P. SORGE RILEGGE “RIPARTIRE DA CRISTO”
UNA SANTITÀ PIÙ AUTENTICA
Si deve assolutamente
evitare la vera sconfitta della vita consacrata, che non sta nel declino
numerico, ma nel venire meno dell’adesione spirituale al Signore e alla propria
vocazione e missione. Perseverando fedelmente in essa, si confessa invece la
propria ferma fiducia nel Signore della storia.
La Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica ha pubblicato un documento dal titolo: Ripartire da Cristo (2002). È una rilettura, una sorta di “traduzione per la vita consacrata” della lettera apostolica di Giovanni Paolo II Novo millennio ineunte (2001), un documento bellissimo, che ci accompagnerà per lungo tempo.
Ripartire da Cristo si compone di quattro parti. Dice fin dall’inizio che i padri della plenaria non hanno inteso riprendere un’analisi della situazione, fatta già molte altre volte. Il punto di partenza, quindi, è un altro. È un invito ai consacrati e alle consacrate a puntare soprattutto sulla spiritualità.
Nella prima parte la Chiesa esprime gratitudine e piena stima alla vita consacrata. Ne sottolinea l’aspetto profetico. La vita consacrata, per il solo fatto che c’è, raggiunge il suo scopo; ha un valore specifico: è la testimonianza del Regno che viene. Per cui se, per ipotesi in una diocesi o in una parrocchia è presente un istituto di vita consacrata, per il solo fatto che esiste compie già il suo mandato. Tuttavia, in una pastorale d’insieme, gli istituti di vita consacrata non possono esimersi dal collaborare con la chiesa locale. Già il concilio ha insistito sulla necessità di questo stretto rapporto. Su questa prima parte del documento noi non ci soffermeremo, sia perché è materia già trattata altre volte, sia per mancanza di tempo.
Nella seconda parte i padri affrontano le difficoltà, le prove, le sfide a cui i consacrati oggi sono sottoposti; e invitano a scorgere in queste sfide una nuova opportunità per riscoprire in modo più profondo il senso stesso della vita consacrata. Noi dedicheremo l’attenzione soprattutto a questa seconda parte.
Nella terza parte il testo contiene l’appello a un rinnovato impegno nella vita spirituale, ripartendo da Cristo nella sequela evangelica. Anche su questa parte non ci soffermeremo, per le medesime ragioni per le quali sorvoliamo sulla prima parte del documento. Basti dire soltanto che questo, però, è il punto fondamentale. E, poiché lo abbiamo nel cuore, sono sicuro che esso trasparirà da tutto il nostro discorso, anche senza riservargli uno spazio particolare.
Nella quarta parte, infine, il documento si propone di accompagnare le persone consacrate sulle strade del mondo, dove Cristo si è incamminato per primo e oggi è presente, dove la Chiesa lo proclama “unico Salvatore del mondo”. Questa quarta parte, in certo senso, segnerà l’orizzonte delle nostre riflessioni.
Dunque, del documento Ripartire da Cristo esamineremo insieme la seconda e la quarta parte, relative alle difficoltà della vita consacrata e alle prospettive di rinnovamento e di crescita che, nonostante tutto, esse presentano.
DIFFICOLTÀ
DELLA VITA CONSACRATA
Il documento Ripartire da Cristo nella sua seconda parte parla delle difficoltà e delle prove che la vita consacrata in certo senso è costretta a subire all’interno della trasformazione epocale in cui ci troviamo. Guardate – dice in sostanza il testo – che le prove attuali non sono un guaio, ma un dono. Sono una opportunità nuova per riscoprire il senso della nostra consacrazione a Cristo.
Di queste difficoltà ne esamineremo due che ci toccano più da vicino: 1. la crisi delle vocazioni e l’invecchiamento delle nostre comunità; 2. le tensioni che il nostro tempo trasferisce all’interno della
vita consacrata.
La crisi delle vocazioni e l’invecchiamento
Afferma il documento: «La diminuzione dei membri in molti Istituti e il loro invecchiamento, evidente in alcune parti del mondo, fanno sorgere la domanda se la vita consacrata sia ancora una testimonianza visibile, capace di attrarre i giovani. Se, come si afferma in alcuni luoghi, il terzo millennio sarà il tempo del protagonismo dei laici, delle associazioni e dei movimenti ecclesiali, possiamo domandarci: quale sarà il posto riservato alle forme tradizionali di vita consacrata?» (RdC 12).
