DRAMMATICA TESTIMONIANZA DI P. SILVANO RUARO

A MAMBASA OVVERO ALL’INFERNO

 

Questa testimonianza sugli avvenimenti nell’est della repubblica democratica del Congo non hanno bisogno di commenti. Basta leggerla. È lo squarcio di una realtà in cui vivono oggi molti missionari in balia di bande armate senza legge, dove in ogni momento può succedere di tutto.

 

Sono stato più volte invitato a narrare un momento particolare della mia vita di missionario in Congo, dove mi trovo dal 1970. Ogni volta che mi accingevo a farlo, dilazionavo la stesura, un po’ frenato dalla pigrizia, dall’urgenza di altri impegni immediati, ma anche incerto sull’utilità di questo racconto, e soprattutto sulla mia capacità di accostarmi a questi avvenimenti col dovuto distacco e con rispetto religioso perché sono stato testimone delle umiliazioni, delle sofferenze di uomini… di Cristo.

Ho sempre avuto paura di lasciarmi prendere dal rischio di narrare dei fatti tragici e orribili e di dimenticare che tutto questo aveva un nome, un volto; che le lacrime, i pianti e le grida di dolore uscivano dagli occhi e dal cuore di bambini, di donne e di uomini che non avevano fatto nulla di male. E confesso che anch’io più volte incredulo di fronte a tanta sofferenza mi sono lasciato sfuggire questa preghiera–lamento: “Dio mio, perché ci hai abbandonati?”. Ma più forte è stata la sensazione, la certezza di essere accompagnato da Qualcuno su questa Via crucis di migliaia di persone. Incapace di portare la mia croce, dovevo a mia volta alleviare quella degli altri, aiutarli a vivere e a mantenere la speranza.

 

QUEL VENERDÌ

11 OTTOBRE

 

“Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze perché dimori in me la potenza di Cristo… Quando sono debole è allora che sono forte”. Era cominciata con queste parole la giornata di venerdì 11 ottobre 2002. Uscivo malconcio da una settimana di forte malaria, ma non c’era tempo per la convalescenza. Due grosse realtà esigevano soluzioni rapide a problemi che non potevano aspettare oltre. Da un mese avevamo incominciato le scuole all’istituto “Bernardo Longo” con 650 alunni, suddivisi in varie sezioni: meccanica, falegnameria, taglio e cucito, scuola media, liceo scientifico e magistrale. L’orario, per carenza di personale insegnante e di locali era ancora provvisorio e incompleto. Bisognava essere presenti, ascoltare, decidere. E inoltre la presenza alla missione di Mambasa1 di oltre 2.600 rifugiati era sorgente di una preoccupazione che diventava ogni giorno più angosciante. Questi erano arrivati da Bunia e dintorni a partire dal 20 agosto. Erano fuggiti agli orrori delle lotte tribali che avevano raggiunto il parossismo all’inizio di agosto. Erano scappati senza nulla, a volte testimoni del massacro dei loro cari, altre volte ignari della loro sorte. Traumatizzati e terrorizzati, avevano bisogno di tutto e sentivano il bisogno di parlarne con noi. Quei racconti, fatti senza passione ed emozione, come avessero perso la sensibilità al dolore, erano difficili da ascoltare. Di solito ascoltavo due o tre persone, poi facevo chiudere la porta e, restato solo, crollavo. Poi riprendevo… Ma non era sufficiente questa presenza: “Date voi stessi a loro qualcosa da mangiare”. La missione, fin dall’inizio, aveva udito ed accolto questo appello: bisognava quindi prevedere, organizzare, comperare, distribuire. Il miracolo della moltiplicazione dei pani si rinnovava ogni giorno sotto i nostri occhi e fra le nostre mani… vuote. Dall’Italia giungevano parole che facevano eco a quelle di Cristo: “Salvate la gente!”, e con le parole arrivavano gli aiuti. Ma bisognava continuamente essere vigilanti: mantenere una riserva di cibo, prevederne altro e andare a prelevare il denaro a Kampala (Uganda). Per cui, l’11 ottobre, nonostante la debolezza, ho incontrato i professori per i problemi della scuola e poi sono andato a fare visita all’amministratore di Mambasa. A costui riferivo sulla situazione dei rifugiati e gli esponevo la mia inquietudine perché le scorte di cibo e medicinali erano scarse e gli facevo presente che era ormai indispensabile un mio viaggio a Kampala. Ma c’era un inquietante interrogativo: qual era l’evoluzione della battaglia che si combatteva a circa 20 Km di Mambasa fra le bande di Mbusa Nyamwisi che occupavano Mambasa da tempo e quelle di Jean-Pierre Bemba che avanzavano sulla strada di Kisangani e che erano conosciute per la loro violenza e barbarie. Mentre parlavamo, infatti, sentivamo il rumore di colpi di armi pesanti: mortai, granate. La risposta dell’amministratore fu di una stupefacente sicurezza e fiducia: “la situazione è sotto controllo; stiamo ricacciando il nemico; lei può partire tranquillamente per Kampala”.

