LA 62a ASSEMBLEA SEMESTRALE DELL’USG

IL RELIGIOSO UOMO DI DIALOGO

 

Il religioso è uomo di dialogo e al servizio del dialogo sia nei propri istituti che nella Chiesa. Significative le testimonianze di alcuni vicari generali di istituti religiosi, invitati per la prima volta all’assemblea. I consigli di p. Bocos Merino a chi inizia, a chi è a metà strada e a chi finisce il proprio mandato.

 

Non è mai stato facile non solo il dialogo interno a una comunità religiosa, ma neanche quello interno ad un istituto religioso; così come non è mai stato facile quello tra vita consacrata e comunità ecclesiale nel suo complesso; difficile sì, ma quanto mai necessario e urgente, proprio in un contesto culturale ed ecclesiale come il nostro.

Sono questi alcuni dei motivi per i quali l’Unione dei superiori generali ha voluto dedicare al tema specifico del dialogo la sua ultima assemblea, svoltasi al Salesianum di Roma dal 28 al 31 maggio. Insieme ai superiori generali questa volta erano stati esplicitamente invitati anche i loro vicari o assistenti, interrogandosi concretamente sul loro ruolo all’interno di un consiglio generale.

Aprendo i lavori, il presidente dell’USG, fr. Álvaro Rodriguez, ha invitato i presenti a compiere un “grande sforzo” e convincersi che «il dialogo non è facile… è possibile solo tra persone che non siano decisamente sicure di se stesse né delle loro opinioni e che sappiano vivere l’insicurezza, che presuppone il rispetto dell’altro»; bisogna sapersi avvicinare all’altro senza pregiudizi, in un atteggiamento di apertura e di ammirazione che «ci permetta di scoprire il messaggio di Dio attraverso la sua mediazione, disposti a lasciarsi trasformare dalla sua verità». È ancora più importante sapersi mettere al posto dell’altro, con la speranza, come ha scritto Jean Guitton, «che il suo punto di vista ci insegni qualcosa di nuovo, che completi il nostro modo di pensare, che ci permetta di ampliarlo, di approfondirlo».

 

DIALOGO IN COMUNITÀ

E NEI NOSTRI CAPITOLI

 

Ancora oggi è impossibile parlare di dialogo senza rifarsi alla Ecclesiam suam di Paolo VI; vi si sono riferiti esplicitamente un po’ tutti i relatori dell’assemblea. Se le caratteristiche chiave del dialogo, secondo questa enciclica, ha affermato la prof.ssa Donna Orsuto, della università Gregoriana, sono la chiarezza, la mitezza, la fiducia o confidenza, la prudenza, come è possibile – si è chiesta – promuovere concretamente il dialogo tra le culture, tra uomini e donne, tra noi stessi e i poveri? È possibile, ha risposto, coltivando l’amicizia, ascoltando l’altro con attenzione, promovendo un amore che allontani il timore, cercando di vedere l’altro nella migliore luce possibile, trattando gli altri con un rispetto straordinario, guardando gli altri con gli occhi stessi di Dio.

Sono stati soprattutto gli altri due relatori, padre Mark Francis, superiore generale dei Chierici di san Viatore e padre Jesús Maria Lecéa, superiore generale degli scolopi e presidente della Conferenza dei superiori maggiori europei (Ucesm) ad affrontare in maniera più esplicita il tema del dialogo all’interno della vita religiosa. «Io sono convinto da molto tempo, ha detto p. Francis, di ciò che osservo nel mio stesso istituto che la misura della salute di una comunità locale o provinciale è direttamente proporzionale al modo con cui i membri sono capaci di condividere gli uni gli altri i rispettivi punti di vista e i rispettivi sforzi spirituali e personali». Certamente lo stato psicologico dei singoli religiosi non è tutto, però «una comunità che si prende il tempo per incoraggiare i propri membri a conoscersi a vicenda e a impegnarsi in conversazioni che riguardino gli aspetti più profondi delle loro convinzioni e dei loro sentimenti, è una comunità in grado di affrontare le tensioni che sorgono in modo inevitabile quando si vive la vita comune».

