A PROPOSITO DELL’ANIMAZIONE VOCAZIONALE

REALISMO NON PESSIMISMO

 

È importante che il problema vocazionale ci appaia in tutta la sua urgenza, ma pure in tutta la sua potenzialità. Abbiamo, cioè, tra le mani qualcosa di grande, di esplosivo e, nello stesso tempo, qualcosa che scotta. Occorre un discernimento alla luce dello Spirito.

 

Il tono delle riflessioni che seguiranno può apparire, forse, un po’ pessimista e negativo. Ne sono cosciente. Può apparire, quindi non è detto che necessariamente lo sia. Molto dipende dalla prospettiva nella quale ci si pone per osservare e dai desideri che abitano chi osserva. È un’opportuna precisazione.

Per quanto mi riguarda, al di là dell’apparenza (ma ciò che appare, di fatto non è), sono certo che un futuro attende la nostra Animazione vocazionale (AV) anche se non colgo con precisione come sarà. Aspettarsi un futuro è già sbarazzare il campo dalla rassegnazione. Quindi: niente pessimismo o atteggiamenti rinunciatari.

Tuttavia la tensione che accompagna queste riflessioni è particolarmente segnata dal quadro della situazione attuale nella quale si colloca.1 Un quadro (a prescindere dalle diverse opinioni e sensibilità) che è di difficile definizione. È laborioso descriverlo con precisione e con accenti, poi, rassicuranti e rasserenanti.

Questa, semplicemente, la ragione dei toni probabilmente un po’ fuorvianti.

 

Sono stato più volte invitato, da varie parti, a offrire alcune mie considerazioni da quando sono stato incaricato del settore. Ho sempre, in qualche modo, dilazionato questo appuntamento. Ammetto di nutrire ancora qualche resistenza a operare serenamente su un punto della situazione e, insieme, a elaborare delle strategie cui farvi eventualmente fronte. Per svariate ragioni. Tra le quali, per esempio: avere una buona comprensione dell’AV e dei problemi che essa produce e ad essa collegati (buona significa non impressionistica e neppure sbrigativa); la necessità di operare un’accurata analisi della situazione e degli obiettivi che si vogliono perseguire; la necessità di riorganizzare dei riferimenti precisi per l’AV (persone, metodologie, strumenti, strutture...); la necessità di sintonizzarsi con l’impianto formativo della provincia circa la pianificazione del discernimento vocazionale e la sua finalizzazione; la necessità di porre le basi per una stabilità e una continuità all’AV; l’opportunità di costituire dei rapporti dialettici, collaboranti e responsabilizzanti, ove possibile, con le varie comunità; la necessità di lavorare non in solitudine ma in comunione...

Come si può notare, anche se solo parzialmente accennate, sono solo alcune (non tutte) delle ragioni che esigono una buona ponderazione e che necessitano un lavoro attento e scelte appropriate. Ognuna delle ragioni indicate, per esempio, richiederebbe di essere motivata e approfondita e, forse, anche dibattuta. L’analisi comporterebbe un continuo confronto e riferimento alla prassi del passato e alle concrete possibilità che l’attuale situazione determina e provoca; un lavoro che, necessariamente, ci condurrebbe davvero a impegnativi e corposi approfondimenti.

Ho optato, quindi, per una libera riflessione. La libertà di movimento mi permette, da una parte, di trasmettere il background dal quale originano le considerazioni sull’AV e, dall’altra, alcuni convincimenti di cui mi sono fatto persuaso. Solamente poche idee.

 

 

 

 

 

ALCUNE

LIBERE RIFLESSIONI

 

È importante, per me, che il problema vocazionale ci appaia in tutta la sua urgenza, ma pure in tutta la sua potenzialità. Abbiamo, cioè, tra le mani qualcosa di grande, di esplosivo e, nello stesso tempo, ci troviamo tra le mani qualcosa che scotta.

Non è il caso, qui, di tormentarci sulla responsabilità che ci accomuna in questa realtà attraverso il nostro impegno e la nostra testimonianza. Lo si è fatto fino allo sfiancamento e nonostante ciò le ricadute sulla prassi non sembrano aver prodotto e produrre grandi risultati. È il caso, invece, di prendere coscienza che abbiamo a che fare con qualcosa di veramente unico, i cui risvolti possono produrre imprevedibili sorprese.