La vera domanda, in realtà, è un’altra: che cosa ci chiede il Signore con questa crisi? Se fosse in difficoltà solo l’uno l’altro istituto, si potrebbe dire: «I membri di quell’istituto non sono fervorosi, hanno mancato di fedeltà al loro carisma. Il Signore li punisce». Il problema è che tutti gli istituti religiosi classici, maschili e femminili, si trovano in questa medesima ambascia. Come negare, a questo punto, che vi sia dietro il dito della Provvidenza? Quando si verifica un fenomeno ecclesiale di tali vaste proporzioni, non possiamo non chiederci: che cosa vuole il Signore? perché ci sta purificando così?
Vi espongo una mia tesi, che ha il valore che ha; ed è questa: il Signore, attraverso la crisi presente, sta chiedendo alla vita consacrata un salto di qualità.
Leggendo la storia della Chiesa ci si accorge che la vita consacrata, prima del concilio di Trento, era praticamente solo vita monastica. Numericamente ristretta. Dopo il concilio di Trento c’è stata un’effusione dello Spirito Santo che ha dato vita a grandi Istituti di vita attiva, a una vera e propria vita consacrata di massa. Si sono formate numerose comunità, anche di 100 persone ciascuna, impegnate nella vita di servizio ai poveri, nelle missioni, con gli ammalati.
La vecchia forma monastica non è certo scomparsa, ma si è purificata. Sono rimasti il carmelo, i benedettini, i cistercensi… numericamente ridotti, ma rinnovati e riformati qualitativamente.
Ebbene, oggi stiamo vivendo una crisi analoga. Prima del concilio Vaticano II°, se un giovane o una ragazza volevano consacrarsi a Dio, non avevano altra scelta: o prendere il cordone o prendere il velo. I laici poi pensavano che la santità stesse nel partecipare all’una o all’altra spiritualità, espressa dai diversi istituti religiosi: domenicana, francescana, carmelitana…. Oggi ormai, grazie soprattutto al concilio e al movimento laicale, si è compreso che esiste una spiritualità laicale specifica, per cui uno può farsi santo, senza necessariamente aderire a un terz’ordine religioso (anche se ciò può sempre essere di grande aiuto spirituale). Di conseguenza, si sono moltiplicati gli istituti e le società di vita apostolica, i cui membri vestono in borghese, fanno i voti, sono veri consacrati ma vivono nel mondo.
Questa valorizzazione della vocazione laicale nella Chiesa è un grande bene, una crescita. La rivalutazione del laicato è un segno di maturità, che ha accompagnato la crescita della Chiesa da “clericale” e “società perfetta” a una coscienza più profonda di essere il “popolo di Dio”. La vita consacrata nelle sue forme classiche certamente non sparirà, ma sembra ormai superata la forma degli istituti religiosi di massa. Oggi si richiede a ciascuno di vivere il proprio carisma in un modo qualitativamente superiore, mentre i membri dell’istituto sono numericamente meno numerosi. Vivremo i nostri voti con una coerenza e una trasparenza maggiori. Non abiteremo più in grandi case, ma in alloggi più piccoli, magari in zone periferiche, in mezzo ai poveri. La nostra obbedienza, la nostra castità, la nostra povertà saranno più splendenti.
Rimane tuttavia il ruolo profetico della vita consacrata, anche se la sua forma cambia. L’esortazione apostolica post-sinodale di Giovanni Paolo II Vita Consecrata prevede appunto che le trasformazioni socio-culturali e la rivalutazione della vocazione laicale nella Chiesa e nel mondo mettono in crisi le forme tradizionali della vita consacrata: «I mutamenti in corso nella società e la diminuzione del numero delle vocazioni stanno pesando sulla vita consacrata in alcune regioni del mondo. Le opere apostoliche di molti istituti e la loro stessa presenza in certe chiese locali sono poste a repentaglio. Come è già accaduto altre volte nella storia, vi sono persino istituti che corrono il rischio di scomparire. La Chiesa universale è sommamente grata per il grande contributo da essi offerto alla sua edificazione con la testimonianza e il servizio. L’affanno di oggi non annulla i loro meriti e i frutti maturati grazie alle loro fatiche» (n. 63).