Quali sono gli aspetti, si è chiesto, che possono incidere favorevolmente o meno sul dialogo? Se è importante, anzitutto, il modo con cui la comunità locale tenta di mettere in pratica il carisma dell’istituto, non sono però meno importanti altri aspetti come le condizioni materiali nelle quali la comunità trascorre la sua vita quotidiana, dall’alloggio al vitto, ai mezzi di trasporto ecc.; così come sono altrettanto importanti il contesto culturale e familiare della vita di una comunità, la vita affettiva, le vicende dell’istituto, i timori e le speranze per il futuro, le dinamiche organizzative dell’istituto stesso, l’itinerario spirituale di una comunità, il suo impegno nella fedeltà alla tradizione e alla disciplina della Chiesa.

Il dialogo però non chiama in causa ovviamente solo la comunità locale; anzi, prima ancora deve partire dai capitoli generali e provinciali, dalle assemblee generali dell’istituto. Purtroppo, però, ha commentato p. Francis, il lavoro principale di questi incontri, spesso è tutto incentrato sulle questioni giuridico-legali e sulla scelta delle strategie operative; i problemi di fondo per la vita di un istituto vengono messi da parte; «un discorso come quello della inculturazione del proprio carisma, ad esempio, sviluppa sicuramente un maggior entusiasmo e una più ampia partecipazione da parte di tutti i membri che non un capitolo che abbia a che fare esclusivamente con la legislazione e le strategie».

Una comunità religiosa è oggi chiamata a saper dialogare in modo nuovo anche con i laici, consapevoli del fatto, ha detto il relatore, che «per molti laici cristiani le comunità religiose costituiscono l’unico spazio per una interazione dialogica con la Chiesa»; e questo è vero anche per il fatto che spesso «gli istituti religiosi offrono un volto della Chiesa più abbordabile e meno dittatoriale, più aperto al dialogo e meno incline a imporre delle soluzioni».

Sia chiaro, ha concluso p. Francis, che il dialogo non è una cosa facile; è invece molto difficile e doloroso, dal momento che spesso per dialogare efficacemente bisogna saper cambiare i propri punti di vista, le proprie convinzioni, i propri modi di operare; il dialogo, in altre parole, richiede praticamente una continua conversione, e questo non sempre è facile né alla portata di tutti.

 

DIALOGO,

TENSIONI E CONFLITTI

 

Ma cosa comporta ancora più concretamente per la vita religiosa, si è chiesto padre Lecéa, saper entrare in dialogo con la Chiesa, con i laici, con i pastori, con il mondo? Non possiamo anzitutto negare o nascondere le difficoltà del dialogo all’interno della Chiesa; è più che evidente «una certa sensazione, difficile da precisare, di raffreddamento del dialogo. Sono addirittura riapparsi certi fantasmi che sembravano sepolti una volta per tutte nel passato». All’interno della Chiesa certe svolte autoritarie sembrano prendere nettamente il sopravvento su altre dimensioni della vita ecclesiale. Ora, la vita religiosa, proprio in forza della sua ricchezza carismatica che le proviene dallo Spirito, vuole contribuire direttamente alla edificazione della Chiesa. Ma il carisma esige anche libertà; una vita religiosa troppo addomesticata compromette la piena realizzazione del suo progetto apostolico; le mutuae relationes tra vita religiosa e autorità ecclesiastica non possono procedere sotto la spinta di velate minacce; qualora ce ne fossero, bisognerebbe subito dissiparle; non servirebbe a nulla, di fronte a certe difficoltà, ripiegarsi nel silenzio, ignorarsi a vicenda, andare ognuno per la propria strada; bisogna invece trovare vie di incontro «anche in mezzo alle tensioni e persino in mezzo ai conflitti», dal momento che la comunità ecclesiale ha come compito primario quello di garantire la libertà di tutti i suoi membri.

Ma prima di giudicare gli altri, ha detto p. Lecéa, dobbiamo guardare a noi stessi. Per troppo tempo abbiamo privilegiato «ciò che ci distingueva dalle altre vocazioni nella Chiesa e persino dagli altri religiosi. Questa via di contrasto ha sfigurato a volte il volto della comunità ecclesiale, che è una comunità di fratelli, uguali in dignità, compagni di strada nella sequela di Gesù».

