QUALE OBIETTIVO PER LA FORMAZIONE?
DALLA PERFEZIONEALL’INTEGRAZIONE
Al modello della perfezione, come obiettivo formativo, si sono succeduti nel tempo i modelli dell’autorealizzazione e dell’accettazione, fino a quello più attuale dell’integrazione. In che cosa consiste tale modello?
«L’immagine che in qualche modo potrebbe rendere l’idea dell’integrazione è quella d’un cerchio o d’un movimento concentrico che ingloba e integra il reale attorno a un punto centrale». Così p. Amedeo Cencini introduce sinteticamente la presentazione del modello dell’integrazione in una relazione, di cui presentiamo una sola parte, tenuta a Roma ai membri delle curie generalizie nel mese di giugno.1
La strategia dell’integrazione percorre tutta un’altra strada rispetto alla perfezione, e va al tempo stesso ben oltre l’obiettivo sia dell’autorealizzazione che dell’autoaccettazione, modelli che hanno tentato di andare oltre la perfezione ma che, focalizzandosi principalmente sulle potenzialità individuali e sulla stima di sé, rimangono di fatto entro l’orbita dell’io. Il concetto di integrazione esprime l’ulteriore progresso delle scienze umane, e della psicoterapia in particolare, che da una parte scopre sempre più la funzione solo strumentale e non finale dell’accettazione di sé, dall’altro manifesta anche la sempre migliore intesa tra queste scienze e le discipline classiche della formazione spirituale, essendo tale idea teologica e psicologica assieme.
Quella dell’integrazione è la strategia dell’enucleazione, che implica la presenza d’un centro capace di raccogliere attorno a sé la realtà circostante, attirandola e dandole senso, purificandola e arricchendola, dandole nuovo orientamento e valorizzandola al massimo. Integrare è fenomeno complesso che sta a dire una certa varietà di operazioni: completare e dare compimento, attirare, perfezionare, creare unità attorno a un centro, raccogliere o mettere insieme, correggere e riorientare… ma anche illuminare, significare, vitalizzare, riscaldare, rinforzare, cicatrizzare…
Nel caso d’una persona in formazione tale nucleo centrale cerca di assumere tutta la complessità del logos, dell’eros e del pathos. La persona che cammina verso l’integrazione cerca di enucleare, partendo da un centro vivo, da una intuizione di base, da un valore nel quale riconosce il suo io e quel che è chiamata a essere, tutte le altre forze della passionalità umana. Non parte con l’idea di abolire niente della propria umanità, semmai si propone di far girare tutti gli impulsi della vita attorno a questo centro vivo come satelliti attorno a un pianeta.
Il suo sforzo, e di sforzo naturalmente si tratta, con la fatica e la rinuncia che implica, sta appunto nell’equilibrare tra loro questi impulsi e riorientarli, dosandoli sempre in vista dell’obiettivo centrale e finale, togliendo progressivamente da essi ciò che non è conforme a tale obiettivo. Non ha paura preconcetta delle passioni, le affronta, o impara ad affrontarle, con naturalezza, se possibile, come parte della sua natura. È come se egli lavorasse su due fronti, al centro e alla periferia: al centro per ritrovare sempre la propria identità in quel punto vitale che ha il potere di attrarre e dare significato a tutto; alla periferia per avvicinare sempre più ogni frammento del suo essere e del suo vivere a questo centro vitale.
Egli dunque non presume di cancellare nulla né s’illude di poterlo fare; anzi, ha motivo di sperare che un po’ alla volta la negatività, così accolta e provocata, confrontata e filtrata, perda la sua virulenza e si comporti come una belva addomesticata.
D’altro canto sa pure che non può lasciar le cose come stanno, accontentandosi di prendere atto di quel che è e dei propri mali. Egli lavora su di essi, in due fasi, una negativa e di purificazione, l’altra positiva e di scoperta del senso profondo.
LE DUE
FASI
La prima fase, quella negativa, implica la fatica della rinuncia, del saper dire di no a certe pretese istintuali. Il soggetto deve imparare a contrastarle, perché le sente in rotta con la propria identità e verità interiore, con quello che vuole realizzare e diventare, le soffre e fa di tutto per mantenerle sotto controllo e non esserne dipendente. Non si riconosce in esse.