Per altri istituti – continua il papa – si pone piuttosto il problema della riorganizzazione delle opere, e ciò può essere anche doloroso. Questo compito esige discernimento. «Occorre, ad esempio, salvaguardare il senso del proprio carisma, promuovere la vita fraterna ed essere attenti alle necessità della Chiesa sia universale che particolare, occuparsi di ciò che il mondo trascura, rispondere generosamente e con audacia, anche se con interventi forzatamente esigui, alle nuove povertà, soprattutto nei luoghi più abbandonati» (ivi). Il Signore insomma ci sta chiedendo santità, più che quantità e numero! Quindi fedeltà al Vangelo, alla Chiesa, al proprio carisma, all’uomo del nostro tempo. Questi sono i quattro criteri dettati già dal concilio per attuare il necessario discernimento. Le varie difficoltà, dunque, non devono in alcun modo far perdere la fiducia nella forza evangelica della vita consacrata che sarà sempre attuale e operante nella Chiesa sino alla fine dei tempi. E il suo sarà sempre un ruolo profetico.
Perciò – dice il papa – «è necessario distinguere la vicenda storica di un determinato istituto o di una forma di vita consacrata dalla missione ecclesiale della vita consacrata come tale. La prima può mutare col mutare delle situazioni, la seconda è destinata a non venir meno. (…). Le nuove situazioni di scarsità vanno affrontate con la serenità di chi sa che a ciascuno è richiesto non tanto il successo, quanto l’impegno della fedeltà. Ciò che si deve assolutamente evitare è la vera sconfitta della vita consacrata, che non sta nel declino numerico, ma nel venire meno dell’adesione spirituale al Signore e alla propria vocazione e missione. Perseverando fedelmente in essa, si confessa invece, con grande efficacia anche di fronte al mondo, la propria ferma fiducia nel Signore della storia, nelle cui mani sono i tempi e i destini delle persone, delle istituzioni, dei popoli e (…) anche le attuazioni storiche dei suoi doni» (ivi).
Fiducia dunque nella presenza dello Spirito: sa lui come. Dio è il padrone della vigna: è lui il diretto interessato a mandare gli operai. A noi chiederli e adoperarci a cercarli con fede.
UN CERTO NUMERO
DI TENSIONI
Il documento Ripartire da Cristo parla quindi delle difficoltà che il nostro tempo trasferisce all’interno della vita consacrata: «La vita consacrata conosce anche l’insidia della mediocrità nella vita spirituale, dell’imborghesimento progressivo, della mentalità consumistica. La complessa conduzione delle opere, pur richiesta dalle nuove esigenze sociali e dalle normative degli Stati, insieme alla tentazione dell’efficientismo e dell’attivismo, rischiano di offuscare l’originalità evangelica e di indebolire le motivazioni spirituali. Il prevalere di progetti personali su quelli comunitari può intaccare profondamente la comunione della fraternità» n. 12).
In altre parole, vi sono numerose tensioni del nostro tempo che, pur non essendo specifiche della vita consacrata, trovano in essa una risonanza particolare. Cerchiamo, dunque, di cogliere le principali tensioni che oggi si verificano nelle nostre comunità. Seguiremo come traccia, un importante discorso che il padre Peter-Hans Kolvenbach, generale dei gesuiti, ha tenuto a tutti i provinciali della Compagnia riuniti a Loyola il 22 settembre 2000. In realtà sono problemi comuni a tutti, anche se poi si presentano con modalità diverse nei singoli istituti. L’analisi di queste tensioni offre l’opportunità di un utile esame di coscienza.
