LA GRAZIA NELLA DISGRAZIA

 

La domanda rivolta da Dio ad Adamo che si è nascosto (Gen 3,9) – “Uomo, dove sei?” – svela che essa è posta a ogni essere umano, in ogni tempo e in ogni luogo. L’uomo per la sua crescita e per raggiungere l’autenticità deve ritrovare se stesso, raggiungere il proprio destino. L’uomo deve dunque fare della sua vita un cammino, nel corso del quale è possibile una unificazione di tutto il suo essere, corpo e spirito. L’uomo è infatti un essere diviso, contraddittorio e complicato, che può conoscere il miracolo dell’unificazione mettendo la propria volontà in sinergia con la forza divina che giace nelle sue profondità. Per compiere l’opera grande occorre iniziare da se stessi e raggiungere gli altri con la coscienza che un uomo autentico contribuisce alla trasformazione del mondo solo attraverso la propria trasformazione.

 

RICAPITOLAZIONE

DI TUTTA LA VITA

 

Questi concetti sono in sintesi formulati da Martin Buber, nel libretto Il cammino dell’uomo, e sono balzati alla mente nella lettura del diario del recente (dal 17/10/2001 all’8/4/2002) rapimento nelle Filippine del dehoniano p. Beppe Pierantoni.1 Confermati da Giovanni Bachelet nella prefazione: «È il cammino interiore di un uomo che, avendo da oltre vent’anni rinunciato a una famiglia propria, e da dieci anche al proprio paese, si vede all’improvviso strappare quel poco di libertà e sicurezza che gli restava… Questo evento, che all’inizio appare inutile e crudele, diventa, con l’aiuto di Dio e della sua Parola (non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male col bene), un’occasione per ricapitolare tutta la vita alla luce del Vangelo, e perfino per provare a trasmetterlo ai più lontani e disperati: agli stessi carcerieri, dei quali l’ostaggio, con una punta di umorismo, si scopre cappellano». Ma confermati anche dalla decisione dell’autore di accompagnare ogni capitolo con poesie scritte in varie occasioni della sua vita, a testimonianza di come misteriosamente sia andata crescendo in lui l’armatura utile per la battaglia spirituale.

 

Questa ricapitolazione assume molteplici forme nel racconto: tentiamo di enuclearne le principali, facendoci aiutare ancora dalla sapienza di Buber. Un maestro di Israele rimprovera il proprio discepolo di aver rischiato un’opera eccezionale con una personalità non unificata: p. Beppe rilegge i preparativi del rapimento proprio come una preparazione a un salto di qualità di tutto se stesso. Le contraddizioni personali e quelle della comunità, l’orgoglio dell’occidentale in paese di missione e le esperienze di umiliazione sono le condizioni che preparano il nostro a comprendere la “notte oscura” e il passaggio di vita richiestogli dal Signore. L’anima è realmente unificata solo a condizione che tutte le forze, tutte le membra del corpo lo siano anch’esse. E proprio il corpo appare come un soggetto trasversale a tutto il racconto: dal corpo della povera collaboratrice parrocchiale violentata da un operaio a quello espropriato di p. Beppe, dai piedi doloranti dell’ostaggio alla ricerca di un po’ di igiene nella giungla, dal ritmo veglia-sonno all’adattamento dello stomaco contratto dal nervosismo o provato dal mangiare disordinato. Un corpo che diventa tutt’uno con la preghiera e permette così di andare all’origine del conflitto tra gli uomini.

 

DAL CONFLITTO

ALLA PACE

 

Nella tradizione ebraica si dice che tutto volge al bene di chi saprà mettere in ordine tre cose: il pensiero (che corrisponde alla moglie), la parola (i figli) e l’azione (i servitori). Padre Beppe descrive il suo risentimento e i suoi sentimenti di vendetta come preliminari della scelta di accogliere la disgrazia («Forse non posso fidarmi di questa gente né di me stesso, ma so che di lui posso fidarmi… Se dicessi “si” a questa strana avventura? Se questa disgrazia che mi è caduta addosso fosse… grazia?» p. 47). I conflitti esteriori sono frutto di quelli interiori: non si può trovare la pace in altro luogo che in se stessi. Cominciare da se stessi però non significa finire con se stessi: prendersi come punto di partenza ma non come meta. Quasi in ogni tappa diventa decisiva allora la parola del Vangelo, che riaffiora allo spirito nei momenti cruciali per dare perseveranza nella prova: “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”… “Ma io vi dico di non opporvi al malvagio. Se qualcuno ti chiede di fare un miglio con lui, tu fanne anche due”… “Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?”… “Pregate per i vostri nemici e fate del bene ai vostri persecutori se volete essere simili al Padre vostro celeste che fa piovere su giusti e ingiusti”… “Un tempo, due tempi e la metà di un tempo”… “Ti ho portato su ali d’aquila”. La forza della Parola diventa strumento di pacificazione interiore al servizio del regno di Dio.