Al tempo stesso, o in una seconda fase positiva, coglie in questo contrasto un senso fondamentale della vita e del suo cammino formativo. Ovvero, se ne serve per riconoscere la propria povertà dinanzi a Dio e agli altri, per sperimentare quella misericordia che è all’origine della vita e d’ogni relazione, per non pensarsi migliore di nessuno e saper compatire le altrui infermità, per non prendersi troppo sul serio e liberarsi delle manie narcisiste.
E se nonostante i suoi sforzi ritrova e riconosce ancora dentro di sé la radice del suo male, non solo accetta la sua impotenza, ma vi coglie addirittura una misteriosa presenza della potenza della grazia. La sua, infatti, non è l’accettazione passiva e comoda di chi non conosce alcuna tensione interiore ed è tranquillo nella sua mediocrità, né la rabbia narcisista di chi s’è scoperto debole e povero, ma è l’esperienza grata e intensa di chi ha lottato soprattutto col suo egocentrismo e s’è progressivamente liberato dai suoi sogni perfezionisti, divenendo sempre più spazio libero per Dio; finalmente abitabile da Colui che può far grandi cose in chi s’è svuotato del proprio io, il Dio che è onnipotente in chi ha sperimentato la propria impotenza!
A questo punto quella povertà sofferta e combattuta, e ora abitata viene integrata, o viene scoperta ricca di senso, da non buttare via assolutamente. Anzi, essa diventa sempre più funzionale a un progetto formativo, ha un’enorme valenza liberante, diviene confronto ineludibile e prova attendibile dell’autenticità del cammino, è come una presenza costante che sta a ricordare qualcosa che non può mai in nessun modo esser dimenticato o messo tra parentesi. Quando quel giovane ora in formazione un domani sarà apostolo, annuncerà il vangelo della misericordia non come un dottore della legge, o un superman dello spirito che ha solo da insegnare agli altri, ma come un “guaritore ferito”, con la consapevolezza piena e sofferta della sua debolezza, con la forza convincente di chi ha sperimentato su di sé la grandezza e abbondanza del perdono, segno d’un amore che lo ha preceduto e prediletto, e per fortuna non commisurato ai suoi meriti. Sarà come un’integrazione continua, in un processo di formazione permanente, il cui punto d’arrivo è l’atteggiamento di Paolo che si vanta delle proprie debolezze (cf. 2Cor 12,10).
I DUE
DINAMISMI
Ma non solo: l’energia accettata e progressivamente liberata rinforza il polo positivo, oggetto dell’intenzionalità conscia. È un movimento duplice: dal centro alla periferia e dalla periferia al centro. Grazie a questo reciproco dinamismo l’ancoraggio al valore terminale e trascendente rende il soggetto libero di accogliere le altre dimensioni del suo essere, la vitalità che ne riceve diventa mezzo e strumento per vivere più intensamente la passione centrale della sua vita.
Il risultato è il profilo d’un santo, uomo integrato, padrone delle sue energie perché ha faticosamente imparato a tenerle in qualche modo tutte per le redini; capace di tenerezza e di gesti profondamente umani perché non è stato irrigidito dalla razionalità e dal controllo, né è stato deviato da sottili narcisismi e da quelle presunzioni di sufficienza perfezionistica che irridono tutto ciò che è emotivo; capace di desiderare il bene e di lasciarsi attrarre da esso perché non ha ucciso i suoi desideri e la sua capacità di voler bene, magari per la paura di non saper più abbastanza controllare la parte «inferiore» di sé; libero di dare e di ricevere, di amare e di essere amato, di scegliere e rinunciare; di mistica e di ascetica.
Per arrivare a questa integrazione, che non regalata a nessuno né è frutto d’una sintesi semplicemente teorica, bisogna saper riconoscere e sperimentare gli angeli e i demoni che convivono nella nostra vita. L’integrazione è il frutto di avanzate e ritirate, di ascese e di cadute, di rinunce e di recuperi, fino al punto di cristallizzarsi in un centro forte che tutto attrae e armonizza. Quando il santo si ritiene peccatore molto vile, indegno della salvezza e di Dio, dice la verità, perché parla della dimensione delle ombre, di quei meandri sinistri nei quali abitano incatenati i nostri demoni. In un progetto di santità che tiene conto realisticamente d’un certo modello antropologico, in cui l’uomo non è santo né peccatore (ma entrambe le cose), essi sono incatenati, ma non morti, e bisogna continuamente integrarli perché la loro forza non sconvolga l’equilibrio di chi è in formazione, ma l’aiuti a crescere in direzione della terra promessa, e cioè della sua propria identità, come Dio lo vuole.