 

“PADRE,

È FINITA!”

 

Il sereno dura poco… Verso le ore 14,00 l’amministratore arriva alla missione: “Padre, è finita! Tra poco saranno qui!”. Il suo volto diceva molto di più delle sue parole. Nel frattempo cominciava la fuga: dei soldati in direzione di Beni, e della gente verso i campi nella foresta. Noi restiamo alla missione, stranamente vuota di bambini e tristemente silenziosa. Alla sera chiamiamo le suore a condividere con noi l’adorazione eucaristica, i vespri e la cena. “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza e la pazienza completi l’opera sua in voi perché siate perfetti e integri senza mancare di nulla” (Gc 1,2-4). Queste parole della lettura breve dei Vespri ci scuotono e ci prevengono. Ma sul momento non capiamo. La fuga della gente continua tutta la notte e quando al mattino ci ritroviamo per la preghiera dopo una notte insonne sentiamo che sta avvicinandosi l’uragano. Gli ultimi soldati di Mbusa se ne vanno, passando davanti alla missione, disinvolti, con il kalasnhikow a tracolla e qualcuno addirittura masticando canna da zucchero. Alle 8 comincia il crepitio delle armi da fuoco; il fragore si fa sempre più forte e si avvicina alla missione. All’inizio di questo uragano di fuoco e di grida siamo tutti assieme, padri e suore, poi siamo separati. Don Fabio Varutti, un sacerdote di Udine, resta alla missione, raggiunto poco dopo dal nostro confratello studente, Serge. Padre Nerio Broccardo e le suore si inoltrano nella foresta e trovano rifugio nel campo di un catechista, mentre il sottoscritto, p. Silvano, fa la spola tra la casa e il cimitero, dove si erano rifugiate diverse persone…

Nel tentativo di ritornare verso casa, sono bloccato degli spari e dalle grida dei soldati a circa 50 metri dalla missione e mi nascondo tra i cespugli, al limite del prato dove pascolano mucche, pecore e asini. Don Fabio e fratel Serge sono i primi a cadere nelle mani dei “miliziani”, che sfondano porte e finestre, distruggono e sparano all’impazzata. Fratel Serge è picchiato selvaggiamente; don Fabio viene gettato a terra, terrorizzato. Dal mio nascondiglio sento e vedo tutto: saccheggiano i magazzini e i containers, sparano alle moto, incapaci di farle partire… Quando finiranno? Le ore passano: il frastuono non accenna a diminuire; sento qualche grida di uomini, donne e bambini; assisto da poche decine di metri all’abbattimento selvaggio di 14 mucche, prese a bersaglio in un gioco macabro, cercando di appiattirmi al suolo il più possibile, dato che sono nella traiettoria dei tiri… Recito il rosario… Sono inquieto, soprattutto per don Fabio e fr. Serge. Mi decido ad uscire allo scoperto. Momento terribile di paura e di umiliazione. Accolto da una fitta sparatoria in aria, sono gettato per terra e perquisito; mi sento incapace di reagire, ma almeno sono con i miei confratelli.

