmissione della fede.

 

UN “CASO SERIO”

NON SOLO A MILANO

 

Il “Percorso”, volendo evidenziare il suo aspetto di cammino di una chiesa locale, si snoda lungo sette tappe. Si parte (prima tappa) da una doverosa opera di “discernimento evangelico” dell’attuale situazione. Se l’evangelizzazione e la trasmissione della fede, come emerge con forza dal documento, è il “caso serio” della Chiesa, viene subito precisato, però, che lo è sempre stato; oggi, semmai, «lo è in termini nuovi, più pesanti e stimolanti». È il “caso serio”, perché la ragione di vita, e più radicalmente la stessa ragione di essere della Chiesa nella storia «è tutta e sola nell’annuncio del Vangelo e nella trasmissione della fede»; è questa, infatti, come scrive Paolo VI nella Evangelii nuntiandi, «la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare» (14).

È il “caso serio”, scrive ancora il cardinale Tettamanzi, «perché senza Vangelo e senza fede non c’è salvezza! Siamo di fronte non a una delle questioni pastorali, sia pure importante o importantissima, ma alla questione centrale, in un certo senso unica e decisiva, di tutto l’agire della Chiesa e del cristiano». Il contesto sociale e culturale in cui avvengono oggi l’evangelizzazione e la trasmissione della fede è profondamente cambiato rispetto al passato.

I percorsi tradizionali di fede – che, fino a qualche decennio fa, erano socialmente radicati nelle famiglie, nella scuola e in altri ambienti di socializzazione – sono diventati sempre più fragili, anzi sono oggi in qualche modo saltati. Le radici della “rottura del patto” fra le diverse generazioni, vanno ricercate soprattutto in precise motivazioni culturali. Viviamo in un contesto spesso impermeabile al Vangelo, a esso estraneo o persino contrario. Se lo è sempre stato anche in passato, oggi il diventare cristiani «si presenta come un’impresa particolarmente ardua, difficile e faticosa»; lo è in un modo tutto speciale nell’ambito della vita sociale, dove si è consumata quella rottura tra Vangelo e cultura che già Paolo VI ha denunciato come il dramma della nostra epoca;  «qui è più facilmente e ampiamente visibile l’irrilevanza sociale dei cristiani, perché i criteri di giudizio e di scelta dominanti nella cultura, nella mentalità e nel costume, non sono nella linea del Vangelo e talvolta neppure in quella della stessa razionalità umana». Eppure proprio in questa precisa situazione storica, sociale-culturale-ecclesiale, si è chiamati oggi a vivere da cristiani.

Ma da dove partire? Per Tettamanzi non ci sono dubbi; bisogna partire da Gesù Cristo (seconda tappa) e dalla Chiesa (terza tappa); solo in riferimento a Cristo e alla sua Chiesa possiamo trovare i fondamenti e i contenuti essenziali della fede non solo da professare-celebrare-vivere ma anche da trasmettere al mondo di oggi. Il contenuto dell’evangelizzazione e trasmissione della fede è la persona stessa di Gesù Cristo»; non si tratta quindi di un contenuto astratto, ma «estremamente concreto perché vivo e personale». È Gesù Cristo il Vangelo vivente, la Parola eterna di Dio fatta carne umana. Per questo la testimonianza, affidata alla Chiesa e ai cristiani, nasce dall’incontro con Gesù Cristo, un incontro che «si concentra e si esaurisce in una grande confessione di fede».

Questa pagina di intensa cristologia è tutta non solo da leggere ma anche da meditare e da pregare; solo così è possibile cogliere  «la assoluta novità e unicità di Gesù, nei confronti di qualsiasi realtà, persona o religione, e la sua totale singolarità e irriducibilità a qualunque altro profeta, capo religioso o presunta divinità». Solo una simile fede, che confessa apertamente l’assoluta novità e unicità di Gesù Cristo, «può essere il principio sorgivo e la forza determinante della missionarietà, ossia dell’annuncio del Vangelo e della trasmissione della fede».

