COMUNITÀ E CAMMINI DI FORMAZIONE

MATURITÀ E IMMATURITÀ

 

La persona si realizza, vale a dire raggiunge la sua piena maturità, in quanto si pone in rapporto con gli altri e con un Altro assoluto. L’individualismo invece la blocca nel suo pieno sviluppo e la ferma a uno stato di “infantilismo”. Quale il compitodella comunità?

 

 

Una domanda forse strana e persino paradossale e provocatoria: la comunità di vita consacrata, così com’è strutturata, favorisce e promuove la maturità umana nel religioso oppure la intralcia e la blocca?

La risposta, in linea di principio, non può che essere positiva: la vita consacrata richiede, dal punto di vista della formazione umana, un cammino di formazione del carattere, un percorso culturale di vario livello, ma comunque di una certa intensità, e un continuo contatto e confronto con altre persone. Tutte circostanze e situazioni che danno la possibilità e i mezzi per formare un individuo sia sotto il profilo personale che comunitario.

Dal punto di vista spirituale non possiamo dimenticare la grazia di Dio, che educa anche il cuore e la mente, e i momenti canonici destinati alla preghiera, all’ascolto e alla meditazione della parola di Dio che costellano la vita quotidiana del consacrato. Quindi, in linea di principio, il religioso possiede gli strumenti umani e spirituali per costruirsi una personalità matura.

Ma, in pratica, è così? Non ne siamo del tutto sicuri. Naturalmente la colpa non è degli strumenti in se stessi, ma della loro non valorizzazione da parte del religioso, il quale, però, è portato spesso a non crescere dalla struttura stessa della vita comunitaria, che può permettere, a chi non ha il senso della comunione che essa richiede, di rimandare agli altri responsabilità e impegno.

Le riflessioni che seguono non intendono essere né assolute né inconfutabili. Anzi si vorrebbe fossero frutto di impressioni affrettate e limitate. Invece temiamo, sulla base di esperienze personali e dell’incontro con varie comunità maschili e femminili che possano rispecchiare una realtà molto diffusa.

Ma che significa maturità umana? Ci limitiamo a questo aspetto, però ben consapevoli che la maturità spirituale non si può costruire sulla mancanza di quella umana e che non si può scindere l’unità della persona. Una sintesi dei suoi requisiti e dei suoi connotati, tanto per comprendersi.

«La personalità matura è quella che ha superato il prevalente riferimento a se stessa, estendendosi alla comprensione degli altri e partecipando attivamente alla loro vita, con un rapporto affettivo di intimità e di rispetto». E ancora. « La personalità matura ha una conoscenza del mondo realistica, che è in grado di trattare con impegno efficiente nel suo lavoro, riferendosi a dei principi di condotta, a dei valori direttivi, dei quali uno ha il posto dominante».

La maturità umana è «il raggiungimento della pienezza di tutte la facoltà fisiche, psichiche, intellettuali, spirituali, ben armonizzate e integrate tra loro». E integrazione «significa armonia all’interno della personalità tra desideri, passioni, tendenze, propositi».1

Questi rapidi cenni sono sufficienti per illuminare alcuni ambiti che definiscono e rivelano la maturità umana. Su questi ambiti solo alcune pennellate, con riferimento alla specificità della vita comunitaria religiosa.

 

MATURITÀ

NELL’ESSERE

 

Raggruppiamo il discorso attorno ad alcuni campi che appaiono fondamentali e che a loro volta comprendono altri settori facilmente deducibili e comprensibili. Il punto di partenza e centrale prende in esame, come raccomandano tutti i documenti del magistero, l’essere del religioso e della comunità.

Relazione, comunicazione, dialogo

È noto che la più accreditata antropologia del nostro tempo, tra l’altro largamente mutuata dalla concezione biblica, vede la persona umana come un essere aperto all’altro, un essere comunicante e dialogico. Il genuino concetto di persona non è l’uomo individuo del liberalismo né l’uomo-massa del comunismo, ma l’uomo-in-relazione sia con Dio sia con l’altro essere umano.

La persona si realizza, vale a dire raggiunge la sua piena maturità, in quanto si pone in rapporto con gli altri e con un Altro assoluto. Creato come relazione con Dio, con la natura e con l’altra parte di se stesso, uomo–donna, redento e salvato dalla relazione con Cristo, l’uomo è costituzionalmente “rapporto con”. Diceva già il filosofo Fichte: «Soltanto nelle relazione con l’altro l’uomo giunge a essere uomo», a essere se stesso nella piena realizzazione del proprio essere. In tale concezione è possibile creare quella trama relazionale che è alla base di ogni autentica vita comunitaria e fraterna.