La presa di coscienza comporta la disponibilità a capire, abbandonando per un momento le nostre precomprensioni sull’AV, e creare la necessaria apertura per immaginare delle possibilità (ancora in embrione) che l’AV, come tale, può suscitare, per verificare, poi, l’ipotesi di un loro sviluppo e compimento.

L’AV sta attraversando, ormai da qualche decennio, una cronica difficoltà ad esprimersi con efficacia. La problematicità di tale perdurante situazione ci è ampiamente consegnata da quella che io considero la sapiente riflessione vocazionale operata in questi anni nella Chiesa.

 

Una difficoltà, comunque, che è speculare, a mio avviso, della generale situazione che stiamo vivendo. A tutti i livelli. Ma principalmente nelle componenti fondamentali della nostra esperienza di consacrazione: comunità, carisma, missione.

È ormai un dato assodato un po’ in tutti gli istituti che l’AV sia una realtà alla frontiera. È la più esposta. È la prima, vale a dire, a manifestare i sintomi di crisi, perché essa è, per sua natura, un po’ il termometro della vita religiosa.

 

Altre attività ministeriali si possono continuare a esercitare, senza mai porsi il problema della loro necessità in ordine al senso. Il problema si pone, di fatto, solamente quando non c’è più materia prima da investire: le risorse umane. È ciò che è accaduto progressivamente negli ultimi 20 anni e che ora avvertiamo in maniera drammatica.

Invece, l’AV è messa subito in crisi, quando non sa più essere attrattiva. Perché è continuamente messa in discussione dal senso della sua offerta. Quando, cioè, il prodotto da offrire non è più così facilmente proponibile. Quando, in altre parole, si è messi direttamente in contatto con questo prodotto. Un prodotto, fino a qualche anno fa, abbastanza generico e forse sconosciuto (per l’AV). È il cambio di utenza che ha prodotto e produce continuamente questa presa di coscienza.

Fino a 20 anni fa, alle spalle dell’AV c’erano i seminari. C’era una organizzazione, cioè, che faceva da supporto e da finalizzazione. Quella era la proposta! Al di là di ogni pia considerazione, di fatto, quella era la realtà, il contenuto.

Oggi – ma ormai da un po’ di anni – il “dietro” dell’AV è, potremmo dire, il carisma vissuto e la fraternità in modo diretto. Il termometro dice che questo “dietro” non è poi così attraente.

Il problema non è anzitutto tecnico-strumentale. Ossia: come si deve fare l’AV, ma il cosa della AV, e poi, il chi, prima del come.

Per chi si è cimentato alcuni anni in questa attività vocazionale (direttamente o indirettamente), appare ovvio considerare l’AV come un passaggio di comunicazione tra due ambiti: il dentro (la vita religiosa camilliana) e il fuori (i giovani potenziali destinatari di una proposta).

Che cosa si porta fuori da dentro ? Che cosa si porta dentro da fuori ? Non è una banalizzazione, è tutto qui!

Il prodotto da offrire, noi sappiamo, ha in sé idealmente una sua validità, ma il portarlo fuori (l’AV) costringe, a differenza del passato (i seminari), a confrontarsi immediatamente con le sue incarnazioni. Dietro l’AV ci deve essere necessariamente una realtà viva, creativa, di carisma vissuto. Non si scappa! Altrimenti ci si trova nella scomoda situazione di barare, ovvero di proporre ciò che non sempre esiste, ma che sarebbe bello che esistesse.

Anche per i seminari era ovviamente presente questa preoccupazione, ma è da ingenui non cogliere il differente impatto che questa nuova mediazione oggi pone.

 

IL RISCHIO

DELL’ASSUEFAZIONE

 

Può sembrare un’affermazione abbastanza affrettata. Ma costringe a non eludere il grosso problema nel quale viviamo da decenni: quello della vita religiosa in difficoltà (in generale), quello della vita religiosa camilliana in difficoltà (nel particolare).

Il primo grosso problema da affrontare addentrandosi nella realtà dell’AV, credo sia proprio fare i conti con questa difficoltà. Un problema, purtroppo, dato per acquisito e scontato e, forse, mai praticamente affrontato. A furia di sentirne parlare di questa crisi e difficoltà della vita religiosa; a furia di rispondere, forse, in maniera inadeguata e fuorviante alle emergenze che la crisi ha prodotto e continuamente propone, si è finiti per assuefarsi alla situazione.

