EUCARISTIA
SENZA FEDELI?
Nel n. 13 di Testimoni
abbiamo pubblicato una riflessione del teologo Bruno Forte sulla celebrazione
quotidiana dell’eucaristia, anche in assenza di fedeli. Tale prassi, come è
noto, è convalidata anche dal Diritto canonico, il quale al can. 904 invita i
sacerdoti a celebrare frequentemente, anzi ad essi «raccomanda caldamente la
celebrazione quotidiana, la quale anche quando non si possa avere la presenza
dei fedeli, è sempre un atto di Cristo e della Chiesa». Questo passaggio è
citato anche dal papa nella recente enciclica Ecclesia de Eucharistia (31). Il
Codice tuttavia subito dopo sembra avere quasi un ripensamento quando scrive:
«Il sacerdote non celebri il sacrificio eucaristico senza la partecipazione di
almeno qualche fedele, se non per giusta e ragionevole causa» (c. 907).
Indubbiamente una
messa senza fedeli non deve costituire la norma, bensì l’eccezione. Ci pare
opportuno perciò integrare le considerazioni di Bruno Forte con una riflessione
che allarghi il discorso e favorisca una comprensione teologica dell’Eucaristia
più ampia e adeguata. A questo scopo intende rispondere il seguente intervento
che ci hanno inviato d. Giordano Remondi e d. Matteo Ferrari, della comunità
monastica di Camaldoli.
Sebbene all’inizio della testimonianza B. Forte affermi che la posizione espressa è derivante da convinzioni teologiche personali in piena consonanza con quelle della Chiesa, nel corso dell’articolo invece tali “convinzioni teologiche” si rivelano concretamente elementi propri di una certa “spiritualità sacerdotale” oggi ormai difficilmente sostenibile sia in riferimento all’Eucaristia in quanto tale, sia in riferimento alla comprensione teologica del ministero ordinato e alla sua storia. Senza nessuna pretesa di completezza riporto alcune osservazioni che nascono dalla lettura di questo testo.
Per quanto riguarda l’Eucaristia, essa viene ridotta ad una esigenza spirituale individuale del presbitero in forza di una sua presunta necessità di “incontro giornaliero” con il Signore, derivante dalla particolare chiamata al ministero ordinato. Naturalmente si dice anche che la celebrazione del presbitero, pur senza la presenza di nessun fedele ha un significato ecclesiale, tuttavia non si fa nessun riferimento alla “eccezionalità” e alla “problematicità” di tale circostanza. Anzi la si considera una possibilità ordinaria capace di far emergere il significato della celebrazione eucaristica, tanto quanto una celebrazione domenicale con la presenza dell’assemblea. Sembra quasi un ritorno alla teologia tridentina (o meglio post-tridentina) per la quale la “messa privata” rischiava di occupare il ruolo di “forma tipica” della celebrazione eucaristica.
È significativo innanzitutto che la celebrazione del presbitero “con la vergine Maria, gli angeli e i santi” sia messa sullo stesso piano di quella con la presenza di “qualche sparuto credente”. In questo modo al centro viene messo il presbitero come unica presenza veramente necessaria, mentre la presenza dell’assemblea, anche composta solamente dal presidente e da “qualche sparuto credente” può tranquillamente mancare, dal momento che la presenza della Chiesa celeste la “sostituisce” degnamente e il presbitero prega sempre per la Chiesa e con essa. Da questo punto di vista il nostro autore riporta una posizione a sostegno della prassi della “messa privata”, comune nel secondo millennio. Tale posizione, invece di lasciarsi interrogare dal fatto che i testi liturgici testimoniano una concezione dell’Eucaristia come fatto essenzialmente comunitario – come appare chiaramente dai testi al plurale (“noi”) e dalla presenza di “risposte” che spetterebbero all’assemblea –, per ripensare una prassi celebrativa allontanatasi da tale natura comunitaria dell’Eucaristia, cercano in una astratta idea di “comunione ecclesiale” e di “presenza spirituale” la giustificazione di questa prassi. Un fattore che può aver contribuito al nascere e che anche oggi sta alla base di una tale giustificazione della “messa privata” consiste nella scarsa rilevanza attribuita alla natura rituale dell’Eucaristia e alla ritualità in genere. Infatti è evidente che dal punto di vista rituale l’assenza di una assemblea concreta e visibile non è un fattore secondario, e anche la “presenza di Maria, degli angeli e dei santi” – per usare l’espressione dell’autore – è rappresentata, rivelata, “resa presente simbolicamente” dalla stessa assemblea terrestre, da quegli “sparuti credenti” che B. Forte considera accidentali e non necessari. L’errore sta nel ritenere intercambiabili queste “due assemblee”, senza tener presente che invece con la mancanza di “qualche sparuto credente”, nemmeno l’assemblea della liturgia celeste può essere “simbolicamente” presente. Proprio per il fatto che la natura intrinsecamente rituale dell’Eucaristia viene messa in secondo piano da una disincarnata concezione spirituale e teologica, allora la presenza di una concreta assemblea è necessariamente un fatto in fondo accidentale. Ma la celebrazione eucaristica non esiste se non come celebrazione, e quindi è dal suo “essere celebrata” che va compresa e vissuta (Sacrosanctum Concilium al n. 48 direbbe “per ritus et preces”).
