RAPPORTO PROGRAMMA ONU PER LO SVILUPPO

ROVINOSA MARCIA INDIETRO

 

Il Rapporto dovrebbe essere oggetto di lettura e di studio da parte di noi religiosi e missionari. Esso viene ad aprirci gli occhi sulla sorte del mondo e soprattutto sulla condizione disperata di tanti, troppi, nostri fratelli e sorelle “per i quali Cristo è morto”, direbbe Paolo (1Cor 8,11).

 

Lo scorso 8 luglio è stato pubblicato il Rapporto sullo sviluppo umano preparato dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP/PNUD). Non è probabilmente una lettura spirituale nel senso classico del termine e non è certamente agevole come la biografia di un santo, ma dovrebbe essere oggetto di lettura e di studio da parte di noi religiosi e missionari. Questo genere di documenti è sempre molto interessante per conoscere la situazione mondiale in riferimento allo sviluppo dei popoli. Esso viene ad aprirci gli occhi sulla sorte del mondo e soprattutto sulla condizione disperata di tanti, troppi, nostri fratelli e sorelle “per i quali Cristo è morto”, direbbe Paolo (1Cor 8,11).

Quello di quest’anno ci porta una constatazione molto amara e sconfortante, che tuttavia è bene che sia conosciuta, per non rischiare di cullarci nelle illusioni e per spingere il mondo, e noi stessi, a vedere quello che possiamo fare per ovviarvi. Per molti paesi in via di sviluppo gli anni ‘90 sono stati una specie di «Caporetto» delle speranze legate ai progetti di sviluppo. Invece di crescere nello sviluppo economico e sociale, parecchi paesi poveri in questi anni stanno facendo una rovinosa marcia indietro. Non è una affermazione che sorprende molto chi ha una qualche dimestichezza con i paesi in via di sviluppo. Il Rapporto UNDP ci dice che molti di essi, in questi anni recenti, hanno subito una battuta d’arresto nel loro sviluppo. E in un mondo che cresce a velocità vertiginosa nel campo della tecnica, della comunicazione, dell’industria e del commercio, non tenere il passo significa rimanere irrimediabilmente in dietro in modo sempre più pericoloso e dannoso. Quando poi in molti di questi paesi si aggiungono anche i conflitti politici o etnici, allora la situazione può diventare catastrofica e compromessa per sempre. 

Il Rapporto UNDP 2003 prende in esame 174 paesi del mondo dal punto di vista dell’aspettativa di vita (ossia della lunghezza della vita, un fatto che dipende dalla politica sanitaria e sociale), dell’istruzione e alfabetizzazione e del reddito pro capite e li ha divisi in tre categorie, quelli ad alto, a medio e a basso sviluppo umano. Nella prima categoria si trovano 55 stati, il primo dei quali è la Norvegia, seguita da Islanda, Svezia, Australia e Olanda, l’ultimo di questa categoria è il Messico. L’Italia si trova al 21° posto dopo Austria, Francia, Germania, Spagna e Nuova Zelanda. Del secondo gruppo (quelli a medio sviluppo) fanno parte 85 stati. L’ultimo gruppo, che comprende i paesi a basso sviluppo umano, vede un elenco di 34 paesi che si trovano tutti in Africa, meno quattro: Haiti, Yemen, Pakistan e Nepal. Di essi l’ultimo è il Sierra Leone preceduto da Niger, Burkina Faso, Malì, Burundi, Mozambico, Repubblica Democratica del Congo, Tchad, Malawi, Rwanda, Nigeria, Uganda e altri fino al Cameroun che è in testa alla fila, il meno peggio dei sottosviluppati.

Nel corso di questi ultimi dieci anni, 21 di questi paesi (quasi tutti dell’Africa sub-sahariana) hanno subito un tracollo della situazione sociale ed economica mai visto. Nel decennio precedente (ossia negli anni ‘80) in questa condizione si erano trovati solo 4 stati, mentre gli altri bene o male potevano dire di essere ancora in via di sviluppo. Dopo la fase positiva dello sviluppo che, grosso modo, corrisponde al decennio degli anni ‘70, è seguito un altro decennio (gli anni ‘80) caratterizzato da un certo rallentamento e poi da un blocco dello sviluppo. Ora siamo a una fase di stanca ormai consolidata che investe tutti i paesi poveri, ma che per quei 21 paesi ha assunto l’aspetto di un blocco quasi definitivo.

