PACE IN MEDIO ORIENTE

DIFFICILE MA NON IMPOSSIBILE

 

Per arrivare alla pace bisognerà superare numerosi ostacoli. Non si può dimenticare che una storia drammatica incombe sul presente. In più c’è tutta una serie di condizioni difficili da concordare. Con un po’ di ottimismo, possiamo tuttavia dire: difficile, ma non impossibile.

 

Road map, carta stradale: sarà bene familiarizzarci con queste parole – ora citate ogni giorno nei mass-media – perché esse, nella loro apparente genericità, racchiudono nientemeno che la speranza di aprire una via che entro il 2005 porti alla desiderata pace tra lo stato d’Israele e l’autorità palestinese. Com’è nata questa “mappa”? Che cosa prevede? Raggiungerà il suo traguardo o lo vedrà sparire come un miraggio?

La Road map (cf. scheda) è un’ipotesi formulata dal presidente statunitense George W. Bush nel giugno del 2002, sviluppata nei tre mesi successivi da concertazioni con Nazioni Unite, Unione Europea e Russia – da un “quartetto”, dunque – e infine proposta alle due parti in causa il 30 aprile 2003. La sua attuazione è iniziata però già in ritardo, e questo peserà; tuttavia, il 29 giugno è ripartita con nuovo vigore.

 

IL PASSATO

INCOMBE SUL PRESENTE

 

La “mappa” ha alle spalle un cammino complesso e spesso tragico; ne diamo qualche flash degli ultimi quarant’anni. Nel 1964 nasce l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, quasi subito guidata da Yasser Arafat. Scopo dell’Olp: cancellare lo stato d’Israele, e creare nel territorio ex britannico uno stato democratico in cui vivano arabi ed ebrei.

Al termine della vittoriosa “guerra dei sei giorni”, nel giugno 1967 Israele occupa il Sinai egiziano, le alture siriane del Golan, la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme-est (allora in mano giordana): questi tre ultimi sono i Territori palestinesi.

I governi israeliani, dal 1968 a oggi, hanno approvato la costruzione di “insediamenti” nei Territori; una decisione contraria alla IV convenzione di Ginevra del 1949, che vieta agli stati che occupano un altro paese di modificarne sostanzialmente la composizione. Gli “insediamenti” – cresciuti a mano a ma­no – sono cittadine o villaggi ebraici fortificati, disseminati a pelle di leopardo, che spezzano con violenza i Territori, e costruiti su terreni spesso requisiti con la forza ai palestinesi sotto il pretesto della sicurezza (israeliana). Oggi, nella Striscia e in Cisgiordania essi sono circa 190, con 220mila abitanti.

Nel 1980 la Knesset (parlamento israeliano) proclamò – malgrado il no dell’Onu – l’intera Gerusalemme capitale “eterna” e “indivisibile” d’Israele. L’Olp rivendica la parte est della città come capitale della Palestina.

Nel 1987 inizia la prima “intifada”, la sollevazione dei palestinesi contro l’occupazione israeliana. Nel 1988 l’Olp riconosce di fatto il diritto di Israele all’esistenza, ma nei confini antecedenti la “guerra dei sei giorni”.

Il 13 settembre 1993 Israele e l’Olp firmano a Washington un accordo, preparato nei mesi precedenti ad Oslo, che prevede: mutuo riconoscimento delle due parti, fine della violenza, autonomia alla Striscia di Gaza e alla Cisgiordania ed, entro cinque anni, la pace definitiva.

I “nemici della pace” saboteranno questi accordi. Il 4 novembre 1995 un estremista ebreo assassina il premier israeliano Yitzhak Rabin, definito “sacrilego” perché voleva dare ai palestinesi quella terra – Gaza e Cisgiordania – che Dio avrebbe promesso solo agli ebrei. D’altra parte, a livello ufficiale continua la politica degli “insediamenti”.

Sul fronte palestinese, i movimenti islamici radicali – come Hamas e la Jihad islamica – contestano la linea “compromissoria” di Arafat, sostengono che gli accordi non frenano l’occupazione militare israeliana, giudicano legittimo (per motivi politici e religiosi) favorire i “kamikaze” – i giovani che, imbottiti di esplosivo, si fanno saltare in aria non solo contro obiettivi militari e coloniali israeliani nei Territori, ma anche civili (bus, mercati, bar) all’interno di Israele, con un unico scopo: uccidere “sionisti”.

Nel luglio del 2000 il presidente statunitense Bill Clinton tenta, invano, di portare il premier israeliano Ehud Barak e Arafat ad un’intesa globale. Il 28 settembre 2000 Ariel Sharon – leader del Likud, il maggior partito della destra, allora all’opposizione – entra a Gerusalemme nella spianata delle moschee (monte del Tempio, per gli ebrei), circondato da un migliaio di soldati, e proclama: “Anche questo è Israele”. In risposta alla “intollerabile provocazione” i palestinesi danno inizio alla seconda “intifada”, che vedrà un crescendo di violenze e controviolenze tremende. Sharon, eletto premier nel 2001, e rieletto nel 2003, fa iniziare la costruzione di un alto muro che separi Israele dalla Cisgiordania.