Assistiamo impassibili allo scempio che si compie nella nostra casa e non opponiamo resistenza. Del resto non servirebbe a nulla, anzi sarebbe molto pericolosa. Siamo sdraiati per terra per non essere bersaglio delle pallottole che fischiano in continuazione e in tutti i sensi. Un ragazzo-soldato probabilmente ha pietà di noi e, rimasto solo con noi, ci dice: “Padri, non reagite e non opponetevi a nessuna delle nostre richieste, perché, per quattro giorni, abbiamo il permesso di fare quanto vogliamo: rubare, violentare, uccidere e nessuno ci chiederà conto…”.

 

UN GRUPPO DI SOLDATI

DOPO L’ALTRO

 

A un gruppo di soldati ne succede un altro: tutti prendono, sparano in aria, ci minacciano e ci deridono. Sembra che il tempo si sia fermato. Finalmente si fa sera. I soldati svaniscono nel buio, ma gli scoppi continuano. Ci rifugiamo in chiesa, vicino all’altare, per passare la notte. Sentiamo rumori di passi, voci, spari, ma nessuno entra. Anche l’alba si fa attendere. Finalmente usciamo: è domenica; sarà una domenica di passione. La gente comincia ad arrivare alla missione: traumatizzata, priva di tutto. Ognuno con la sua storia di sofferenza, di spoliazione e di umiliazioni. E i racconti, come tante piccole croci, si accumulano e fanno un tutt’uno. Seduti per terra, gli uni accanto agli altri, condividiamo la sofferenza e questo ci dà forza e dignità.

Ai soldati, che probabilmente vengono per beffarsi di noi, dico: “Per favo­re, lasciateci soli; quando una famiglia è in lutto, si rispetta quel luogo”. La risposta è di un sarcasmo impensabile e rivelatore: “Di che cosa ti lamenti? Altrove abbiamo fatto anche peggio e nessuno si è lamentato”. Solo nel pomeriggio ci decidiamo per la santa messa.

Nel frattempo erano usciti dalla foresta anche padre Nerio Broccardo e le suore.

Lunedì, 14 ottobre: alle Lodi un altro appello: «Ricordatevi che i vostri padri furono messi alla prova per vedere se davvero temevano il loro Dio. Ricordate come fu tentato il nostro padre Abramo e come proprio attraverso la prova di molte tribolazioni egli divenne l’amico di Dio. Così pure Isacco, così Giacobbe, così Mosè e tutti quelli che piacquero a Dio furono provati con molte tribolazioni e si mantennero fedeli» (Gdt 8,26…). Ma nello stesso tempo, una certezza ci veniva dal salmo 72 nell’Ufficio delle Letture: «…ma io sono con te sempre: tu mi hai preso per la mano destra. Mi guiderai con il tuo consiglio e poi mi accoglierai nella tua gloria».

La missione era di nuovo il luogo di incontro, la casa di tutti: cattolici, protestanti e musulmani, accomunati dalla stessa tragedia, erano diventati fratelli. Verso le 9,00 arriva il colonnello, capo delle operazioni. Viene per cercare di spiegare il perché della guerra. Lo ascolto assente, stranamente calmo e senza mai interromperlo. Non so quale reazione si attendesse da me; senz’altro la mia l’ha sorpreso e spiazzato. «Colonnello, ci sono solo due alternative: o lei mi fa sparire subito, o io farò sapere a tutti gli orrori che avete commesso sabato scorso. Tacerò solo se lei mi dirà anche una sola ragione che giustifichi quanto avete fatto alla gente. E le chiedo di rimandare a casa tutte le ragazze che avete rapito».