Anche padre Lecéa è ritornato sul dialogo tra vita religiosa e laicato. C’è un’affinità vocazionale ecclesiale tra vita religiosa e laicato; le radici di questa affinità vanno ricercate nel battesimo e nella partecipazione all’unica missione di Cristo. Ora l’invecchiamento dei religiosi e la crescente mancanza di vocazioni può far dimenticare questo punto di partenza; non è allora infrequente il rischio «di mettere a fuoco il dialogo con i laici nella misura in cui ci danno una mano per portare avanti le opere che da soli non possiamo ormai curare. Sappiamo che questo modo di impostare le cose è sbagliato. I laici non sono le persone di cui abbiamo bisogno perché coprano le nostre assenze e le nostre perdite. Non sono persone che ci sostituiscono in quelle opere che ormai non riusciamo a portare avanti. Abbiamo bisogno gli uni degli altri non per fare le cose di Chiesa, ma per evangelizzare».

A volte, inoltre, il dialogo con i laici è negativamente condizionato dal sospetto e dalla diffidenza reciproca. Qui si impone un cambiamento di mentalità, un nuovo stile di vita. «Noi religiosi siamo davanti ad una sfida molto delicata. Qualcosa di nuovo sta nascendo», a condizione però che si prenda coscienza del fatto che, in una Chiesa di comunione, «tutti abbiamo un identico punto di partenza: la chiamata universale alla sequela di Cristo».

 

DIALOGO

TRA VESCOVI E RELIGIOSI

 

Una delle forme di dialogo da sempre più problematiche è quello tra religiosi e vescovi. Se da una parte, secondo gli orientamenti conciliari, i vescovi devono aiutare i religiosi a crescere e fiorire secondo lo spirito dei loro fondatori, dall’altra i religiosi non possono non rispettare e ubbidire ai vescovi in ragione della loro autorità pastorale sulle chiese particolari; alla deferenza cordiale, non finta o opportunista, dei religiosi ai propri vescovi, deve corrispondere da parte di questi ultimi un impegno a favorire la vita religiosa in vista della comune missione della Chiesa. Sia da una parte che dall’altra è richiesto un dialogo rispettoso e profondo sui temi importanti della missione e della vita della Chiesa, senza reciproche paure; non è possibile oggi non affrontare insieme problemi come quelli della vita, della famiglia, della questione femminile, della giustizia sociale, della pace, dell’ecumenismo, del dialogo interreligioso.

Se i religiosi sono chiamati a svolgere il loro ministero ecclesiale a servizio di una concreta comunità e in comunione con il proprio vescovo, non è assolutamente possibile “deludere”, o peggio ancora, “scandalizzare” la comunità. Questa, infatti, ha detto il relatore, «non si meraviglia del fatto che ci possano essere dei conflitti, che possono sorgere in qualsiasi momento, ma si scandalizzerà a ragione se, come fratelli in Cristo, non troviamo le nostre risorse adatte per superarli e risolverli». Ma per questo è necessario superare una mentalità troppo “amministrativa” nello svolgimento della propria missione. Non bisogna mai dimenticare che l’unica missione della Chiesa va ben oltre il fatto puramente amministrativo.

Un corretto dialogo sia all’interno della Chiesa che tra gli istituti religiosi, non potrà non favorire poi anche un più sereno dialogo con il mondo stesso. In quanto religiosi, ha detto padre Lecéa, «siamo inviati dalla Chiesa per il mondo». Rapportarsi al mondo in un atteggiamento di dialogo, significa superare decisamente una certa fuga mundi che ha caratterizzato a lungo, nei secoli passati, la vita della Chiesa. Se una volta si “fuggiva” dal mondo, oggi siamo invece invitati a saper cogliere i “segni dei tempi” di ogni epoca storica; il vangelo che invita a vivere nel mondo senza essere del mondo; e questo significa anche sapere prendere le distanze dal mondo, andare contro corrente quando i valori proposti dal mondo contrastano con quelli proposti dal vangelo; basti pensare a tutte le forme di ingiustizia sociale, a tutti gli attentati contro la dignità della persona umana e dei suoi legittimi diritti, alle tante violenze che pregiudicano spesso in modo radicale la pace. “Essere nel mondo”, in senso positivo, significa per padre Lecéa «che la vita religiosa si sente parte attiva della comunità umana, con la responsabilità di contribuire alla sua umanizzazione e con la vocazione di annunciare il vangelo di salvezza di Dio».