Tensione tra contemplazione e azione
Oggi è divenuto molto più difficile risolvere il problema della nostra preghiera. Voi capite che ciò è grave. Si trovano a volte consacrati che hanno fatto, magari, il 50° di professione, e che ancora non hanno risolto il problema della preghiera. Non è possibile che noi ci immergiamo nell’attività pastorale se non siamo pieni di Dio. Il Signore non ci può mandare allo sbaraglio. Un consacrato che si dona fino a farsi mangiare, non lo può fare se non è pieno di Dio. Non si può resistere a lungo. Avviene che la fatica, il lavoro apostolico ci impoveriscano nella familiarità con Dio. Noi siamo chiamati ad essere gli intimi di Dio. Non possiamo parlare con lui come se fosse un Dio lontano. Egli è il Padre che si compiace del suo Figlio diletto che è in me. “Io vivo – dice Paolo – ma non sono io che vivo, è Cristo che vive in me”. Noi ci stiamo trasfigurando in lui. E la gente chiede di vedere Gesù in noi. “Vogliamo vedere il Signore”, ci ripetono gli uomini d’oggi, come ricorda il papa nella Novo millennio ineunte. Invece, noi predicatori Gesù lo raccontiamo, ma non lo comunichiamo. Gesù va comunicato! Chi incontra un consacrato (ma ciò dovrebbe valere per ogni cristiano) deve prendere la scossa, perché c’è lui in noi.
Perché ciò avvenga, occorre l’intimità con Dio. È un dono suo, ma noi dobbiamo aprirgli la porta: “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Aprire la porta significa pregare, fare spazio a lui nella nostra vita. Senza di ciò, egli non può agire, perché rispetta la nostra libertà.
Del resto, come facevano i nostri santi fondatori? Trovatemi persone più occupate di loro. Eppure riuscivano a tenere “aperta la porta” molto a lungo. Bisogna avere momenti forti di preghiera, oltre alla preghiera continua, per vivere in intimità con Dio. La nostra vita è lui. Se non viviamo di lui, ci batteranno pure le mani, andremo a finire magari sui giornali, ma il mondo non cambierà. Mi ha colpito il recente documento della CEI Comunicare il Vangelo nel mondo che cambia; il titolo non dice “annunciare”, ma “comunicare”. In una società di comunicazione come la nostra, Dio va trasmesso. Gesù è nel tabernacolo, vivo e vero, abita in casa nostra, dobbiamo vivere di lui, trasformarci in lui. È lui che ci ha chiamati per questo: la contemplazione è l’anima dell’azione. Per comunicare Gesù non basta aver letto un libro o sentito una conferenza; se prima di parlarne non gli ho parlato, se prima di farlo amare non l’ho amato, come potrò comunicarlo? La maggiore tensione della nostra vita consacrata è proprio questa: realizzare la sintesi tra preghiera e vita, con la grazia di Dio e aprendogli la porta.
Tensione tra locale e globale
Ormai il mondo è globalizzato, siamo una sola realtà, non possiamo più parlare del nostro istituto come se noi fossimo l’universo. Bisogna andare al di là dei muri dei nostri conventi, delle nostre case. La pastorale d’insieme, l’ottica universalistica è fondamentale. È tempo di andare fuori, pensare in grande, pensare in planetario! I problemi nuovi sono tutti mondiali.
Quale istituto da solo può risolvere il problema della formazione dei giovani? Mettiamoci insieme, con la Chiesa locale, con gli altri istituti. Vediamo in che misura la Chiesa, che è il corpo vivo dove c’è il Signore, ha recepito il nostro carisma.
Disponibilità: il carisma non è da tenere chiuso sotto chiave. Portiamo il nostro carisma nella Chiesa: i doni dello Spirito non sono soggetti a proprietà privata, ma sono destinati al bene del Corpo che è la Chiesa…
La gioia di un istituto dovrebbe essere questa: mettere il proprio carisma al servizio della comunità cristiana e dei fratelli. Tra esigenze locali e realtà universali non ci deve essere conflitto, ma complementarietà. Dilatare i confini del nostro giardino. Ogni istituto è mondiale anche se la gestione resta locale. Anche nella vita consacrata si pongono questi problemi, presenti pure nella vita politica e culturale.
Tensione tra gratuità e uso dei beni
Se un’opera apostolica è grande, ovviamente ci vorrà uno stabile grande, non avrebbe senso fare una baracca. Ciò pone diversi problemi. Come vivere l’ideale della gratuità della missione? Come vivere povero pur dovendo usare strumenti costosi? È chiaro che se devo gestire un’università, essa va attrezzata, deve poter disporre di strumenti che costano. Ci vogliono centri di ricerca, ci vogliono macchinari per la ricerca. E io ho fatto voto di povertà!