Gli organismi di volontariato e le organizzazioni non governative (ONG) sembrano battere il passo, molti di loro hanno fatto i bagagli e sono rientrati a casa. La ragione è semplice: gli aiuti allo sviluppo che ricevevano dai loro governi e che negli anni 1970-80 erano consistenti, sono andati progressivamente diradandosi fino a cessare. Le cause di questo fenomeno sono molteplici: l’inaffidabilità dei governi e la corruzione dei governi dei paesi in via di sviluppo, spesso anche la situazione di insicurezza di questi stati che spesso sono coinvolti in guerre infinite, ma anche la recessione economica mondiale che ha investito i paesi del mondo occidentale nel corso degli anni ’90. Non è estranea a questa battuta d’arresto degli aiuti la svolta a destra delle politiche europee e occidentali che si ripiegano su se stesse estraniandosi dai problemi dei paesi poveri, fino al giorno in cui questi toccano gli interessi immediati. È esemplare in questo il recente viaggio americano di George W. Bush lo scorso luglio. Che cosa l’ha portato in Africa? La preoccupazione di aprire l’Africa ai prodotti geneticamente modificati (OGM) e il problema del terrorismo internazionale, due problemi interni degli USA.

 

BISOGNA RIFARE

IL PATTO DEL MILLENNIO

 

Il fallimento della stagione dello sviluppo (per questo ho usato l’espressione «Caporetto») e delle buone intenzioni di quel «Patto del Millennio» che era stato sancito nel settembre 2000 al vertice dell’ONU per lo sviluppo del mondo, che si proponeva di dimezzare la povertà nel giro di dieci anni, e riconfermato ad Evian lo scorso giugno dal G8, esige che si riveda il «Patto del Millennio». Oggi, secondo il recente Rapporto del UNDP del 2003, ci sono ancora 59 paesi che rimangono sulla lista dei paesi che attendono di essere urgentemente aiutati con interventi di sostegno. È vero che il Rapporto UNDP menziona una serie di paesi che sono riusciti a rimontare posizioni nella lista dei paesi poveri del rapporto precedente: in particolare ricorda il Benin, il Ghana, il Mozambico, l’Isola Mauritius, il Rwanda, il Senegal e l’Uganda in Africa; in Asia il Bangladesh, la Tailandia, il Laos, la Malesia, il Nepal; e in America Latina il Brasile, la Bolivia e il Perù.

Ma l’emergenza dei paesi poveri continua e si aggrava: un miliardo e mezzo di persone vivono ancora con meno di un dollaro al giorno, il che equivale alla povertà e alla miseria; 800 milioni di persone (il 15% della popolazione mondiale), soffrono effettivamente (non è un modo di dire o una pia esagerazione) la fame, mentre in altre parti del mondo si devono distruggere derrate alimentari che non corrispondo alla programmazione. Ci sono ancora 115 milioni di bambini che non accedono alla scuola elementare, 500.000 donne che ogni anno muoiono di parto o di gravidanza, 14 milioni di orfani dell’AIDS (sono cifre dell’anno 2001 destinate a essere raddoppiate entro il 2010), 1 milione e mezzo di persone muoiono di malaria per mancanza di cure minime e di medicinali che sono inaccessibili alle loro possibilità economiche. E queste non sono che alcune coordinate dei problemi della povertà del mondo che dovrebbero risvegliare l’attenzione anche se non esauriscono l’informazione.

 

PROPOSTE

DEL RAPPORTO

 

Che cosa possiamo fare? Il Rapporto UNPD suggerisce di ritoccare il «Patto del millennio» in vista di dimezzare queste cifre della morte entro il 2015, ma il rapporto stesso prevede che non sarà possibile «se le tendenze attuali verranno confermate in Asia meridionale e in Africa sub-sahariana». Afferma anche che l’obiettivo del «Patto del millennio» ritoccato può essere realizzato a due condizioni: che i paesi poveri mettano in atto quelle riforme strutturali interne che sono necessarie per rimettere in ordine i diversi paesi e permettere loro di produrre e, seconda condizione, che le nazioni ricche rispondano alle sollecitazioni dell’UNDP dando il loro aiuto per i paesi poveri con generosità e non solo a parole o per far bella figura, come è stato in occasione del G8 di Genova. Sono necessarie delle nuove norme che regolino l’attuale politica commerciale dei paesi ricchi per permettere che i prodotti delle nazioni in via di sviluppo possano entrare nei circuiti del commercio mondiale senza essere messe fuori gioco dalle nazioni ricche.

Sono quattro i suggerimenti concreti e praticabili che formula il Rapporto del UNDP e sono altrettante sfide lanciate ai paesi ricchi. 1) Togliere i dazi sull’importazione dei prodotti dei paesi in via di sviluppo ed eliminare le misure protezioniste offerte ai produttori dei paesi ricchi. 2) Cancellare l’insostenibile debito estero continuando il cammino intrapreso in occasione dell’inizio del millennio, ma che sembra essere andato nel dimenticatoio e che, in ogni caso, procede con grande, troppa, lentezza. 3) Permettere che gli aiuti dei paesi ricchi giungano ai paesi poveri vegliando che questi aiuti vadano realmente agli obiettivi che sono stati dichiarati e non finiscano invece a sostenere le spese di guerra e la corsa agli armamenti. Oggi gli aiuti al Terzo Mondo sono ovunque in costante calo e siamo ancora lontani dal raggiungere la cifra fissata dalla conferenza di Monterrey del 2002 (100 miliardi di dollari all’anno). 4) Aprire ai paesi poveri l’accesso alla tecnologia e alla ricerca. Oggi, infatti, il 90% della ricerca farmacologica si concentra sui problemi sanitari del 10% della popolazione del mondo, e là dove si muore di AIDS, di malaria, di TBC, di meningite la popolazione non ha modo di avere i medicinali che sono e rimangono inaccessibili per le tasche della gente comune. I paesi poveri non hanno ancora accesso ai farmaci salvavita più elementari.