Sarebbe del tutto sbagliato, ha concluso il relatore, vedere nei tempi nuovi soltanto una “minaccia” sia per la Chiesa che per la vita religiosa. Proprio nel nostro tempo bisogna saper scrutare e scoprire l’attiva presenza di Dio. «Proteggersi soltanto, è trincerarsi, fermarsi, rimanere chiusi in un monologo e non aperti al dialogo. Aprirsi è invece uscire all’incontro, camminare con lo sguardo rivolto in avanti, disposti al dialogo».

 

LA PAROLA

AI VICARI GENERALI

 

Per la prima volta, come abbiamo sopra ricordato, sono stati esplicitamente invitati all’assemblea dei superiori maggiori anche i loro vicari e i loro assistenti generali. Tre di loro hanno preso direttamente la parola raccontando la loro vita accanto ai rispettivi superiori.Se secondo le costituzioni proprie il vicario generale del rettor maggiore dei salesiani, Luc Van Loy, è il suo primo collaboratore, ha una potestà ordinaria vicaria, si occupa direttamente della vita e della disciplina religiosa, è il primo animatore della famiglia salesiana, secondo la prassi è inoltre responsabile della casa generalizia e del funzionamento della direzione generale, segue l’istituto storico salesiano e la biblioteca centrale, coordina con il rettor maggiore il consiglio generale, segue il funzionamento delle strutture di governo delle ispettorie e coordina la ricerca di personale per la case internazionali che si riferiscono direttamente al consiglio generale.

Il prendersi cura della vita e della disciplina religiosa non significa diventare il garante di una «osservanza strettamente religiosa»; significa piuttosto far comprendere come l’unione tra vocazione, consacrazione, fedeltà ai voti, vita comunitaria e missione «fa sì che la “vita” e la “disciplina” coincidano con tutti gli aspetti della vita dei singoli e delle comunità»; la disciplina infatti riflette l’insieme della vita spirituale, pastorale, organizzativa e amministrativa, sia a livello personale che comunitario; in altre parole, il vicario generale, alle dirette dipendenze del suo rettor maggiore diventa così il principale coordinatore di tutta la programmazione del sessennio del governo centrale in carica.

Una analoga attività viene svolta anche dal vicario generale dei redentoristi, attualmente Georges Darlix. Le costituzioni insistono in modo del tutto particolare sulla corresponsabilità nella animazione di tutto l’istituto; anche se la scelta dei consiglieri generali viene effettuata in base una rappresentanza regionale, tuttavia i consiglieri «non sono addetti al servizio esclusivo della regione, ma di tutta la congregazione». Tutte le più importanti decisioni del consiglio generale sono sempre prese «in dialogo tra tutti i membri del consiglio per consenso». Uno dei compiti principali dei consiglieri è quello della visita alle diverse unità della congregazione, che attualmente è presente in 77 paesi del mondo, con 5500 membri; «questo lavoro di animazione che occupa metà del nostro tempo, è vissuta in una comunicazione sincera, chiara, fraterna».

Proprio nello spirito di questa piena corresponsabilità anche il vicario generale «deve essere in stretta relazione di fiducia, di dialogo, con il superiore generale, soprattutto per condividere i casi più delicati e riservati che riguardano i confratelli e altri problemi»; ma questo suo ruolo non lo distingue più di tanto dagli altri consiglieri, con i quali condivide la responsabilità prima di animazione della regione a lui affidata.

Il dovere «primo e principale» del vicario generale dei Fratelli delle Scuole Cristiane, è quello di assicurare, insieme a tutti i membri del direttivo generale, la fedeltà al carisma vivente del fondatore»; «è un compito, ha detto l’attuale vicario generale, William Mann, che davvero mi appassiona». Se questo è il compito principale, ce ne sono altri non meno importanti; rientra, ad esempio, nella piena responsabilità del vicario generale fare tutto il possibile per aiutare il superiore generale nel suo ruolo di governo e di animazione dell’istituto, rendendogli la vita un po’ più facile, cercando soprattutto, quando capitano, di calmare le “tempeste”.

Se rientra nelle responsabilità del vicario generale «alleggerire il fardello» del superiore generale, sostituendolo e rappresentandolo, quando necessario, nei principali eventi internazionali dell’istituto e della famiglia lasalliana, questo lo fa in quanto “primo collaboratore” del superiore generale, con il quale è chiamato ad assicurare la comunione e l’interdipendenza della diversa “realtà sociale e culturale» dell’istituto stesso.

