P. TADDEO GABRIELI UCCISO IN BRASILE

“FRATE CON LA TUTA”

 

Una vita donata per i più deboli, per i più poveri. La sua missione era una sfida; le sue iniziative nascevano in ginocchio. Muore per strada per mano di una persona che aveva tentato di aiutare a uscire dall’alcolismo e dalla droga.

 

Durante lo scorso mese di luglio, mentre la gente era distratta dalle ferie, non ha avuto quasi nessun risalto sulla stampa, fatta qualche eccezione, la notizia dell’uccisione del missionario cappuccino p. Taddeo Gabrieli. Ma la figura di questo coraggioso testimone di Cristo e fratello dei poveri non deve essere sepolta nel silenzio, come una qualsiasi notizia di cronaca. Affinché ciò non avvenga pubblichiamo qui il profilo che ci ha cortesemente inviato il vescovo di Cesena-Sarsina, Lino Garavaglia, anch’egli dell’ordine dei cappuccini, e suo amico personale.

Sabato 19 luglio u.s. il missionario cappuccino p.Taddeo (Pietro) Gabrieli, da 48 anni in missione – prima 5 anni in Eritrea e dal 1961 in Brasile, nello stato del Maranhao – è caduto vittima di un pregiudicato che si era fermato a soccorrere mentre tornava dalla celebrazione dell’Eucaristia, nel centro della città di Imperatriz.

Un missionario che per una vita intera ha saputo spezzare con i fratelli il pane del sudore e della speranza, maestro e compagno inseparabile di viaggio nell’affermazione della “buona notizia”.

Padre Taddeo Gabrieli è stato un missionario che non si può facilmente dimenticare per la cordialità austera del suo stile, la sua infaticabile disponibilità a ogni bisogno, la sua opera instancabile di evangelizzazione. Nella sua azione missionaria privilegiò sempre le opere di amore e di carità, convinto che quella era la strada per penetrare i cuori; nella sua azione, l’annuncio della parola di Dio era accompagnato da un attento interessamento ai bisogni e alle necessità di una promozione umana e sociale per una vita dignitosa della gente a cui era mandato.

Si occupava della famiglia, della formazione dei giovani, della salvaguardia dei diritti dei lavoratori della terra, della promozione di una coscienza di cooperazione e condivisione.

 

HA FATTO

DELLA VITA UN DONO

 

Entusiasta e ottimista per temperamento ha fatto della sua vita missionaria un dono cristiano di aiuto e formazione, perché la vita delle famiglie fosse onesta e dignitosa.

La sua missione fu, da sempre, un campo di frontiera; la sua azione pastorale era dentro la storia della sua gente; la croce fu il modello di riferimento centrale della sua azione.

Ebbe decisione nelle scelte intraprese, coraggio negli ostacoli, fiducia nell’affermarsi della dignità dell’uomo, sfida, in favore dei più poveri, ai potenti e ai prepotenti. Dedicò la sua azione missionaria particolarmente ai senza voce che vivono senza terra, senza casa, senza futuro; ha lavorato per creare nei giovani una cultura radicata nel Vangelo.

Sapeva che l’impegno sulla frontiera della giustizia è sempre provocazione all’umano egoismo.

Era un pastore, non un mercenario. Di molti era diventato amico e ammirato perché genuino, di alcuni avversario. Questi erano i potenti e i prepotenti.

“Frate con la tuta” veniva chiamato. Sotto quella “tuta” batteva un cuore profondamente sacerdotale, ispirato alla purezza del Vangelo, nel carisma francescano. Ha lavorato, ogni giorno, in modo instancabile, perfino umanamente “imprudente”, nella prudenza del Vangelo, per dare agli umili un messaggio di speranza e di giustizia. Ha saputo mediare, nella sofferenza della sua gente, senza rinunciare mai a far sentire la voce del Vangelo. Sapeva che le azioni e le parole di Cristo vanno tenute saldamente insieme. Sapeva che l’impegno della carità nella giustizia è sempre provocazione.