 

POVERTÀ

PROBLEMA POLITICO

 

L’ha detto l’amministratore dell’UNDP, Mark Malloch Brown. Niente di più vero. Si tratta di un problema che viene lasciato incancrenire per mancanza di volontà politica o per interessi di tipo politico, mentre la povertà potrebbe essere affrontata e risolta, se ci fosse la volontà politica di farlo e se si riuscisse a mettere da parte gli interessi privati delle grandi compagnie, dei singoli stati e dei governanti. A detta del redattore del Rapporto, Jeffrey Sachs, se da parte delle nazioni ricche si riuscisse a fornire un impegno reale e concertato si potrebbe arrivare a debellare la povertà «nell’arco di una generazione».

Non è sufficiente fornire assistenza in occasione delle emergenze, anche se questa non deve venir meno. Bisogna che ci sia un programma di lotta alla povertà e che si stabilisca una scala di priorità nello sviluppo da seguire nella fase di esecuzione. Bisognerebbe, per esempio, vedere se allo scopo di debellare il sottosviluppo non sia più efficace costruire delle scuole elementari dappertutto piuttosto che concentrarsi nella moltiplicazione delle università, se è più efficace creare occupazione nelle industrie tessili e manifatturiere prima di mettersi a spendere capitali nelle perforazioni petrolifere, se è meglio moltiplicare i centri si salute nelle zone rurali piuttosto che concentrare delle cliniche specialistiche nelle città; così come sarebbe necessario convincersi che è meglio spendere per la salute dei cittadini che per rinforzare l’esercito, ecc.

 

E NOI RELIGIOSI

E MISSIONARI?

 

Lavorare per lo sviluppo dei popoli è una grossa responsabilità per tutti noi cittadini del mondo globale. Ce lo ha detto Paolo VI in Populorum progressio e ce l’ha ripetuto Giovanni Paolo II in Sollicitudo rei socialis. Oggi lo sviluppo deve essere sentito come una dimensione globale del mondo. Non basta che cresca e si sviluppi l’uno o l’altro stato e non possiamo permettere che esistano e persistano delle sacche di sottosviluppo all’interno dei paesi e tra paese e paese. Lo sviluppo, come la globalizzazione, deve essere cercato in solidarietà. Noi religiosi e missionari dovremmo ritrovare la passione per questo settore. Oggi che l’evangelizzazione non soffre più le tensioni e i contrasti della fine degli anni 1970 e 1980 tra evangelizzazione e promozione umana, oggi che tutti comprendono che lo sviluppo è un dovere di ogni cristiano iscritto nella stessa evangelizzazione, dobbiamo far rinascere la voglia di lavorare affinché il regno di Dio si dispieghi in tutta la sua estensione e profondità. È un impegno che, se disatteso, dovrebbe impedirci di dormire sonni tranquilli.

A noi incombe un doppio compito, quello di coscientizzare chi è vittima delle ingiustizie strutturali del mondo globale là dove lo sviluppo deve mettere radici, ma anche (e forse più) l’impegno di tenere viva in mezzo ai paesi ricchi la sensibilità per lo sviluppo e la virtù della solidarietà. Non possiamo accettare che il mondo per una guerra spenda senza battere ciglio somme astronomiche (65 miliardi di dollari per la guerra dell’Irak!) e che destini alla ricerca spaziale cifre altrettanto incalcolabili, dimenticando quei paesi dove la miseria continua a mietere vittime. Non può non venire alla memoria l’ingenua, ma evangelica, richiesta di Raoul Follereau che negli anni 1960, in piena guerra fredda, chiedeva ai grandi della terra un missile per debellare dal nostro mondo la lebbra.

Per tutte queste ragioni il recente Rapporto 2003 UNDP potrebbe e dovrebbe essere un provvidenziale campanello d’allarme per noi abitanti dei paesi ricchi, e una sana, ancorché impegnativa, lettura spirituale per noi religiosi, che attualizzi la nostra fede e il nostro impegno di cristiani consacrati per il regno di Dio. Questo, vale la pena ripeterlo spesso perché siamo un po’ tutti malati di spiritualismo disincarnato, non è una realtà che si realizzerà fuori della storia o alla fine della storia, ma una realtà che si trova già tra di noi e attende di essere promossa da tutti coloro che si dichiarano discepoli di Gesù Cristo.

 

Gabriele Ferrari s.x