«Siamo in quattordici a viaggiare per il mondo», ha detto fratel Mann, il quale, in quanto vicario generale, ha il compito di assicurare, coordinare, garantire l’equilibrio e il buon funzionamento non solo di questi “viaggiatori” ma anche delle nove commissioni istituite all’interno dell’istituto. Tra i compiti più recenti che gli sono stati affidati, oltre a quello delicato dell’accompagnamento delle comunità e del consiglio di amministrazione dell’università di Betlemme, c’è anche quello di accompagnare il processo di ristrutturazione di alcune unità all’interno delle otto province dell’America del Nord.

Il coordinamento di tutto il lavoro del governo centrale è naturalmente quello più impegnativo e difficile per un vicario generale. «Abbiamo preso delle buone decisioni e anche delle cattive decisioni. Abbiamo avuto qualche successo e siamo anche incappati, sfortunatamente, nella nostra stessa “turbolenza” in alcune sacche di resistenza al cambiamento». Nonostante tutto, fratel Mann ritiene di poter dire di aver fatto «un grande progresso nel dare testimonianza di quello che diciamo nei nostri documenti».

 

I CONSIGLI

DI BOCOS MERINO

 

Al termine e dall’alto della sua consumata esperienza di superiore generale dei clarettiani, p. Aquilino Bocos, si è permesso di suggerire alcuni consigli non solo ai superiori generali che iniziano o a quelli che si trovano a metà del loro servizio, ma anche a quelli rieletti e a quelli che terminano il loro superiorato.

L’entusiasmo di chi inizia, sentendosi stimolato dalla grazia ricevuta dallo Spirito e dall’appoggio dei confratelli, è quanto mai comprensibile. Ma guai a lasciarsi prendere dalle emozioni; deve prevalere la fede per agire sempre con spirito di servizio evangelico; è importante leggere con insistenza Gv 13, pregare moltissimo per i propri confratelli e chiedere con insistenza il dono della sapienza. Il governo deve essere assunto come missione di servizio per tutto l’istituto e per la Chiesa, coniugando costantemente inserimento locale e cattolicità della missione, identità del proprio istituto e collaborazione con tutti gli altri carismi e ministeri.

È importante svolgere il proprio servizio in questo preciso momento storico, sapendo scrutare i segni dei tempi, in stretto contatto con la realtà di chi soffre ed è povero. I confratelli del consiglio generale devono essere accolti come fratelli con i quali condividere la missione del governo, ricordando insieme a loro l’ideale della vita consacrata e apostolica dell’istituto e insieme i principi, i criteri e gli atteggiamenti che devono guidare il governo.

Governare animando e animare governando, promuovendo la spiritualità di comunione e la missione condivisa con tutti i membri della Chiesa, soprattutto con i laici, ecco uno dei compiti più impegnativi di un nuovo superiore generale. Sarà più facile allora, partendo dagli orientamenti del capitolo generale, elaborare un piano di azione integrale, senza separazioni tra aree di governo, dando la priorità alle persone sulle opere, facendo della spiritualità il cantus firmus di qualsiasi piano di azione. Una volta calcolato bene quello che si può fare, bisogna essere risoluti nel portarlo a termine, senza sottrarsi a una verifica e a una valutazione del processo che si è seguito.

Altre linee guida del suo servizio sono quelle del coordinamento delle diverse realtà e unità dell’istituto, la promozione della comunicazione in rete, la partecipazione, la sussidiarietà e la corresponsabilità, la semplicità, la prossimità alle persone, la comprensione e la compassione, soprattutto verso i malati, gli anziani, i giovani, coloro che commettono degli errori e quelli che non hanno gratificazione.

Un superiore generale dovrebbe coltivare una relazione personale con i superiori maggiori del proprio istituto; questi infatti sono gli agenti più decisivi per l’animazione spirituale e apostolica; il pluricentrismo oggi esige una maggiore comunione e solidarietà, che si esprime concretamente nella circolazione dei beni e delle persone. È insieme importante rivedere di tanto in tanto il funzionamento del governo centrale, disposti ad accogliere l’imprevisto, appoggiando tutti i processi di novità e di crescita; dal momento che ci troviamo in un’epoca di grandi dialoghi culturali, religiosi, esperienziali, bisogna «allargare lo spazio della tenda» (Is 54,2) e incoraggiare i fratelli a valicare le frontiere, andando là dove nessuno vuole andare.