Le posizioni erano chiare e senza ambiguità. Il resto è stato relativamente facile: bastava mantenere la stessa linea. E mi sono accorto che la gente ci contava. Non potevo deluderla. Il 21 ottobre ci era offerta la possibilità di partire a Kisangani con l’elicottero dell’ONU. Padre Nerio ha accettato di partire, per non mettere in difficoltà il superiore provinciale, padre Dino Ruaro. Infatti, per vincere le reticenze delle autorità dell’ONU, padre Dino aveva detto che noi eravamo in pericolo e che era urgente evacuarci. Bisognava dunque che almeno uno partisse. La nostra permanenza a Mambasa è stata molto apprezzata dalla gente: “adesso siamo certi che Dio non ci ha abbandonati”.

 

UN VOLO

A KAMPALA

 

La situazione sanitaria e alimentare si faceva sempre più drammatica. Mambasa era isolata. Restava aperta la via del… cielo. Ebbi un’ispirazione che sembrava follia. Con un pastore protestante mi sono recato dal colonnello e gli ho chiesto se potevo entrare in comunicazione via radio con un pilota della MAF (una piccola compagnia aerea protestante) per un eventuale volo a Kampala per acquistare viveri e medicinali. Evidentemente mi sono dovuto subire dei rimproveri e delle minacce, ma il permesso di parti­re era chiaro e senza condizioni. Il 24 ottobre volavo a Kampala. Una mez­z’ora dopo il decollo i soldati di Mbusa attaccavano Mambasa. Collera da parte del colonnello, convinto che io avessi organizzato il contrattacco e che avessi fatto uscire le notizie trasmesse dalla radio vaticana. Tentativo da parte sua di far rientrare l’aereo a Mambasa.

A Kampala ho contattato l’ambasciata d’Italia e un osservatore dell’ONU che mi ha aiutato a redigere un comunicato trasmesso poi a Kofi Annan e a tutte le ambasciate. Nel frattempo a Mambasa i soldati di Bemba erano cacciati e si installavano di nuovo quelli di Mbusa.

La vita riprendeva, padre Nerio ritornava da Kisangani e io da Kampala. Iniziava la fase di aiuto ai rifugiati e alla popolazione di Mambasa che aveva perso tutto. Grazie alla generosità di tanti amici, potevamo essere vicini a tutti con cibo, medicinali, vestiario e generi di prima necessità. Sembrava un sogno: si riaprivano le scuole; i ragazzi tornavano a giocare; il lavoro diventava normale. Ma era solo una piccola schiarita. Verso il 20 novembre da più parti mi giungevano messaggi allarmanti: «Padre Silvano, allontanati da Mambasa; i soldati di Bemba stanno ritornando e le loro intenzioni nei tuoi confronti sono senza equivoci». Era una decisione difficile da prendere. Sabato 23 novembre, lascio Mambasa. Il motivo ufficiale è la visita a una comunità cristiana a 35 Km per la festa di Cristo Re. Resto nel villaggio tre giorni e il 26 rientro a Mambasa; incontro gli operai e i professori e poi riparto. Si respira già ansia e incertezza. Il 28 sera, panico e terrore: stanno arrivando! Alle 23, in una notte buia e senza luna, tutta la gente fugge dalla propria casa e si ammassa sulla strada verso il sud, direzione Beni. Inizia così il lungo esodo di oltre 20.000 persone, ignare del perché, attonite e rassegnate, con una sola idea fissa: fuggire e sottrarsi agli orrori di genocidio.