Nel suo lavoro missionario ispirò tanti progetti di comunità agricole tra gruppi di famiglie. Lottò per la restituzione di terre ai contadini; per un lavoro a decine di famiglie di campesinos ispirò cooperative.

 

UNA MISSIONE

CHE ERA UNA SFIDA

 

Per le tante attività quotidiane intraprese, la sua missione era sempre a rischio; era sempre una lotta con molte fatiche e solitudini. La sua missione fu condivisione e comunione per un orizzonte veramente innovativo. Chi stava con lui non era più quello di prima, voleva inculturare il Vangelo.

Di fronte all’ingiustizia, indignarsi non bastava; bisognava “fare”.

Si trattava non solo di portare un aiuto, ma di restituire dignità e speranza. Mobilita le coscienze, diventa un uomo di azione.

Così, come ogni profeta, ha dato fastidio a chi non voleva cambiare, a chi voleva dominare. Per lui era un problema di fede, convinto come era che la prima forma di evangelizzazione è la testimonianza. Era convinto che nella azione missionaria non è lecito stemperare le esigenze del Vangelo.

Padre Taddeo ha vissuto la sua lunga vita missionaria (1955-2003) con “passione” nel senso etimologico del termine: “patire con”; guardare il volto indigente rispettarlo, comprenderlo, accarezzarlo. Non con una mano, ma con una presenza che si fa carico dell’altro.

La tragica morte di p. Taddeo lo ha rivelato a molti, ma ha rivelato anche che dietro c’era una vita intera donata.

Alto come un giocatore di basket, forte e atletico come la gente della sua Valseriana, si è fatto piccolo e vicino per servire e annunciare il Signore.

I confratelli missionari si sono chiesti più volte perché assumesse impegni così gravosi e coinvolgenti. Lui rispondeva: «…ho maturato uno sguardo diverso della realtà che ci circonda… mi sento debitore verso gli ultimi… devo aiutare… mentre annuncio il Vangelo».

Una vita donata per i più deboli, per i più poveri. Uno stile di vita improntato alla vicinanza. Non aveva paura di nulla per il bene della sua gente. La sua missione era una sfida; le sue iniziative intraprese nascevano in ginocchio.

Muore per strada per mano di una persona che aveva tentato di aiutare a uscire dall’alcolismo e dalla droga.

Padre Taddeo non poteva che morire sulla strada. Instancabile era tra i poveri, per i loro diritti, per le loro famiglie, per la terra da dove ricavano il pane per i loro figli. Assumeva le conseguenze del Vangelo nella vita di ogni giorno.

Un uomo austero fino alla durezza con se stesso che si faceva vicino e tenero con ogni bisogno. Lo chiamavano il “frate con la tuta” per la sua vicinanza, ma, i poveri sapevano anche che ad ogni spuntar del sole, prima di ogni lavoro, padre Taddeo sostava a lungo accanto all’altare del Signore. Alimentava così il suo lavoro.

Mi aveva scritto, anni fa: «…dovunque la Provvidenza ci manda c’è un inginocchiatoio». Era il suo programma di vita…la forza del suo lavoro missionario. Non gli importava “aver ragione” o “vincere”, bensì servire il prossimo.

La sua decisione di far predominare l’amore, con la scelta della giustizia, della consapevolezza, della disponibilità di fronte agli interessi meschini e ciechi dei singoli o dei gruppi di potere, far predominare l’amore piuttosto che l’egoismo.

Ora ci ha lasciati, ma la sua memoria difficilmente può essere dimenticata e la sua lezione di missione-carità resta un tracciato che non si può disattendere.

Essere missionari significa seguire il Signore, andare dietro a lui comporta partecipare alla sua missione, scoprirsi apostoli del suo amore. Uomini capaci di essere testimoni della propria fede, facendosi vicini a chi è ultimo, testimoniando il senso cristiano della vita. Così si diffonde il Vangelo!

È l’immagine che ci lascia padre Taddeo, carissimo fratello nostro, missionario infaticabile, morto una sera d’estate rientrando da un servizio pastorale.

 

Lino Garavaglia,

vescovo di Cesena-Sarsina