A chi ha già fatto una certa esperienza di superiore generale o a chi si accinge a concluderla è forse un po’ più difficile dare dei consigli; ma padre Bocos Merino ci ha comunque provato. Chi è arrivato a metà del suo servizio deve ricordarsi che è il momento centrale dell’attuazione del proprio piano di azione con i suoi progetti concreti. Gli anni intermedi «sono quelli più fecondi del governo»; è a quel punto che si scoprono più facilmente le luci e le ombre tra le quali ci si muove; le visioni ideali si devono confrontare con il realismo della situazione concreta. Proprio a metà del proprio servizio è importante: saper contare sul fatto che la grazia ha la propria ora e un suo dinamismo di crescita, essere memoria attiva della meta verso la quale si sta camminando, scommettere sulla capacità di cambiamento delle persone, attribuire una particolare importanza alle costituzioni come strada per il vangelo, preoccuparsi per le vocazioni, per la prima formazione e per quella continua in tutte le sue aree, accettare gli eventi della vita così come sono, impegnandosi a fare quello che si ritiene più giusto, accettando anche le incoerenze degli altri e la frustrazione di non veder condivise le proprie iniziative, verificare con il consiglio generale il piano di azione concordato, senza spezzare la canna infranta o spegnere il lucignolo fumigante, fare di tutto per superare le tentazioni dell’evasione, la inibizione, lo scoraggiamento, l’impazienza, la debolezza, la permissività e l’ambiguità, saper discernere le informazioni, non rifiutando anche le critiche e rettificando eventualmente il proprio comportamento, mantenere sempre e comunque il buon umore e la gioia intima, tratti caratteristici di «coloro che sono coscienti che stanno spendendo la propria vita per i fratelli e per la Chiesa».

 

QUANDO

IL GOVERNO LOGORA

 

Un superiore generale che viene rieletto, ha il vantaggio di conoscere già la realtà e di conoscere le strade da percorrere; la prima sfida, semmai, in questo caso, potrebbe essere proprio quella del recupero della freschezza degli inizi. La rielezione non va vista come un premio per la propria persona o per la propria gestione, quanto piuttosto come un incentivo per aiutare sia il proprio istituto che la Chiesa, sforzandosi di partire sempre da un “noi” congregazionale sempre più convinto e impegnato. È questo il momento, partendo dalla esperienza acquisita, di incrementare inventiva e creatività, fomentando nelle persone e nelle comunità la profezia della vita ordinaria, in un costante atteggiamento di apertura verso le nuove situazioni sociali, ecclesiali, congregazionali.

Se è importante cercare di evitare gli errori commessi nel periodo precedente, è altrettanto necessario superare ogni blocco per il timore di esperienze negative, ponendosi in una situazione di ascolto, di comprensione e di stimolazione.

«Il governo logora e la sua lunga durata logora ancora di più», ha detto padre Bocos Merino. Proprio per questo, nel momento della rielezione, bisogna aggiornarsi sulle nuove linee di pensiero e sui nuovi orizzonti che si aprono per la vita e la missione della Chiesa e per la vita consacrata. Dal momento che le forze fisiche e psichiche diminuiscono con il passar degli anni, proprio per il bene dei confratelli, bisogna essere sempre pienamente consapevoli degli sforzi che si è in grado di fare o di non fare.

E quando arriva il momento di concludere il proprio servizio? Ebbene, proprio questo è il momento di dare una grande testimonianza nella vita consacrata e nella Chiesa. La limitazione temporale del governo generale, dice il superiore dei clarettiani, «rende possibile il significato evangelico del distacco, della gratuità nell’esercizio dell’autorità e, soprattutto, della speranza nella vita del proprio istituto». Non è facile prepararsi alla fine della propria attività di governo. Lo può diventare a condizione di credere veramente che l’azione dello Spirito continua e che ha sempre dei successori, delle alternative per continuare la sua opera.

Che cosa poter consigliare concretamente a un superiore generale in queste condizioni? La risposta del generale dei clarettiani è immediata: considerare che il governo è un mezzo e non il fine, mantenere lo spirito di servizio come se si stesse iniziando, approfittare di ogni occasione per far crescere i fratelli nella speranza, mostrare che il carisma dell’istituto è vivo nelle comunità, è fecondo nella diversità delle culture ed è capace di intraprendere nuove strade di evangelizzazione, non interferire nell’azione di governo del successore, prepararsi a vivere momenti di solitudine che sicuramente non mancheranno, mettersi a servizio dell’istituto in un altro modo, offrendo alle nuove generazioni la testimonianza della propria esemplarità e della propria coerenza.