Invece in una concezione individualistica, magari non espressamente conclamata, ma effettivamente vissuta, si mette l’accento sulla distinzione, sulla divisione, con attenzione eccessiva alla coscienza di se stessi e con la tendenza all’estraneità alle problematiche degli altri.

Ed è proprio l’individualismo uno dei virus letali delle comunità religiose, come il magistero degli ultimi anni non si stanca di denunciare. Si rivela in tanti modi nella vita consacrata, frutto subdolo di gran parte della cultura di oggi: rinuncia ad entrare realmente, al di là dell’accettazione di principio, nel progetto comunitario; primato dato sempre alle proprie occupazioni; disinteresse, al di là di una cortesia pro forma, alla vita degli altri; scelta personale del proprio ministero; rifiuto a comprendere nel vivo la finalità dell’opera e quindi riluttanza a viverla con gli altri. E altri modi che ogni comunità può individuare facilmente.

In questa situazione è chiaro che all’interno della comunità non vi può essere vera comunicazione e dialogo, che dipendono nella loro verità profonda dall’antropologia che si vive. Se si comprende l’uomo come semplice individuo la comunicazione risulta qualcosa di accidentale, di aggiunto; se invece lo si interpreta come essere relazionale la comunicazione e il dialogo diventano elementi fondamentali dell’essere e dell’agire umano e tanto più della comunità religiosa, che su tali elementi si costituisce e si fonda per natura.

La comunicazione non è una semplice trasmissione di dati e di conoscenze, come troppo spesso nelle comunità, quando avviene, ma una dinamica di condivisione di esperienze e di vita, il fare partecipe di un dono mio un’altra persona che mi risponde con un dono suo, in uno scambio nel quale sono coinvolte le rispettive personalità, divenute mature nella relazione condivisa.

Se la persona si realizza in quanto tale nella relazione, nella comunicazione, nel dialogo, l’individualismo, così insistentemente segnalato come il cancro delle comunità, la blocca nel suo pieno sviluppo e la ferma ad uno stato di “infantilismo”, nel quale prevale, come nei bambini, la ricerca del proprio interesse, del possesso esclusivo e geloso di un prodotto, di un giocattolo.

Responsabilità, corresponsabilità

Ogni comunità umana può raggiungere le sue finalità soltanto se le persone che la costituiscono ne condividono i progetti e si impegnano ad attuarli con il loro contributo e in sintonia con gli altri componenti: vale a dire se si sentono responsabili verso la comunità e se si sentono tutti corresponsabili del volto che intendono fare assumere ad essa, con l’apporto di tutti.

Le comunità di vita consacrata non possono sfuggire a questa legge, come invece purtroppo si osserva spesso. Le diverse concezioni antropologiche vissute, sopra delineate, che portano all’ individualismo o alla condivisione, si pongono alla radice della presenza o meno della responsabilità e della corresponsabilità nella vita comunitaria.

Essere responsabili vuol dire sentire la comunità e la sua opera come propria, per scelta e per vocazione; significa avvertirne i problemi, i successi e le difficoltà sentendosi coinvolti fino in fondo; non porsi in un isolamento affettivo che la fa guardare come un qualcosa che non ci riguarda personalmente; non coltivare il proprio particulare al di fuori del progetto comunitario; vuol dire fare il possibile per fare fiorire la finalità dell’opera. Comporta considerare i beni della comunità come cosa di tutti, da rispettare e da usare con attenzione e secondo necessità, non in modo spensierato e con leggerezza (intanto qualcuno pagherà). Davanti a certi allegri modi di considerare i beni della comunità, il pensiero corre spontaneamente a tante famiglie che in modo maturo e responsabile gestiscono le loro risorse. La disinvoltura in questo campo rivela una delle più frequenti estrinsecazioni di non maturità dei religiosi e di carenza di responsabilità personale.

Essere corresponsabili comporta il sapere mettersi in relazione con gli altri, l’agire insieme per la realizzazione dell’opera, sapere creare, perché si partecipa alla sua vita, nuovi orizzonti alla comunità, sentita come “casa propria” e non come una prigione, ove naufragano i propri interessi, o come un albergo dove vivere senza sentirsi effettivamente parte della famiglia.