 

TRA UTOPIA

E POSSIBILITÀ

 

Rispetto al 1993, la Road map si situa in un contesto internazionale molto favorevole a Israele, essendo scomparsa la minaccia di Saddam Hussein. Del resto, seppure pensata l’anno scorso, Bush ha messo le ali alla “mappa” solo il 30 aprile 2003, e cioè alla conclusione ufficiale della vittoriosa “guerra preventiva” contro l’Iraq. Per creare il suo “nuovo Medio Oriente”, il capo della Casa bianca doveva dimostrare agli arabi di essere capace non solo di annientare un regime accusato di possedere armi (fin qui mai trovate!) di distruzione di massa ma, anche, di sanare il conflitto israelo-palestinese.

Ritenuto inaffidabile dagli Usa, il presidente Arafat è stato costretto ad accettare la creazione di un premierato, e dunque a condividere il potere (che gli deriva, comunque, da elezione democratica). Neopremier è stato scelto Abu Mazen, l’”architetto” degli accordi di Oslo. L’autorità palestinese è stata indotta ad accettare la Road map anche perché la vita quotidiana della gente è ormai insopportabile. L’occupazione militare israeliana rende impossibile muoversi all’interno degli stessi Territori; ogni attività economica è bloccata; e le famiglie chiedono sicurezza e lavoro – beni che il “kamikazismo” non può garantire.

Hamas e la Jihad islamica per due mesi hanno respinto la “mappa”. Ma, il 29 giugno scorso, i leader dei movimenti radicali – tra essi lo sceicco Ahmad Yasin, guida spirituale di Hamas – hanno accettato, per tre mesi, una “sospensione delle attività militari”, pur riaffermando il diritto di “resistenza” contro l’occupazione israeliana. Lo stesso giorno Sharon ha ordinato il ritiro dei carri armati dal Nord della Striscia. Pressato da Bush anche il premier, meravigliando molti suoi fans che l’avevano votato nel gennaio scorso, ha detto sì ad uno stato palestinese.

Sulle due parti, d’altronde, pesano i rispettivi morti della seconda “intifada”. Dal 28 settembre 2000 al 27 giugno 2003 questo, infatti, secondo varie fonti, il bilancio: 787 vittime israeliane, di cui 606 civili e 27 minori di 12 anni; 2.568 vittime palestinesi – due terzi civili – di cui 474 minori di 18 anni; distrutte inoltre centinaia di case e tantissime infrastrutture palestinesi, e tagliate molte migliaia di olivi nei Territori.

Adesso, malgrado le parole di pace, restano ovviamente molti problemi. Hamas e la Jihad islamica finora non hanno affermato in modo inequivocabile il diritto d’Israele all’esistenza, diritto invece proclamato dall’Olp e dall’autorità palestinese. E “quanta terra” Sharon vorrà dare allo stato palestinese? Il premier non ha mai accettato che Israele si ritiri entro i confini del 1967; che la Palestina sia formata, oltre che dalla Striscia, da tutta la Cisgiordania (nell’insieme sarebbero 6200 km?; lo Stato d’Israele è di 20.700 km?); che Gerusalemme est diventi capitale della Palestina; che tutti gli insediamenti siano smantellati.

Due popoli, due stati, prevede anche la Road map. Uno stato, Israele, c’è, e va garantito; uno, la Palestina, non c’è, e va creato. Va perciò infranto il mito degli estremisti palestinesi che vogliono cancellare Israele; e contrastata la pretesa di quegli ebrei israeliani che vorrebbero lo stato palestinese formato da una serie di enclave cisgiordane all’interno d’Israele e non confinanti con la Giordania; e con una superficie del 50% della Cisgiordania. Questo stato, amputato e irrisorio, sarebbe una beffa, respinta anche dai palestinesi “moderati”.

Inoltre, è evidente che, se Hamas e la Jihad islamica (e anche le brigate al-Aqsa – dal nome della grande moschea della spianata di Gerusalemme – legate ad al-Fatah, la corrente maggioritaria dell’Olp) accettano di fatto la tregua d’armi, questa non resisterà neppure un secondo se Sharon continuerà con la politica delle “esecuzioni mirate” di militanti di Hamas e soci e – “effetto collaterale”! – di quanti si trovassero con loro, bambini compresi. O se i ”kamikaze” riprenderanno i loro suicidi-omicidi.

Mentre scriviamo le due parti, pur con molte “condizioni”, hanno riaffermato il loro sì alla Road map. Il seguito del cammino dirà se questa accettazione sia stata sincera, o solo tattica in attesa, con un pretesto, di dire no, rovesciando sull’altra parte la responsabilità del fallimento. Sappiamo bene, per esperienza, che domattina un nuovo sopruso israeliano, o un nuovo attentato palestinese, potrebbe lacerare la “mappa”.

E, tuttavia, se si vorrà arrivare alla pace, sempre e comunque si dovrà: 1. garantire Israele, nei confini del 1967, sia pure con inevitabili, ma concordate, rettifiche di confine; 2. creare e garantire uno stato (stato, non bantustan) palestinese; 3. favorire la collaborazione economica e, in prospettiva, la riconciliazione spirituale tra le popolazioni dei due stati; 4. trovare una soluzione equa per i profughi (quelli palestinesi, i figli dei figli, oggi sono sui tre milioni); 5. smantellare gli insediamenti; 6. fare di Gerusalemme una città condivisa, capitale a ovest d’Israele, a est della Palestina. Difficile? Difficilissimo; ma nulla di meno richiede la pace in “Terra santa”.

 

Luigi Sandri