Così p. Pierantoni riesce a costruire, sia pure con codici particolari, un dialogo permanente con alcuni dei rapitori islamici: scopre la loro semplice religiosità, la loro identità di persone ferite alle quali la fede nel Corano sembra disciplinare i sentimenti, la vendetta come cartina al tornasole di una impotenza della religione a riconciliare l’interiorità. Egli non può fare a meno di notare che essi «ragionano sempre in termini di “si può”, non si può”, di “peccato, non peccato”, tirano fuori spesso e volentieri l’inferno come minaccia ed esito di scelte sbagliate. È la legge, e la giustificazione divina che ne deriva, la vera protagonista del loro sentire e agire. Sottoposti ai loro obblighi innumerevoli e a volte esigenti, i miei custodi si lasciano scappare dei “Com’è faticoso obbedire ad Allah!”, e io penso che essi, nella loro buona fede, siano più meritevoli di rispetto di quanto lo sia la loro stessa religione, che ha trasmesso loro il timore di Dio senza farlo veramente conoscere. Mi vergogno un po’ a pensarlo, ma mi sembra tanto vero: loro sono dei servi di Dio, io ne sono un figlio, perché, malgrado la mia indegnità, mi sembra che Dio si sia fatto conoscere a me molto più intimamente e io possa così permettermi di servirlo non nel timore di trasgredire, ma nella confidenza di essere da lui apprezzato e accettato in un rapporto familiare, di fiducia, con tutti i miei inevitabili errori… Io credo che Dio non giudica secondo una legge. Ne ho parlato a Samra, che ha una cultura di base sufficiente per capirmi… ho detto a lui di averlo osservato attentamente, di averlo trovato veramente sottomesso a Dio, maturo. Il passo successivo della sua fedeltà ad Allah, secondo me, potrebbe essere non più solo l’osservanza della “lettera” della legge, ma soprattutto dello “spirito” della stessa, cogliendo le intenzioni del legislatore. Samra mi ha detto di conoscere questo sviluppo morale, che loro chiamano con un termine arabo, e mi ha ringraziato di avermi detto una cosa del genere: ci penserà (p. 69)».

Pensiero, parola e azione trovano una loro alleanza che, nella gratitudine fortissima per la propria madre, si manifesta in una incredibile riconciliazione: «Per la prima volta nella mia vita mi accorgo di essere pienamente riconciliato con la mia storia e con chi l’ha popolata; mi rendo conto di aver finalmente perdonato a tutti e perfino a me stesso; di aver accettato ormai tutto con serena sottomissione… Passo dalla mia infanzia all’oggi con un senso crescente di pienezza, come un visitatore estasiato passa in stanze successive di una meravigliosa mostra d’arte: vedo difficoltà e successi, debolezze e virtù con lo stesso senso di struggente riconoscimento che il filo conduttore di ogni cosa è stata la fedeltà di quel Dio pazientissimo e umilissimo che anche oggi mi è accanto, con il quale e grazie al quale riesco ora a sentirmi finalmente in pace e a riconoscere il bene e perfino la nobiltà di un’esistenza che è stata mia e soprattutto sua. E così, esprimendo nel cuore il mio grazie più sentito a Dio e a tutti, celebro finalmente l’eucaristia nello Spirito e mi sento abbandonato a quel che verrà, con grandissima fiducia (p. 87)».

Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui ed egli stesso fu costretto a dare la risposta: “Dio abita dove lo si lascia entrare”. Così la cronaca di un rapimento di un giovane sacerdote diventa l’incoraggiamento a istaurare un rapporto santo con il mondo, anche quello dei violenti, che dal Signore ci è affidato. «Benedici, Signore, ognuna di queste creature e fa’ che nessuna vada perduta, che nessuna debba macchiarsi di delitti, che nessuna debba disperare, che tutti possiamo ritrovarci un giorno al sicuro, raccolti nel cavo delle tue mani, uniti da una comprensione profonda del mistero di te e di questa vita così drammatica e pure così straordinariamente bella (p. 117)».

 

Mario Chiaro

 

1 PIERANTONI B., Con Dio e con i guerriglieri islamici. Diario di un rapimento, EDB 2003, pp. 159, € 9,50.