È importante convincersi sempre di più, conclude padre Merino Bocos, «che non ci è dovuto nulla», poiché «siamo servi inutili» (Lc 17,10). Dal momento che nessuno è a riparo dal rischio di commettere degli errori, bisogna «continuare a confidare nella misericordia di Dio e nella comprensione e nella pietà dei fratelli».

Una volta ascoltati i relatori, i vicari generali e i suggerimenti pratici di padre Bocos Merino, dopo aver confrontato nei gruppi linguistici i contenuti delle diverse relazioni con la propria esperienza, nelle assemblee generali dei superiori si arriva molto opportunamente a delle conclusioni generali operative (cf. fuoritesto).

 

IL CONVEGNO

INTERNAZIONALE

 

A livello più internazionale i superiori maggiori si sentono direttamente interpellati e impegnati in ordine al dialogo con la curia romana; non si sarà mai troppo generosi, hanno detto, nel mettere a disposizione persone dotate per le tante necessità della curia; il ponte ideale tra religiosi e curia non potrà non essere se non la stessa unione dei superiori maggiori; forse c’è ancora troppa distanza o anche una certa incomprensione fra istituti religiosi e dicasteri della curia romana; un più regolare contatto a questo riguardo non può che giovare a tutti, nella chiara ammissione che sia da una parte come dall’altra ci si può imbattere in valutazioni, correnti di pensiero e stili di vita diversi.

Un’altra forma di dialogo che l’assemblea avrebbe voluto più ampiamente sviluppare è quella relativa al dialogo tra uomini e donne nella Chiesa, un argomento profondamente condizionato, è stato detto, dalle differenze culturali dei vari paesi. «Riconosciamo che tendenze latenti alla dominazione maschilista ci sono ancora quasi dappertutto». I superiori generali sono convinti della importanza di una perseverante formazione in questo campo, sia per gli uomini che per le donne, così come sono convinti di una loro più assidua partecipazione alle attività e alle organizzazioni che riguardano tutti i religiosi, sia maschi che femmine. «Esprimiamo la ferma volontà di sviluppare più convintamene questa area cruciale del dialogo».

Quasi a conferma di questa buona volontà, proprio al termine dell’assemblea, vari superiori generali hanno accolto con favore la proposta, ancora tutta da concretizzare, di una possibile assemblea di incontro, di confronto, di studio tra superiori e superiore maggiori. Se a questo riguardo si è ancora in una fase esplorativa, molto più concreti sono i dati relativi ad altri due importanti appuntamenti: l’assemblea della Unione dei superiori generali di novembre, in cui si dibatterà il tema del dialogo interreligioso all’interno degli istituti religiosi, e poi il grande convegno internazionale sulla vita religiosa che avrà luogo a Roma nel novembre del 2004 e per il quale è già prevista la partecipazione di quasi novecento persone. Sono tappe importanti verso le quali è particolarmente impegnata, sul piano organizzativo, proprio l’Unione dei superiori maggiori; sono tappe in cui si apriranno altri scenari di dialogo interni ed esterni alla vita religiosa e alla Chiesa; ogni forma di dialogo sarà tanto più efficace quanto più, come ha ricordato fr. Álvaro Rodriguez, citando un gesuita latino-americano, Francisco Taborda «sarà profondamente centrata sull’essenziale: l’esperienza del mistero di Dio che si manifesta nella storia umana. Consisterà in una profonda spogliazione di ogni ricchezza e di ogni potere per avvicinarsi agli esclusi ed emarginati dai grandi progetti della società. Oserà inoltrarsi nell’avventura di costruirsi una propria identità, non partendo da se stessa, né volta verso se stessa e la sua cultura, ma partendo dall’altro, dal diverso, dall’alterità. E in tutto ciò essa annuncerà con la sua stessa esistenza, il mistero di Dio rivelato in Cristo, Verbo di Dio che è vuotato di sé stesso, facendosi del tutto simile a noi, tranne nel peccato e che, amando preferibilmente i poveri, si è reso solidale fino alla morte con i crocifissi per ingiustizia».

 

Angelo Arrighini