Ora però, Gesù Cristo, il Vangelo vivente e personale, «è presente e operante nella Chiesa»; è la Chiesa, infatti, che per prima «riceve da Cristo il Vangelo e la fede e, a sua volta, predica il Vangelo e trasmette la fede agli uomini», diventando in questo modo «comunità evangelizzata ed evangelizzante insieme».  Se è importante la Chiesa universale e quella diocesana, non lo è meno, però, la semplice parrocchia, «l’ultima localizzazione della Chiesa», e in un certo senso «la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie» (Christifideles laici, 25). È soprattutto la comunità parrocchiale che deve assumersi in modo sempre più cosciente, responsabile, deciso il mandato missionario. Ma questo non è possibile, però, senza superare una sorta di sterile parrocchialismo, senza impegnarsi  a «valorizzare tutti i doni e i carismi delle singole persone e delle diverse realtà aggregative» presenti in una realtà parrocchiale, senza una nuova coscienza missionaria; la fede cristiana, infatti, «o è missionaria o non è fede cristiana!»; la pastorale cristiana «o è missionaria, o non è pastorale cristiana!»; è definitivamente passato il tempo  della cosiddetta «pastorale della semplice conservazione e gestione dell’esistente».

 

IL VISSUTO

NELLE PARROCCHIE

 

Poste queste premesse sui contenuti essenziali della fede cristiana, il “Percorso”, nelle tre tappe successive, la quarta, la quinta e la sesta, partendo dal vissuto concreto delle nostre comunità parrocchiali, analizza le condizioni, i momenti e i modi con cui la Chiesa – a iniziare dalla parrocchia e coinvolgendo tutti, singoli e aggregazioni – può e deve vivere oggi la propria missione evangelizzatrice nella società, a servizio del regno di Dio.

Il vissuto, da cui si prendono le mosse e nel quale si deve esprimere tutto il potenziale missionario, è quello della celebrazione eucaristica domenicale, della richiesta dei sacramenti e della vita quotidiana nei diversi ambienti sociali. È sempre più vistoso oggi il fenomeno dell’abbandono della messa domenicale da parte della maggioranza di coloro che anagraficamente sono cristiani (specie ragazzi e giovani, ma non solo), anche se è pur sempre rilevante il numero di coloro che, ogni domenica, vi partecipano.  Di qui la prima grande sfida pastorale: quale volto missionario di Chiesa può e deve sgorgare dall’eucaristia celebrata ogni domenica nelle nostre parrocchie?  La sfida la si può raccogliere e superare solo attraverso un’alta qualità celebrativa dell’eucaristia, con un rito «che sveli la sua verità e finalità di introdurre i partecipanti a sperimentare la presenza di Dio e l’incontro con la persona viva e vivificante del Signore Gesù».

Nel  “Percorso”  non mancano altri spunti per andare decisamente oltre la semplice soddisfazione di un precetto e la pura risposta a un bisogno religioso anche legittimo; l’obiettivo di fondo è sempre quello di dar vita ad una celebrazione che sappia far «vibrare il tessuto settimanale delle più abituali relazioni tra le persone negli ambienti di vita sociale». Solo così sarà possibile arrivare veramente a vivere la domenica nella sua novità cristiana di “giorno del Signore risorto”, di “giorno della fede”, di “giorno della carità”.

Sempre seguendo il vissuto di fede delle nostre comunità parrocchiali, è facile scorgervi un’altra grande sfida, quella connessa alla richiesta, da parte di non poche famiglie, del battesimo per il figlio che nasce, della prima comunione per i fanciulli, della cresima per i ragazzi, dello “sposarsi in chiesa” per i giovani; sono tutte richieste che avvengono in un contesto notevolmente diverso rispetto al passato;  oggi, infatti, la comunità cristiana «registra una compresenza composita e molto variegata di credenti e non credenti, di praticanti e non praticanti, di catecumeni e “ricomincianti”, di indifferenti e ostili, eccetera».

Come allora è possibile evangelizzare e trasmettere la fede in questa situazione inedita? «L’interrogativo, risponde l’arcivescovo di Milano, è quanto mai serio e decisivo, perché riguarda non qualcosa di secondario, ma un valore fondamentale e qualificante la missione della Chiesa: la celebrazione dei sacramenti». Di fronte a quanti chiedono comunque un sacramento, la Chiesa «non è padrona e arbitra di comportarsi come vuole: più compassionevole, concedendo tutto e sempre, o più rigida, ponendo condizioni indebite, che conducono al rifiuto dei sacramenti»; la Chiesa dev’essere pienamente fedele allo stile missionario del Cristo stesso: «sempre “accogliente” con tutti, ma sempre e solo “nella verità”, perché unicamente nella verità l’amore può volere e fare il bene delle persone».