Il problema, invece, va riproposto in tutta la sua drammaticità e in tutta la sua urgenza. E prima di escogitare soluzioni (le più disparate), va guardato bene in faccia per giungere, forse, a dire: “io sono quel problema!”; “quel problema mi appartiene!”; “è mio e mi riguarda!”.

Ho la sensazione che l’assuefazione, a cui ho fatto accenno, non ci permetta oggi di fare obiettive e rigorose analisi della situazione, e ci tolga quella necessaria lucidità per cogliere possibilità di vita per il futuro. Il nostro futuro.

L’AV sta facendo, oggi, i conti con questa situazione. La sua difficoltà attuale (di identità, di struttura, di strategie, di politica, di propositività...) è speculare, ancora, della gestione talvolta superficiale con cui si è affrontato e si affrontano i problemi posti dalla crisi.

Provo, per un attimo, a entrare nel merito, anche solo sommariamente, di queste difficoltà della nostra vita religiosa, per legittimare l’affermazione precedente. Accanto ai sintomi più noti, quali la persistente crisi vocazionale, il conseguente invecchiamento e la sempre più accentuata difficoltà a mantenere in vita opere e attività, siamo costretti a entrare, oggi, in contatto con degli elementi che oramai segnalano un diffuso malessere. Elementi che venivano considerati fino a ieri dei disagi puramente individuali, ma che oggi è da miopi ritenerli casi isolati, oppure eccezionali.

Per esempio: la difficoltà a trovare persone disposte ad assumersi ruoli di responsabilità/autorità; il diffuso individualismo nel gestire la propria vita e la propria attività, con la conseguente chiusura e difesa nel proprio ambito di lavoro; l’atteggiamento di fuga nei ruoli e nelle specializzazioni; la ricerca di riferimenti spirituali, tipica di qualche anno fa, fuori della comunità o dell’istituto (gruppi e movimenti ecclesiali...), e oggi, il solipsismo spirituale: ovvero l’assenza di una sua condivisione; la ricerca di riferimenti affettivi fuori della comunità (gli amici sono sempre fuori, mai dentro!); la visione negativa e pessimistica del mondo d’oggi (quante arringhe alle nostre tavole sul mondo cattivo?); le lacerazioni interne ormai generalizzate (non si va d’accordo!). Insieme a questi disagi è ormai diffuso, credo, in molte comunità il fenomeno della depressione. Intesa, sia chiaro, come assenza di passione, con segnali evidenti di sciopero affettivo e conseguenti solitudini.

Altri fenomeni presenti in modo significativo: la rigidità mentale, l’intransigenza, la sostanziale indisponibilità a qualunque forma di cambiamento e, persino, di guarigione, come auspica l’ultimo capitolo generale quando parla di “comunità sane e sananti” (nn. 32-37).

Non sembrino esagerazioni. Basterebbe che un superiore verificasse (nella sua comunità) con l’elenco dei religiosi in mano, quanti di essi sono di fatto disponibili a un significativo cambiamento in relazione all’evoluzione dei tempi. E poi, sempre parlando di superiori (e noi con loro), il fenomeno dello sdoppiamento: l’essere, cioè, completamente assorbiti a tamponare falle, emergenze e, nello stesso tempo, a essere obbligati a sviluppare progettualità apostoliche, ministeriali.

Insomma, è da questa complessità sintomatologica (in verità solo abbozzata) che prendiamo le mosse, da cui partiamo, quando ci immergiamo nel variegato mondo dell’AV. Sapendo che, ma è persino banale affermarlo, senza cambiamento la situazione non matura, non si sviluppa e sapendo poi che non tutti i cambiamenti sono di per sé validi.

 

IL PRIMO IMPEGNO

È CAPIRE

 

Capire cosa sta succedendo, identificare le cause che hanno portato alla situazione che viviamo e saper individuare elementi di vita per il futuro. Le “possibilità” a cui accennavamo.

