Gentile direttore,
a proposito
dell’enciclica del papa “Ecclesia de Eucharistia”, vorrei fare alcune
osservazioni all’articolo di Riccardo Barile, pubblicato su Testimoni 9 (pp.
5-7) e precisamente sull’ultimo paragrafo “alcuni rilievi”.
Il termine “cena” riferito all’Eucaristia è usato una
sola volta nel NT in 1Cor 11,20. Ma anche in questo caso è «discusso se tutto
il banchetto fosse eucaristico o se l’Eucaristia giungesse solo nel convito o,
forse meglio, al suo temine» (cf. La Bibbia 3, Marietti, commento al testo
citato). È difficile infatti capire i disordini di cui parla s. Paolo proprio
durante l’Eucaristia, comunque è chiaro anche per s. Paolo che l’Eucaristia
prima che “cena” e “tavola” è sacrificio e croce: «Ogni volta che mangiate di
questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte» (non la “cena”
del Signore) (1Cor 11,26). Del resto già nei Padri apostolici l’Eucaristia è un
rito staccato dal pasto fraterno. Ma lascio la parola a un autore protestante:
«Nella cena del Signore ciò che è essenziale è l’amore di Cristo che si immola.
Perciò l’atto di magiare e bere con cui si proclama la morte del Signore viene
al secondo posto, non al primo» (H. D. Wendland, Le lettere ai Corinti,
Paideia, Brescia, 1976, p. 192).
L’autore dell’articolo sembra non gradire il termine
“consacrazione”. Eppure è usato anche nelle rubriche del Messale di Paolo VI
(cf. Principi e Norme, 55.c).
Se ho ben capito, all’autore non piace che il papa abbia
ribadito gli aspetti devozionali e il culto eucaristico fuori della santa
messa. La sua preoccupazione sembra soprattutto ecumenica.
Prima di tutto non capisco perché soltanto noi cattolici
dobbiamo rinunciare a qualcosa che ci è specifico. Del resto agli altri viene
richiesto solo ciò che è “dogma”. Nel nostro caso, dogma è solo la “presenza
reale” anche fuori della messa. A questo gli ortodossi ci credono, tanto è vero
che conservano le sacre specie, sia pure soltanto per gli ammalati.
Neppure comprendo perché tanta antipatia da parte di
certi liturgisti per il culto eucaristico fuori della santa messa. Se è
teologicamente certo che anche i dogmi ammettono un certo “progresso” e un
approfondimento, possibile che soltanto l’Eucaristia debba rimanere allo stato
embrionale? Se è verità di fede che Gesù è presente nell’ostia consacrata anche
finita la santa messa, perché non trarne le conseguenze? Si dice che gli
ortodossi hanno sostituito il culto eucaristico con il culto delle icone. Non
mi sembra un gran progresso e comunque non si può paragonare al culto
eucaristico, com’è in uso tra i cattolici. Del resto anche in teologia gli
ortodossi sono rimasti ai primi otto concili ecumenici, come se lo Spirito
Santo dall’ottavo secolo in qua fosse stato inerte.
Ho letto molte storie di convertiti e ho notato che
specialmente quelli che vengono dal protestantesimo sono attirati proprio dal
culto eucaristico e della S. Vergine, cioè dalle devozioni più ostiche per i
protestanti.
Fr. Pio
Volcan
Santuario
Madonna del Frassino
Peschiera
del Garda
Com’era prevedibile, lei ha letto più di quello che ho
scritto. Cominciamo con la cena e
la tavola di 1Cor 11,20 e 10,21. Lei osserva e velatamente controbatte che
prima che cena e tavola, l’Eucaristia è sacrificio e croce: ma io non ho
affrontato questo problema e dunque non ho sollevato il benché minimo dubbio
sul “sacrificio” eucaristico! Ho solo rilevato che si continua ad aggettivare i
termini eucaristici con troppo abbondanti “santo” e “santissimo”, mentre il NT
non presenta questa tendenza, ma si limita ad aggiungere al termine profano
“pasto/tavola” la specificazione “del Signore”. Quanto alla “profanità” dei
termini, deipnon (pasto), oltre a indicare l’ultima cena in Gv 13,2.4 e 21,20,
è usato per i banchetti dei farisei e per il banchetto di Erode fatale al
Battista (Mt 23,6; Mc 6,21); trapeza (tavola), oltre a quella dell’ultima cena
in Lc 22,21, è la tavola del ricco epulone (Lc 16,21). A sua consolazione
aggiungo che l’aggettivazione previa è praticata anche tra gli ortodossi, che
sulle icone dell’ultima cena a volte scrivono “mistico” pasto (deipnon) e dai
protestanti, compreso Lutero che usa l’espressione “santa” cena. Ciononostante,
tale non è la scelta del NT e in tutto questo c’è una intelligenza: il culto e
la santità definitivi sono la vita dei cristiani, con buona pace de I santi
segni di Guardini.