Questo comporta necessariamente, però, che la celebrazione dei sacramenti non può mai essere isolata e staccata, ma deve essere sempre inserita in una fede professata-celebrata-vissuta. Anche a questo riguardo, scrive Tettamanzi, non è mai lecito separare “ciò che Dio ha congiunto”, vale a dire la Parola, il sacramento e la vita. Di fronte a tutte le frequenti e diffuse forme di dissociazione o di sbilanciamento di questi tre elementi, la pastorale della Chiesa è nella verità solo se protegge e sviluppa la loro unità, rendendo così più fedele e feconda la sua opera missionaria.

Se la Chiesa non è legittimata a giudicare della “fede” delle persone, però «può e deve giudicare delle “condizioni necessarie” perché la persona risponda liberamente a Dio e, di conseguenza, può e deve prendere quelle decisioni operative che si rivelano coerenti e che possono comportare la non ammissione ai sacramenti»; sulla base di questi criteri, poi, il documento suggerisce con ampiezza e precisione le linee pastorali da seguire circa i sacramenti dell’iniziazione cristiana, lo “sposarsi in chiesa”, la richiesta di sacramenti nella vita di famiglia.

 

LA RESPONSABILTA’

DEI CONSACRATI

 

Il “Percorso pastorale diocesano” non parla solo della vita interna di una comunità ecclesiale, ma anche di quella esterna, vale a dire del tessuto sociale esterno con il quale la Chiesa entra in una continua interazione. Anche e soprattutto a questo livello il “caso serio” dell’evangelizzazione e trasmissione della fede «si presenta con tonalità ancora più gravi e più evidenti, perché qui l’essere cristiani e il vivere da cristiani sono messi a più dura prova»; proprio qui è facile cogliere la  “sostanziale dissociazione” tra la fede professata-celebrata-vissuta nella comunità ecclesiale e la vita quotidiana, condotta in famiglia, al lavoro o a scuola, durante il tempo libero e nel divertimento, come nei rapporti economici, sociali e politici; è inevitabile allora la tentazione, «da un lato, di rifugiarsi nel privato e di chiudersi in una spiritualità disincarnata e, dall’altro, di perdere la propria identità cristiana nei vari ambienti e nelle diverse occupazioni della vita sociale».

L’ultima tappa del “Percorso”, infine, si sofferma sulle persone chiamate ad annunciare la “buona notizia” e a trasmettere la fede; è una consegna rivolta «a tutti e a ciascuno di noi cristiani»; tutti sono chiamati ad essere veri protagonisti nella costruzione del volto missionario della Chiesa; «la missionarietà, scrive il cardinale Tettamanzi,  rientra veramente nel Dna di ogni credente». All’interno e in comunione con tutta la Chiesa, ciascuno «nella sua unicità e irripetibilità, è a pieno titolo “testimone” di Gesù»; ogni singolo cristiano «deve essere sempre cosciente che il suo compito non può essere delegato ad altri, ma deve essere assunto e vissuto come assolutamente indispensabile per il bene di tutti».

Fra le tante categorie di “operai del vangelo”, l’arcivescovo di Milano, si rivolge espressamente anche alle persone consacrate, chiamate a essere una «epifania della Chiesa nella sua tensione verso il regno di Dio»; lo sono con una loro modalità propria e distinta, quella caratterizzata  dai voti di povertà-castità-obbedienza; con questo loro modo tipico di essere e di vivere attuano la «prima forma di missionarietà», dicendo e facendo vedere «che la Chiesa è assetata dell’Assoluto di Dio, è chiamata alla santità nella radicalità delle beatitudini, è povera-casta-obbediente perché ha in Cristo  il sommo e unico bene», diventando in qualche modo un «segno di provocazione e di contraddizione vivente per la Chiesa e per il mondo».

Non solo alle persone consacrate, ma anche a tutti gli altri “operai del vangelo”, in particolare agli operatori pastorali, ai ministri ordinati, ai missionari ad gentes, si impone l’esigenza di una permanente e crescente “conversione spirituale”; solo in questo modo è possibile: sentirsi sempre e solo strumenti del Signore nella sua opera di evangelizzazione, vivere una piena comunione ecclesiale (fino ad amare “la parrocchia altrui”come la propria, la “realtà aggregativa altrui” come la propria), essere sobri ed evangelicamente poveri, come singoli e come comunità cristiana, avere coraggio, franchezza, audacia, disponibilità all’incomprensione, all’odio, all’emarginazione, al rifiuto, alla persecuzione per amore di Cristo e del suo Vangelo, vivere il mandato missionario nella gioia e nella pace del Signore.

 

 

Angelo Arrighini