Il quadro delle difficoltà è, comunque, ancora più complesso e frantumato di quello che appare. Possediamo ormai una produzione bibliografica consistente e di qualità che ci aiuta a coscientizzarci, a riflettere, a non evitare i problemi. Mi riferisco al bagaglio sapiente del magistero della Chiesa e degli organismi ecclesiali preposti all’AV nella comunità cristiana.

Entrare in sintonia con questa produzione, può significare, per esempio, fermarsi. Fermarsi a capire, a capirsi, senza farsi imbrigliare dalla pressione di esibire qualcosa. Far vedere, cioè, che qualcosa si fa: iniziative, proposte, stratagemmi per intercettare un’utenza che ci sfugge.

L’esperienza ci dice che di fronte ai problemi, il desiderio immediato è quello di saltare al punto successivo. Si ricorre, in altre parole, a una specie di fuga nella risposta, si ricerca una sbrigativa via d’uscita, la prima che si presenta, pur di avere l’impressione di un movimento, dello sblocco di uno stato di paralisi.

Ecco, quindi, l’insistenza sul concreto, sul fare, sul decidere prima ancora di aver ben capito che cosa sta realmente accadendo. Ossia: che cosa... il Signore ci sta chiedendo attraverso queste difficoltà?

Questa domanda l’ho sentita emergere spesso, anzi sembra un ricorso rituale, quasi rubricale, ma non mi pare che, in questi anni, si sia saputo o voluto rispondere.

Le tentazioni che accompagnano i nostri discorsi abituali, quelli che si fanno nella quotidianità e non quelli istituzionali (relazioni, riunioni, assemblee), segnalano, a mio avviso, un’assenza di calzante risposta. Le tentazioni sono, per esempio, le preoccupazioni eccessive sui numeri, dure a morire. L’ansia da numero, tra l’altro, conduce fatalmente a fare sconti sulla qualità delle nuove vocazioni e adottare criteri piuttosto approssimativi nel discernimento vocazionale-formativo. Poi, la preoccupazione, per la verità un po’ meschina, per il risultato “a tutti i costi” che scatena una sorta di caccia alle vocazioni, di AV mercantile. È allarmante che si ricominci a parlare di reclutatori, purtroppo non sono più solo singole opinioni isolate. Altra tentazione dura a morire, è quella onnipresente dell’efficientismo. Il bisogno di farsi trovare là dove sono puntati i riflettori dell’attenzione pubblica. Scovare areopaghi fertili da cui attingere per rinfoltire le fila...

Sono convinto che non esista oggi una lettura seria, critica, rigorosa del passato. Ne abbiamo bisogno. Anche e soprattutto una lettura critica del passato della nostra AV.

Un ambito in cui occorre fare unità (integrazione) è quello delle nostre esperienze vocazionali del passato recente, ma io direi anche delle nostre esperienze formative del passato recente, alle quali l’AV è strettamente collegata.

In altre parole, occorre un quadro ermeneutico che spieghi su quali traiettorie si viaggiava, se tali traiettorie erano “unitarie”, oppure dispersivo-spontanee. Dove hanno portato quelle scelte?

Vita fraterna in comunità, del 1994, fa una buona analisi su alcuni equivoci post-conciliari, e costituisce una buona base di partenza per tale verifica del passato. Altri approfondimenti offrono alcuni pregevoli schemi interpretativi che si possono riassumere in una successione di modelli a cui si è fatto riferimento nel recente passato: modello autoritario? modello democratico? modello basato sui valori?

Non è perdita di tempo l’indagine sugli eventuali errori, allucinazioni, illusioni vocazionali/formative del passato. Se non si riconoscono i propri errori si è destinati a ripeterli.

 

L’ANALISI

PUNTO DI PARTENZA

 

L’indagine, la lettura critica, può fornire una base conoscitiva dell’attuale realtà. Un’analisi che non può essere superficiale e sommaria, ma deve servire come punto di partenza in ordine a ogni tipo di programmazione.

Il pericolo non è marginale: come nel passato (anni 1970) c’è stata difficoltà nell’impatto fra il modello democratico e quello autoritario, così si può prefigurare oggi un nuovo contrasto fra il modello democratico imperante e la comunità impostata sui valori. A maggior ragione per il fatto che si tratta di passare da una vita forse comoda a una più impegnata. Certo, ci sarà il problema, ancora una volta, della educazione, formazione a questo salto di qualità.