Non rimane che testimoniare con la vita personale e comunitaria. Occorrerà, per esempio, distinguere gli edifici e le opere dal luogo della nostra dimora, in modo che le persone e la comunità non si avvantaggino del servizio che rendono. Non dimenticherò mai un’esperienza che ho fatto quando ero ancora studente, quando sentivo più forte che mai questi problemi. «Io voglio essere povero come Gesù e guarda che casa, guarda che marmi, guarda che colonne! Ma che senso ha che io faccia il voto di povertà, se poi non mi manca nulla? C’è gente che ha fame, mentre io – che ho fatto solennemente e pubblicamente voto di seguire Cristo povero – ogni mezzogiorno, al suono della campana, trovo in refettorio i piatti pronti... Eppure voglio seguire Gesù povero!». Proprio per questo, oggi i giovani consacrati fanno fatica ad andare a vivere nelle case grandi: è un problema. Più nessuno ama andare a vivere nei nostri collegi. Si preferisce andare coi poveri: è il Vangelo vivo. Ebbene, in quella grande casa (che era un pensionato universitario) mi chiamò l’attenzione una porta di vetro con la scritta “clausura”. Essa divideva, da una parte, la residenza per gli studenti con tutti i conforti e le cose necessarie, dall’altra, l’abitazione dei padri. Nell’appartamento di questi c’erano solo un tavolo vecchio, una sedia, un letto di ferro, uno scaffale in legno... Ho provato una gioia profonda. I padri che lavoravano tra gli studenti non ne traevano alcun vantaggio personale in termini di comodità e di trattamento. Era la prova che nella vita consacrata si può seguire personalmente e comunitariamente Gesù povero, senza per questo temere di intraprendere anche opere costose per la gloria del Signore, per far arrivare il vangelo in tutti gli ambienti. Nulla poi impedisce che, accanto alla povertà comunitaria, ciascuno pratichi l’imitazione di Cristo povero nella sua vita personale, secondo la grazia ricevuta.
Tuttavia, non si può negare che la tensione rimane. Avvertire il problema è già un fatto positivo. La sua soluzione va cercata, dunque, secondo le esigenze e i criteri del proprio carisma. La tensione, in ogni caso, deve servire a crescere non a scoraggiare; a renderci qualitativamente superiori, cercando anche nuove forme di fedeltà.
Tensione tra istituzione e carisma
C’è sempre stata nella storia della Chiesa una certa tensione tra l’istituzione e i carismi, che lo Spirito Santo di volta in volta suscita. L’istituzione ecclesiastica è fatta di uomini e anche su di essa quindi si deposita la polvere. Molte volte, perciò, bisogna rinnovare le istituzioni. Anche gli scandali di cui talvolta si parla, soprattutto in questioni di soldi e di privilegi, fanno parte di quella debolezza umana che si ritrova in tutte le istituzioni, non escluse quelle ecclesiali. Il vantaggio di cui gode la Chiesa (nei confronti delle altre istituzioni) sta nella presenza dei profeti che lo Spirito continuamente suscita. I carismi, in qualche modo, obbligano l’istituzione a purificarsi.
Alcune scene del film Fratello sole, sorella luna di Zeffirelli, che tutti abbiamo visto, mettono bene in luce la tensione purificatrice tra istituzione e carisma profetico. Ricordate l’incontro tra il vescovo di Assisi e Francesco? Il primo (l’istituzione) rivestito del piviale e di tutti i segni del potere; il secondo (la profezia) nudo e spoglio. Non sono nati per scontrasi uno contro l’altro; infatti, l’istituzione ha il compito di verificare la autenticità dei carismi. E il carisma suscitato dallo Spirito finisce col purificare l’istituzione.
Certo, alcune situazioni talvolta sono particolarmente difficili. Non sempre i superiori comprendono subito la bontà di un nuovo carisma, che viene a mettere in discussione l’ordine preesistente. In ogni caso, noi obbediremo sempre alla Chiesa, perché Gesù è in questa Chiesa. E anche quando la Chiesa ci dovesse far soffrire, noi baceremo sempre la sua mano, perché è la mano di Cristo. La storia dei santi conferma che, il più delle volte, all’inizio il carisma non è compreso; anche ciò rientra nella logica misteriosa di Dio. Tant’ è vero che in un documento della Chiesa – Mutuae relationes – si giunge a dire che l’iniziale incomprensione da parte dell’istituzione è addirittura un segno della autenticità di un carisma.