L’uomo maturo sa di essere in una rete di rapporti sociali che esigono non soltanto il rispetto dei propri diritti da parte degli altri, ma anche la manifestazione dei propri doveri verso la collettività; sa che vivere nella società richiede un comportamento etico rispettoso delle ricchezze (materiali, spirituali, culturali) delle persone e le condivide e le accresce.

 

MATURITÀ

NELL’OPERARE

 

L’immaturità dell’essere non può che ripercuotersi nell’agire del religioso, a vario titolo e livello.

Servizio, missione

La mancanza di capacità relazionale e di responsabilità porta alla personalizzazione eccessiva della vita e dell’apostolato. Infatti conduce a proclamare, certo non con le parole, ma con l’agire, ben più eloquente di ogni discorso, che la comunità “sono io” e che al di fuori delle “mie visioni” di obiettivi e itinerari non vi sono strade e traguardi possibili. Genera anche il rifiuto degli altri o addirittura ostilità nei loro riguardi se non rientrano, come “sudditi”, nel “mio” progetto.

In questa prospettiva, tutt’altro che infrequente la missione della comunità risulta frammentata, e non, come dovrebbe, diversificata nell’unità del progetto e percorsa da particolarismi che impediscono ogni condivisione di esperienze e frenano ogni programma comunitario.

Il volere condurre avanti ad ogni costo e senza minimamente collegarsi con gli altri il proprio punto di vista richiama da vicino il comportamento del bambino che vuole soddisfare un suo capriccio. Ma nel caso del bambino, appunto perché bambino, l’atteggiamento è comprensibile.

La voglia di protagonismo, figlio e nello stesso tempo padre dell’individualismo e compagno della personalizzazione, relega il progetto della comunità, la sola deputata a essere visibile nell’evangelizzazione e nel carisma, alla marginalità, all’inefficienza, alla paralisi. E questo al contrario di quello che può apparire a prima vista e di quello che il religioso stesso intende e crede.

La carenza di rapporti comunicativi genera afasia di comunione, di testimonianza, di efficace missione. Crea una comunità di “bambini”, ognuno intento al suo giochino.

Professionalità

Sappiamo quanta importanza oggi – ma non solo da oggi – la Chiesa attribuisce alla necessità di essere in sintonia con la cultura contemporanea, non certo per condividerla in tutte le sue espressioni, ma per conoscere la mentalità del mondo che si è chiamati ad evangelizzare. La formazione del religioso è costantemente richiamata quale componente essenziale della sua personalità, sempre in sviluppo, e fondamentale per il suo essere e per il suo operare. Una formazione che implica un aggiornamento delle proprie conoscenze, un’attenzione alle nuove acquisizioni, una revisione delle proprie convinzioni, un confronto critico con le espressioni culturali, un ascolto delle indicazioni del magistero. E la capacità di rapportarsi con la comunità per una serena discussione sui principali temi che riguardano la missione.

Ora si assiste non di rado alla cristallizzazione della formazione culturale del consacrato: l’angolazione delle vedute recepite decenni fa non si discute; i giudizi su problemi espressi anni addietro non si toccano; le etichettature su tematiche acquisite da certe letture passate non si cambiano. Oppure non si accettano discussioni perché si resta irremovibili sulle proprie scelte, considerate le uniche possibili.

In ambedue i casi l’atteggiamento è di stizzito isolamento, che non favorisce certamente la maturazione della personalità, che può derivare soltanto dalla disponibilità di rimettersi in discussione, come sa fare ogni persona che riconosce di non essere mai perfetta. Senza contare che tale chiusura impedisce anche la ricezione delle ricchezze del magistero, di rado non letto, quando non snobbato. Il tutto conduce al “riciclaggio del saputo”, al progressivo impoverimento della propria personalità, alla comunicazione povera del messaggio evangelico.

In conclusione: là dove non c’è, nel singolo e nei membri tutti, la “coscienza della comunità” non vi è maturità, perché – come si diceva all’inizio – non vi sono persone che si aprono alla comprensione degli altri, che comunicano le proprie esperienze, che vivono nel valore dominante della comunione, che entrano in relazione con gli altri nella quotidianità dell’esistenza, che dimenticano se stesse per mettersi al servizio del prossimo.

 

Ennio Bianchi

1 ZAVALLONI R. Maturità spirituale in Nuovo Dizionario di Spiritualità, Paoline 1979.