Infatti, possono apparire e suonare come un ritorno al passato le eventuali proposte che si profilano con l’assunzione, per esempio, del modello basato sui valori. Concretamente: un ritorno all’osservanza, alla obbedienza...

Questa manovra larga (la lettura attenta e conseguente scelta del modello di riferimento) non è una perdita di tempo, ma una necessità. Altrimenti si crea uno scollamento deleterio ai fini della testimonianza tra l’AV e vita reale. Quello che dicevamo prima: proporre ciò che non sempre esiste ma che sarebbe bello che esistesse.

Affermare una superficialità nella gestione delle difficoltà è senza dubbio un’esagerazione. Ingeneroso nei confronti di chi ha dovuto operare delle scelte. Ma la forzatura è volutamente indicativa dei rischi a cui ci esponiamo se prescindiamo da alcuni opportuni passaggi.

A me pare che senza una base conoscitiva dell’attuale realtà della provincia e dei suoi problemi, si continui a interpretare la realtà ciascuno a modo suo.

Così c’è chi nega o rimuove i problemi. Semplicemente i problemi non esistono. Sembra sia un peccato mortale il solo pensarli. Quanti religiosi con gli occhialini rosa? Quel vedere a tutti costi la realtà che viviamo con i contorni sempre soft e idilliaci, mi fa pensare più che a un ostinato ottimismo, a un serio problema di percezione distorta. È vero che la realtà la si può leggere anche con le lenti scure e opache del pessimismo malato, ma ciò a cui mi riferisco è a letture davvero incomprensibili.

C’è poi, chi presume di risolvere i problemi rimovendone i sintomi. Si sta alla superficie senza fare la fatica di andare a vedere perché si sono create certe condizioni.

Ho l’impressione che dietro alcune scelte spesso non ci sia una vera riflessione sulle ragioni che hanno generato la situazione attuale.

C’è una sorta di intestardimento a mantenere il quadro della situazione inalterato. Ma la maggior parte dei problemi comunitari e di ministero non ha soluzione se il quadro di riferimento rimane immutato.

Rimuovere i sintomi dei disagi, in modo sbagliato (nella mentalità, prima che nella prassi), significa non essere disposti a cambiare le regole del gioco. Mentre occorre mutare le regole in tutti gli aspetti-chiave della vita religiosa camilliana: dalla scelta dei poveri alla vita comunitaria; dalla spiritualità al rapporto con il mondo; dalla riscoperta della dimensione relazionale e affettiva dei rapporti alla capacità di progettazione comunitaria...

Con le vecchie regole del gioco, non si esce dalle difficoltà e dai problemi.

C’è poi, un altro modo di interpretare i problemi. È quello della ricerca del colpevole. Operazione più diffusa di quanto si creda, anche perché spesso non è sempre cosciente, ma è comunque rassicurante. Imputare, cioè, le responsabilità ad altri. Quanti poveri provinciali additati come la causa di tutti i mali? Si è trovata una vittima sacrificale sulla quale scaricare il peggio che viviamo.

Si può cadere poi, inevitabilmente, in alcuni pericoli dai quali è difficile sentirsi immuni. Quello, per esempio, di insegnare agli altri come dovrebbero essere, che cosa dovrebbero fare, per far andare meglio le cose di tutti.

In genere, le argomentazioni che si portano sono ineccepibili, dal momento che si muovono per lo più su dati reali, oggettivi, e a partire, anche, da valori riconosciuti. Però, spesso, si tratta di elementi veri ma parziali, selezionati in base alle tesi da sostenere o alle antitesi da controbattere.

Sempre nella linea della ricerca dei colpevoli, spesso si parte dal presupposto che gli altri rappresentano un pericolo o una minaccia per la loro posizione o per l’esperienza che fanno. C’è davvero un atteggiamento diffuso di cui è bene prendere coscienza ed è un sintomo della difficoltà e del problema che sto cercando di abbozzare: la sfiducia e il sospetto dilaganti.

La rigidità, l’indisponibilità all’incontro, la polemica a distanza, sono segnali chiari che viviamo in un clima di sfiducia e di sospetto.

C’è poi, la personalizzazione dei problemi, che non aiuta a interpretare le difficoltà e a gestirle adeguatamente.