Un fiume, l’Ituri, a 40 Km da Mambasa, sarà il nuovo confine. A sinistra del fiume, una folla enorme di rifugiati privi di tutto; a destra una regione vuota, in mano ai soldati di Bemba, stupiti di non trovare nessuno. Avevano già dimenticato gli orrori del 12 ottobre. E noi? Non c’era né il tempo né la voglia di pensare. Una sola idea: “Salvare la gente, queste decine di migliaia di persone, essere con loro”. La gente si era fermata nei vari villaggi: Teturi, Lwemba, Byakato, Alima, Malutu, Mangina… Per fortuna era iniziata la stagione secca, senza pioggia.

Dal nostro campo base a Mangina e a Beni coordinavamo il tutto: comperare, distribuire e ascoltare. Tante persone, soprattutto mamme, necessitavano di un contatto personale. Con pudore esponevano la loro situazione: trovare un rifugio presso un parente, la vicinanza del parto, bambini denutriti, perché non avevano latte. La nostra vita non aveva più orari: ci lasciavamo guidare dagli avvenimenti. Momenti di tensione estrema e di paura si alternavano con momenti di serenità e fiducia. Continuare, non mollare, nonostante tutto. Ai primi di dicembre, un altro viaggio a Kampala. Ritiro i soldi presso i padri comboniani e il 5 dicembre contatto il nunzio apostolico, mons. Pierre Christophe. Un incontro decisivo! In un colloquio di due ore gli espongo gli orrori di questa guerra, la sofferenza disumana della nostra gente, l’assurdità e lo scandalo del silenzio e dell’indifferenza che avvolgono questi crimini. Il nunzio è scosso e organizza subito un incontro a tre con l’ambasciatore del Belgio, Karl Peters. E non sarà l’unico passo.

 

M’ACCORGO

DI NON FARCELA PIÙ

 

Ritorno a Beni, ma mi accorgo di non farcela più: paura, ma soprattutto la constatazione di impotenza di fronte a questa tragedia. Telefono a una mia sorella: «Tra pochi giorni sarò in Italia!». Ma non mi decido a partire; resto ancora un giorno, poi un altro: «Signore, dammi la forza anche per quest’oggi!». A Beni sono ospite di una comunità di suore, Soeurs Orantes de l’Assomption: 22 suore e postulanti, tutte africane. Un po’ alla volta divento il loro cappellano e il loro fratello. Messa e recita di Lodi al mattino; poi loro iniziano l’adorazione eucaristica fino a sera. Io “scendo dal monte”, loro pregano per me e per la mia gente: ritornerò a sera per le recita dei vespri e per la cena. Una volta alla settimana fanno l’adorazione notturna: quando posso, mi unisco a loro. Un po’ alla volta riprendo coraggio; ci si organizza meglio. Scopriamo giovani generosi, che si mettono a disposizione per questa operazione di emergenza: ci aiutano negli acquisti, nel trasporto e nella distribuzione. Così abbiamo più tempo per l’ascolto. «I poveri vi evangelizzeranno». Comincio a capire…, mamme, bambini, vecchi ripetono all’infinito ma sempre con tanta trasparenza e un candore commovente: «Grazie Padre, Mungu akubariki (che Dio ti benedica)». Sento che non è solo un augurio… è una conferma. Grazie anche a voi che mi siete diventati fratelli, sorelle e mamme.

Pensavamo di aver sofferto, pianto abbastanza… Il 18 dicembre, i soldati di Bemba attraversano il fiume Ituri. Di nuovo la fuga verso il sud, verso Mangina. Nella calca alcuni bambini sono schiacciati. Si deposita il loro cadavere ai fianchi della strada e si continua. Il 19, da Mangina, chiamo per telefono la MISNA e l’ambasciatore d’Italia a Kampala: «Fate qualcosa per salvare queste persone!». È stato inteso questo grido? Penso di sì! Mentre noi siamo alle prese con i problemi inerenti alla sopravvivenza di questi dimenticati che ormai sono più di 40.000, le ambasciate, la nunziatura, le Nazioni Unite fanno pressioni sui “signori della guerra”, e probabilmente sotto la minaccia di una denuncia presso il tribunale internazionale, li obbligano a firmare un cessate il fuoco, il 30 dicembre…