LA CENTRALITÀ POLARE
DELLA CROCE
L’elemento decisivo, in un progetto formativo che s’ispira al modello dell’integrazione, è costituito evidentemente dal polo centrale, da quel valore, idea, esperienza, convinzione che il soggetto ha interiorizzato e sta facendo sempre più suo e al quale, al tempo stesso, ispira la sua condotta e le sue aspirazioni, come fosse perno e fulcro della sua vita; da un lato è ciò che la sostiene e la fortifica, ma dall’altro è anche ciò che lo provoca come un costante punto di riferimento, un permanente criterio di discernimento, un denominatore comune che in qualche modo contiene ed esprime le varie dimensioni del vivere da presbitero o consacrato, ma che ha anche bisogno d’ogni dimensione del vivere umano.
In concreto è la persona del Figlio, il suo mistero di morte e resurrezione, la sua pasqua, i suoi sentimenti, il suo cuore di servo e di buon pastore.
Questo riferimento teologico–spirituale è anche il polo nevralgico che funziona da elemento integratore, e che dovrebbe essere il cuore stesso della vita sacerdotale e consacrata, il suo centro vitale, ciò che la anima e ne costituisce l’identità e che è indispensabile non solo riscoprire e proporre con chiarezza nella formazione iniziale, ma anche articolare pedagogicamente come polo di attrazione e trazione psichica. In altre parole, il processo d’integrazione psichica può realizzarsi solo attorno a quanto è già stato posto, almeno teoricamente, al centro della vita cristiana e dell’identità della vita consacrata e sacerdotale. Che è appunto il Cristo, perché così è piaciuto al Padre, fare di Cristo “il cuore del mondo, il centro non solo del cosmo, ma della vita d’ogni vivente, perché in lui ci ha scelti, benedetti, predestinati, redenti, ricapitolando in lui tutte le cose, rappacificando ogni realtà col sangue della sua croce (cf Ef 1,3-10; Col 1,15-20); poiché il Verbo s’è incarnato non “per abolire, ma per dare compimento…”, perché “tutto sia compiuto” (Mt 5,17-18).
A questa centralità teologica di Cristo deve corrispondere sempre più una centralità, per così dire, psicologica o psicopedagogica, che poi non è altro che quel processo di “ricapitolazione” e “rappacificazione” di cui parla Paolo, operazione complessa, che parte da lontano e che dura tutta la vita, ma che può e deve necessariamente cominciare nella formazione iniziale.
Si tratterà allora di porre davvero la croce al centro della vita del giovane, quasi di piantargliela in cuore, perché scopra progressivamente come solo la croce del Figlio, quale segno innalzato da terra dell’amore più grande, possa dare senso a tutto, davvero a tutto, al passato e al presente, al limite personale e alla debolezza, all’impotenza e al peccato, alla vita e alla morte, alla sofferenza e all’amore, alla sua scelta vocazionale e a ogni scelta di vita; poiché solo la pasqua del Signore può trasformare il male in bene, l’assurdo in sensato, l’offesa ricevuta in purificazione radicale, la malattia in partecipazione responsabile alla salvezza, la morte in vita…; solo l’amore espresso dalla croce può giudicare la storia personale e orientare l’amore, formare la coscienza e illuminare gli occhi della mente, portare a galla ciò che è inconscio e inconfessato, ferire e sanare, scoprire l’autentico mistero della sessualità e darle ordine, dirne natura e ricchezza, svelare illusioni e trucchi, difese e reticenze dell’egoismo umano, rivelare che l’amore ha le stigmate e se non ce l’ha non è vero amore… La croce è la verità della vita.
Per questo attira (“Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”, Gv 12,32), per questo ricompone e ricongiunge ciò che era diviso, arido e disperso, ogni frammento di vita e d’umanità (cf. Ez 37,1-15); “nulla si sottrae al suo calore” (Sal 18), poiché la croce è quel centro vivo e caldo attorno al quale il giovane deve progressivamente imparare a far girare la sua vita, impulsi, limiti, sentimenti, istinti, desideri, progetti, passioni, sogni, relazioni…
Essa è quell’icona che lo sguardo del giovane in formazione deve continuare a fissare lungo il cammino formativo (cf. Gv 19,37), come gli ebrei nel deserto.
Amedeo Cencini
1 Dal modello della perfezione al modello dell’integrazione. Conseguenze pratiche, relazione tenuta all’incontro dell’AMCG, Roma 14 giugno 2003.