Si guarda, cioè, a chi, per esempio, segnala o denuncia un problema e non alla sostanza del problema. Insomma, si concentra l’attenzione sulle persone che diagnosticano i problemi, e non sui problemi stessi.

Là dove prevalgono gli atteggiamenti difensivi e gli aspetti emotivi, è difficile interpretare i fatti, le difficoltà, in modo serio e intelligente.

C’è una cosa che particolarmente mi colpisce, da un po’ di tempo, quando mi ritrovo a leggere i documenti ecclesiali. Mi riferisco a un vezzo che sembrano assumere e al quale fanno sempre più frequentemente ricorso. È in modo positivo che lo segnalo. Quello, cioè, di interpretare la stessa situazione in maniera ambivalente. Tutto dipende dalla prospettiva con cui guardiamo alla stessa realtà. Mi riferisco a slogan del tipo: “dalla paura alla speranza”; “dalla nostalgia alla profezia”; “dal disagio alle opportunità”; “dall’emergenza alla progettualità”... È una modalità diversa di concepire, osservare, interpretare e quindi decidere, analizzando la realtà che viviamo. Collocandoci in una situazione, oppure in un altra. La gestione delle difficoltà ha la possibilità di collocarsi, allora, in una posizione, oppure in un altra.

Di fronte alle difficoltà è un rischio volerne uscire in fretta. Ci hanno sempre insegnato che i momenti di crisi rappresentano spesso delle importanti opportunità educative. Io credo che, forse, la voglia di formule risolutive, di facili soluzioni ci possa esentare ad andare in profondità.

È ovvio che non si può rimanere inerti e passivi. Ma, ancora una volta, non si tratta di ricorrere a un fare agitato, bensì di cogliere... il punto di vista di Dio sulla situazione. Senza dimenticare che c’è un “passaggio” da operare: da...a.

 

È UNA QUESTIONE

DI FEDE

 

È una grande operazione quella di cogliere insieme il punto di vista di Dio sulla nostra esperienza, sulla nostra vita, sul nostro futuro.

Ma è anche fede, il realismo della diagnosi, l’attenersi fedelmente ai dati, l’osservare con attenzione i sintomi. È fede, anche, quella di non scappare in situazioni illusorie. È fede, anche, il non rifugiarsi nel cinismo dilagante a casa nostra che si traduce nel tiriamo a campare. È fede, la consapevolezza che non si può non scegliere chi vogliamo essere e dove vogliamo andare.

Se ci troviamo in situazione di povertà di persone, di idee, di mezzi, non possiamo semplicemente sperare in interventi magici, né tanto meno illuderci di fare qualcosa senza sapere cosa e perché. La trasformazione della realtà avviene sempre con l’iniezione di qualcosa di nuovo. E per lasciare spazio al nuovo, è necessario tagliare qualcosa.

L’AV, qui, gioca una grande opportunità. Se essa è il termometro della situazione, come abbiamo segnalato, possiamo anche interpretarla e gestirla in altra maniera. Ossia: come consulente importante, proprio per la sua posizione di privilegio nell’avvertire per prima e in maniera più dirompente, come vanno le cose. E, soprattutto, la verità delle cose. Essendo la più esposta (proprio perché propone, offre, si espone) è quella che fa per prima il discernimento di qualità del prodotto.

Voglio dire, che è l’AV quella che fornisce la direzione verso cui andare; deve essere, cioè, lungimirante, far spingere in avanti lo sguardo della provincia.

È solamente una crisi vocazionale (lo dice l’esperienza) che può, in qualche modo, scardinare il meccanismo di una gestione inadeguata della prassi religiosa, e costringere le comunità a riproporre a se stesse, non più, o non tanto, i problemi di gestione o di amministrazione, ma le questioni di fondo della sua presenza ministeriale e carismatica.

Intravedo un paradosso. Ed è quello con cui convivo da un po’ di tempo. Provo ad esprimerlo in questo modo: l’AV è in crisi? Questa è una situazione da portare ancor più all’esasperazione. Mi spiego. L’incapacità dell’AV di esprimersi in attività, iniziative, per le parziali ragioni a cui abbiamo fatto accenno, è e può diventare uno stimolo, una provocazione a fare della sua incapacità il terreno da cui trarre intuizioni, segnali, orizzonti da cui partire...