Passiamo il periodo natalizio nella paura e nell’angoscia. I soldati di Bemba sono ormai alle porte di Beni. Tre sacerdoti di Wamba sono loro ostaggi: sono testimoni di atti orribili; i corpi dei nemici uccisi vengono mutilati; i loro organi genitali esibiti come trofei; e sono costretti ad ascoltare questo poco incoraggiante ritornello: “A Beni ci sfogheremo e ognuno di noi avrà almeno due moto”.

Non c’è tempo per pensare: occorre agire in una frenesia interrotta solo dalla notte e dai momenti di preghiera in quell’oasi che è la comunità delle suore. Un’antifona, (è il 20 dicembre, alle Lodi): “Perseverate, e vedrete su di voi l’aiuto del Signore”, attira la mia attenzione, mi aggrappo ad essa e me la ripeto spesso e continuo a sperare. Il 31 dicembre, la gente fugge verso Beni; è il panico; si sente il rombo dei mortai. La gente e anche i soldati non sanno ancora che è stata firmata la tregua. Lo sapranno solo nel pomeriggio.

Finalmente!

 

UN BARLUME

DI SPERANZA

 

Con il nuovo anno riappare lentamente un barlume di speranza che diventa man mano più luminoso. I soldati si ritirano, le Nazioni Unite inviano una commissione d’inchiesta, diverse ONG arrivano in aiuto.

La gente esita a ritornare… Ma l’invio a Mambasa di quattro osservatori militari dell’ONU è un passo importante sulla strada della normalità. Invitiamo dunque la gente a ritornare e li aiutiamo mettendo a loro disposizione dei camions e dando loro dei viveri per il ritorno. In febbraio ritorniamo anche noi alla missione anche se i soldati si sono ritirati solo a 30 km a nord di Mambasa. Ma è importante e urgente dare speranza, reagire alla paura e alla rassegnazione. Il 10 marzo riapriamo le scuole. È un’altra sfida alla Provvidenza: chi pagherà i 307 maestri e professori e darà il necessario ai 9.500 alunni!?. – “Date voi stessi a loro qualcosa da mangiare!…”.

Riprendiamo i lavori di costruzione dei due edifici della scuola rimasti interrotti durante la guerra e la fuga…

Ci avviciniamo alla Pasqua. La Quaresima e la Passione sono state più lunghe del solito. Adesso guardiamo indietro e rileggiamo tutta la storia: ci appare più chiara: certezze e domande senza risposte sono più nitide…

Una certezza: “Ma io sono sempre con te: tu mi hai preso per la mano destra. Mi guiderai con il tuo consiglio e poi mi accoglierai nella tua gloria”.

Una domanda senza risposta: una sera, a cena una suora mi chiese: «Padre, perché dobbiamo soffrire così? Che cosa abbiamo fatto di male?».

Questa frase la risento spesso come un tormento nel mio cervello e nel mio cuore mentre rivedo tante scene di miseria, di pianto e rivedo quella fiumana di persone che se ne va’, con lo sguardo vuoto, senza indignazione, cadaveri ambulanti e ripenso a quella mamma violentata da 18 soldati in presenza di suo marito e ripenso a José, una bambina della mia scuola, di 13 anni violentata da 5 uomini: «Gridavo, piangevo… e loro mi picchiavano sul viso, sulle gambe e urlavano: smettila di piangere!. Cosa abbiamo fatto di male?».

Signore, non dimenticare il tuo popolo!

 

Silvano Ruaro, dehoniano

 

1 Mambasa è una città di circa 20.000 abitanti nel nord-est della Repubblica democratica del Congo, a 120 km a ovest di Bunia e a un centinaio di chilometri a nord di Beni, non molto lontano dalla regione dei Grandi Laghi.