La risposta su questo punto sarebbe esaurita, ma mi
permetto di contestare un poco i suoi argomenti, senza entrare in merito di che
cosa ci comunicano “storicamente” i testi del NT sulla cena del Signore. Il
mangiare e il bere sarebbero secondari? Come la mettiamo con il comando di
Cristo di prendere e mangiare e bere? di fare questo in memoria di lui? Inoltre
su questa impostazione che distingue tra l’essenziale dell’Eucaristia e il
nostro mangiare/bere grava una discutibile pregiudiziale teologica, e cioè la
distinzione tra sacrificio e sacramento, tra la perfezione/compimento del
mistero e la sua destinazione conviviale.
Le rubriche del Messale di Paolo VI usano la parola
“consacrazione”? Verissimo. Ma proprio prevedendo l’obiezione, ho parlato di
“preci eucaristiche” – e non di rubriche – che usano il termine
“santificazione”. Evito di citare i riferimenti latini per non appesantire, ma
non posso non citare la bella formula della seconda preghiera eucaristica:
«Spiritus tui rore sanctifica / santifica (i doni) con la rugiada del tuo
Spirito». Il mio cenno non era l’indicazione di un errore, ma solo il desiderio
che questa parola (santificare) passasse nel linguaggio. A sua consolazione
aggiungo che l’attuale terza edizione del Messale latino nell’ordinario della
messa parla di mostrare l’ostia “consacrata” e nell’Institutio
consacrazione/consacrato(a) ricorrono più di una volta: nn. 79.d, 150-151, 157,
163, 179, 243, 324, 331 ecc.
Quanto al culto eucaristico, non ho sostenuto che «noi
cattolici dobbiamo rinunciare a qualcosa che ci è specifico», magari per far
piacere agli ortodossi e soprattutto ai protestanti. Ho invece ribadito la
distinzione tra ciò che è la tradizione fondante del mistero cristiano e i
frutti – non più fondanti – nati in alcune chiese, i quali non vanno azzerati,
ma appunto riconosciuti come frutti di “alcune” chiese (solo in tal senso
“specifici”). Così il culto eucaristico come lo conosciamo è una tradizione
latina che va proposta ma non imposta agli altri cristiani, mentre affermare
che essa appartiene alla “integralità” dell’Eucaristia può generare equivoci.
Beninteso che il criterio vale anche in senso opposto, per cui, in una
auspicata unione con l’oriente, i cattolici latini non sarebbero obbligati ad
adottare la sensibilità ortodossa verso le icone, tanto per restare a un suo
esempio.
Lei afferma che il culto eucaristico al di fuori della
messa – suppongo la sequenza esposizione, adorazione, benedizione – è uno
sviluppo e che come tale va accolto. Siccome non ho fatto alcun cenno in
argomento, non ho nulla negato o posto in dubbio. Poiché lei ne parla, convengo
che si tratta di un progresso, ma non si può non rilevare che storicamente non
sempre le basi dottrinali furono complete. Non basta la presenza reale – cui,
per evitare equivoci, bisognerebbe aggiungere “sostanziale” – per fondare
l’adorazione eucaristica: essa va riformulata tenendo conto della destinazione
del pane santificato (vede come suona bene invece di “consacrato”?) a essere
assunto come cibo. Dunque il semplice colloquio va integrato con il
prolungamento o la preparazione alla comunione (cf. i nn. 88-90 del competente
libro liturgico). Ma nella pastorale non sempre avviene e da qui la lamentela
di «certi liturgisti».
Grazie comunque delle sue osservazioni, che danno modo a
tutti di riflettere. Quanto a me – con la dovuta distanza – posso ripetere ciò
che Lutero diceva di se stesso: «Che io voglia o no, sono costretto a diventare
di giorno in giorno più dotto, poiché tanti e tanto illustri maestri a gara mi
tribolano e mi assillano» (La cattività babilonese della Chiesa, Proemio).
Riccardo
Barile