D’altra parte, quando mai troveremmo il coraggio del cambiamento, se non vivessimo la sofferenza e la crisi? È un insegnamento della Scrittura. Il successo è infatti, di per sé, conservatore: “L’uomo nella prosperità non comprende” (Sal 49). Spesso la sofferenza è l’unico mezzo di cui il Padre dispone, per farci capire che ormai è ora di cambiare strada.

 

DALLA CRISI

AL CAMBIAMENTO

 

Il paradosso a cui mi riferisco è che l’AV in crisi può diventare matrice di cambiamento. La sua situazione problematica (specchio di tanti problemi) deve portare a prendere coscienza che, sia sotto il profilo individuale, sia sotto il profilo comunitario, il passaggio chiave si ha quando, il presente che viviamo viene riconsiderato e reinterpretato da naturale punto di arrivo del passato, a possibile punto di partenza per il futuro. Un futuro pieno di incognite e di incertezze.

Non si tratta, ovviamente, di un’operazione puramente tecnica, ne tanto meno la si ottiene a furia di articoli e documenti. È, invece, un autentico cambio di mentalità. Si tratta di pensare le nostre cose in maniera diversa. Anziché pensare in termini di passato, dobbiamo pensare in termini di futuro. Non è così semplice.

Ma perché questa svolta avvenga, pare necessario ricorrere ad almeno due condizioni, che nel dibattito sulla vita religiosa ritornano con una certa frequenza. Le due condizioni si pongono insieme e non separate. Sono: mettere tutta la provincia in stato di formazione (va cioè ri-formata), e ristrutturare in generale (cioè tutte!) le comunità, tutte le opere e tutte le attività. È questa, ovviamente, una provocazione, ma è difficile immaginare un’AV operativa, efficace, senza questa previa condizione e presupposto. Detta così sembra una cosa impossibile. Ma se andiamo a vedere il n. 13 del documento Nuove vocazioni per una nuova Europa, 1997, al punto c, ci accorgiamo che il salto di qualità, auspicato per la pastorale delle vocazioni, non fa altro che sintonizzarsi con la messa in atto della condizione e del presupposto che qualifica il cambiamento. Si parla di: esigenza di un cambiamento radicale, salto di qualità, sussulto idoneo; che non sono una reazione a una sensazione di stanchezza o di sfiducia per i pochi risultati, nemmeno sono un invito a rinnovare semplicemente metodologie o recuperare energia ed entusiasmo. Ma segnalazione che l’AV è giunta a un nodo storico, a un passaggio decisivo. Si dice: c’è stata una storia, con una preistoria e poi delle fasi che si sono lentamente succedute, lungo questi anni, che ora devono necessariamente cambiare. Si tratta di comprendere, ancora una volta, la direzione che Dio sta imprimendo alla nostra storia, oggi dinanzi a un crocevia decisivo. C’è tutta una serie di “se” (del passato) e di conseguenze (per il futuro), che giustificano questa operazione (riformazione/ristrutturazione) a prima vista impossibile, ma determinante per le difficoltà e per i problemi avvertiti.

Può sembrare un azzardo, mi rendo conto, questa visione dell’AV. Sto, infatti, riflettendo liberamente, ma non per questo distrattamente. Non ho voluto entrare nel merito di nessuna prassi vocazionale sperimentata nel passato, nel recente e nell’oggi. Sono consapevole che si dovrà necessariamente affrontare anche questa operatività. Mi premeva, invece, un approccio all’AV e ad alcuni dei suoi problemi per segnalarne, come dicevo, la sua urgenza e la sua potenzialità.

Non è una mia originale idea quella di concepire e considerare l’AV come segno e strumento del rinnovamento della vita consacrata. Già 15 anni fa, p. Cencini la proponeva e la segnalava attraverso i suoi contributi come efficace veicolo di cambiamento.2 Era un modo davvero singolare, ma estremamente coinvolgente di considerare l’AV una leva potente per il rinnovamento. Ma lo è ancora.

La vita consacrata è chiamata a indicare la strada, a essere profezia nei confronti della storia e del mondo. Allo stesso modo, l’AV è chiamata a essere profezia nei confronti della vita religiosa. Deve, cioè, diventare segno e strumento del rinnovamento (o cambiamento) in atto o da attuare, quasi anticipandolo, provocandolo in qualche modo, annunciandolo con chiarezza ed energia.