Tensione tra discernimento e obbedienza
Oggi i giovani che bussano ai nostri istituti sono figli della cultura dominante. La chiamano: “pensiero unico”. Essa è fondata su un forte soggettivismo e sui valori dell’efficientismo e del consumismo. In un simile contesto culturale, obbedire è molto più di difficile di una volta. Quanto sono lontani i tempi, quando l’ordine di santa obbedienza arrivava, senza neppure aver chiesto il parere del suddito! Oggi, all’interno della cultura nuova, è molto più forte il senso della dignità e della responsabilità della persona; perciò, anche l’obbedienza si pratica in una forma più matura, che siamo soliti definire “discernimento spirituale”; ma ciò non può annullare in nessun modo né la sostanza, né la grandezza dell’obbedienza. Neppure i vescovi possono più governare le diocesi come ai tempi dei vescovi-conte. Forse che oggi, come qualcuno ha detto, “l’obbedienza non è più una virtù”? Assolutamente no.
Si tratta piuttosto di cercare insieme la volontà del Signore, ma lasciando sempre l’ultima parola al superiore che ci guida in nome di Dio. Infatti, i superiori – a ben guardare – sono i primi che debbono obbedire a Dio. Tanto che se uno non è capace di obbedire, non è adatto a fare il superiore. Una volta compiuto lealmente e in preghiera il necessario discernimento, deve venire il momento in cui il Superiore dice: con la responsabilità che mi è stata affidata e nonostante i miei limiti umani, decido che si faccia così. Siamo sicuri che Dio ci governerà attraverso l’obbedienza, di cui abbiamo fatto voto. Il discernimento, quindi, non annulla l’obbedienza. Anzi, la rende più matura e responsabile, facilitando da un lato la decisione del superiore e, dall’altro, la disponibilità interiore del suddito.
Tensione tra scelta dei poveri e formazione delle élite
Oggi è molto importante formare anche cristiani che siano capaci di governare: quanto più grande è il bene che si compie, tanto maggiore è la gloria che si dà a Dio. La tensione nasce, quando siamo chiamati da un lato a tenere scuole e università, dove si formano le classi dirigenti, e dall’altro a lavorare con i poveri. È difficile fare la sintesi. E questo crea tensioni all’interno delle nostre scelte apostoliche. Quale casa chiudere, quale opera mettere al primo posto? Anche in questo caso, occorre fare un salto di qualità. Esso consiste nel fatto che la “scelta dei poveri” non va considerata come una sezione staccata delle nostre opere apostoliche, ma come dimensione intrinseca di tutte le nostre attività. Perché, mentre nei collegi ci impegniamo a formare le nuove classi dirigenti, non mettiamo i nostri giovani a contatto diretto con i “poveri”? Guai se ci lasciamo imborghesire, rinunciando alla spinta profetica ed evangelica, che viene alle nostre opere dalla vicinanza con gli ultimi, dalla condivisione dei loro problemi.
La tensione può riguardare pure le scelte tradizionali del nostro istituto, che occorre avere la forza di rinnovare e di cambiare, in fedeltà dinamica al carisma originario. Il papa e la Chiesa, continuano a insistere su alcune priorità che sono le priorità del nuovo millennio: i poveri, i giovani, la famiglia, la donna. Si chiede cioè a tutti i consacrati un’attenzione particolare a questi segni dei tempi. La Chiesa stessa propone a tutti queste priorità apostoliche, verso le quali orientarci, ciascuno secondo il proprio carisma, in vista della nuova evangelizzazione.
In conclusione, il documento Ripartire da Cristo mostra che le difficoltà e le prove per i consacrati oggi sono tante (su alcune sorvola), per concludere che la crisi del nostro tempo non è un’agonia, ma è una crescita. Lo Spirito Santo chiede alla vita consacrata un salto di qualità. Per compierlo, occorre iniziare soprattutto da una santità più autentica, oltre che da un’apertura mentale ai problemi di oggi e da un discernimento fatto in fedeltà dinamica allo Spirito. È questa la via da percorrere non tanto per “sopravvivere”, ma per dare linfa nuova ai nostri istituti.
Bartolomeo Sorge s.j.