La natura comunitaria e rituale dell’Eucaristia e della liturgia in genere è stata affermata dal concilio Vaticano II e dalla riforma liturgica postconciliare, che hanno riconosciuto nella celebrazione domenicale con la presenza dell’assemblea, articolata al suo interno in diversi ruoli e ministeri, la “forma tipica” dell’Eucaristia. Da questa “forma tipica” quindi dovrà partire la nostra riflessione sull’Eucaristia e non da un “caso”, che è e deve rimanere “eccezione”.
Ritornando al tema della frequenza dell’Eucaristia potremmo trovare un altro limite della testimonianza dal confronto con la quale nascono queste considerazioni. Se si prende sul serio la dimensione rituale dell’Eucaristia, si comprende che non è secondario per la “qualità” della celebrazione il ritmo temporale e quindi anche l’avvicendarsi del tempo feriale/festivo. Non riconoscere la dimensione temporale dell’Eucaristia conduce a sminuire quella medesima logica che ha portato lungo i secoli alla nascita della stessa pratica della celebrazione quotidiana dell’Eucaristia. Infatti nella prima fase della progressiva estensione ai giorni infrasettimanali della celebrazione eucaristica sembra che l’elemento determinante sia stato la necessità di dare carattere festivo a un giorno non domenicale nel quale si celebrava la memoria di un martire o qualche altra ricorrenza. L’Eucaristia era considerata come ciò che distingueva un giorno feriale da uno festivo, di conseguenza per dare carattere festivo a un giorno infrasettimanale si celebrava l’Eucaristia. Il medesimo criterio che ha portato all’Eucaristia quotidiana oggi dovrebbe farci riflettere sulla necessità di rivedere una prassi che non rispetta più il ritmo festivo/feriale essenziale alla celebra-zione. Questo ripensamento dovrebbe nascere anche dal fatto che – a differenza di ciò che sembrerebbe affermare B. Forte – il moltiplicarsi numerico delle celebrazioni di per sé non è indice della centralità dell’Eucaristia nella vita della Chiesa, del credente, dei ministri ordinati.
In generale possiamo dire che comunque la diffusione dell’Eucaristia prima ad alcuni giorni e poi gradualmente a tutti i giorni della settimana (questo processo è testimoniato dalle fonti liturgiche) non sembra derivare da una motivazione “interna” all’Eucaristia stessa, dovuta cioè alla sua intima natura che la Chiesa avrebbe progressivamente scoperto e valorizzato, ma a fattori esterni ad essa come la necessità di dare carattere festivo ad un giorno settimanale, la celebrazione numerosa e “redditizia” dei suffragi per i defunti, la devozione eucaristica.
Passando alla concezione del ministero ordinato al quale l’autore lega la necessità della prassi della celebrazione quotidiana potremmo fare le seguenti sottolineature. Innanzitutto il ruolo di presidenza liturgica del ministro ordinato (presbitero – vescovo) non è l’elemento intorno al quale costruire l’identità di tale ministero. Infatti la riduzione all’ambito liturgico-sacrale del ministero di presbiteri e vescovi è tardivo e comunque costituisce un “impoverimento” del dato neotestamentario e patristico rispetto ai ministeri. In secondo luogo, ammesso che il ruolo liturgico-sacrale sia realmente l’elemento qualificante il ministero dei presbiteri e dei vescovi, risulterebbe perlomeno strano che siano le “esigenze spirituali” dei ministri a creare il ritmo di frequenza di ciò – la celebrazione dei sacramenti e in particolare l’Eucaristia – che dovrebbe essere l’oggetto del ministero. Invece, logicamente, dovrebbe essere la natura dell’Eucaristia e, se mai, le esigenze dei destinatari del ministero (la Chiesa) a determinare la frequenza delle celebrazioni. Di fatto, anche storicamente, è avvenuto proprio così: sono state esigenze “pastorali” a determinare le varie prassi liturgiche riguardo alla frequenza dell’Eucaristia. Mutando le esigenze pastorali, può mutare anche la prassi.
Infine, tutta la “testimonianza” circa la necessaria celebrazione quotidiana dell’Eucaristia da parte del presbitero – che, come viene giustamente affermato, la Chiesa non ha mai sentito la necessità di imporre – si basa unicamente sulla ricerca di una continua comunione con la persona di Cristo che ha scelto e chiamato il presbitero. Da questa motivazione principale, anzi unica, sorgono diverse perplessità. In primo luogo, l’esigenza della comunione quotidiana con Cristo riguarda unicamente i presbiteri o i ministri ordinati in genere? Non è forse tale esigenza la fonte della vita spirituale di ogni cristiano? In secondo luogo ci potremmo chiedere se il raggiungimento della comunione quotidiana con la persona di Cristo sia perseguibile unicamente attraverso la celebrazione dell’Eucaristia e se il mistero pasquale non venga celebrato anche, ad esempio, dalla liturgia delle ore. Infine, è proprio questo tipo di vago “incontro con la persona di Cristo” il fine principale della celebrazione eucaristica?
d. Giordano Remondi e
d. Matteo Ferrari
Monaci camaldolesi