Questo può avvenire, in concreto, quando essa si adegua, nella prassi e nei contenuti della sua proposta, a un nuovo modello di vita consacrata. Quello basato sui valori, per intenderci. Se è profezia, l’AV, significa che nella sua interpretazione di consulente privilegiato, offre o è chiamata a offrire i criteri di discernimento. Quando infatti il discernimento è condotto alla luce dello Spirito, è sempre profetico. Discernimento e profezia sono inscindibili, l’uno conduce l’altra, o, se vogliamo, la profezia è il coraggio di non fermarsi nelle varie fasi del discernimento di fronte ai suggerimenti dello Spirito, ma di portare il discernimento stesso alle sue estreme conseguenze, all’operatività, senza accontentarsi della riflessione.

Profezia è correre il rischio di giungere a certe conclusioni; rischio motivato, non avventato, proprio perché frutto di ascolto dello Spirito, ma sempre rischioso ed esigente una certa dose di audacia.

Allora, l’AV diviene profezia d’una nuova vita consacrata quando corre il rischio di non cercare più se stessa e il compimento dei suoi progetti, ma di lasciarsi condurre da Dio aprendosi a nuove possibilità.

Vedere le cose in questa prospettiva, concepirle in questo modo, vuol dire darsi un volto nuovo, un nuovo modo di definirsi, non più ripiegato su di sé e sui propri interessi (più o meno legittimi), ma orientato a condividere la sua ricchezza, a renderlo davvero accessibile, fruibile.

 

COME FARE

TUTTO QUESTO?

 

Ecco, finalmente il fare. Con precisione non lo so ancora. So però che sarà un cammino faticoso, forse lungo e soprattutto un cammino comune.

È evidente che la piega che hanno preso queste considerazioni suggeriscono un’azione eminentemente all’interno della nostra fraternità. Ma è riduttivo pensare che l’AV abbia questa esclusiva responsabilità. Quella cioè di volgersi ad animare o rianimare la coscienza vocazionale di chi è già da tempo consacrato. È certamente un suo dovere che deve accompagnarsi a un sano realismo. Fatto di attenzione, di rispetto. Rispetto che è saper vedere l’impegno, la dedizione, il sacrificio, la passione che abitano le nostre comunità. Insieme alle domande, le preoccupazioni, i desideri, le fatiche e le sofferenze. È realismo pure saper andare oltre un malinteso rispetto dietro il quale si sono purtroppo nascoste tante incapacità a correggere fraternamente, tante incapacità a sentirsi responsabili del bene altrui, tante incapacità a fare la verità, tante incapacità a difendere un dono che abbiamo ricevuto e che abbiamo il dovere di vivere in pienezza.

Chi non riconosce, onestamente, il bisogno di mutare volto alle nostre comunità, ai nostri servizi, alle nostre relazioni, ai nostri attuali modelli, è necessario che entri in dialettica e in un fraterno confronto con questo modo di concepire l’AV.

Alcuni anni fa mi è capitato di condividere con il provinciale di allora un sogno che avevo, certamente non compiuto e appena abbozzato, circa la prospettiva da offrire a una nostra comunità in evoluzione. Ho fatto l’esperienza, insieme ad altri, della realizzazione di quel sogno, oltre le mie aspettative.

Il sogno che oggi vivo (non ho smesso di sognare) è quello di vedere la nostra AV dotarsi di due caratteristiche peculiari: che sia, cioè, un’AV ribelle e un’AV follemente audace. Ribelle, perché lotta e si oppone contro uno status quo. Inventa la realtà, non la prende come viene. Follemente audace, perché si azzarda a fare l’impossibile. Chissà!..

 

Gianluigi Valtorta, camilliano

 

1 L’autore, in queste riflessioni pubblicate su Vita nostra, bollettino della provincia camilliana lombardo-veneta (n. 241, gennaio-marzo 2003), a cui lo stesso autore appartiene, si riferisce in particolare alla situazione della sua provincia, ma la riflessione che propone vale per qualsiasi istituto, dal momento che la realtà è praticamente la stessa ovunque.

2 CENCINI A., Vocazioni, dalla nostalgia alla profezia. L’Animazione vocazionale alla prova del rinnovamento, EDB, Bologna 1989.