ISTITUTI SECOLARI DI EMILIA-ROMAGNA E TOSCANA

LA SPERANZAOLTRE OGNI MITO

 

Oggi sembra necessario far crescere una cultura della speranza sapendo che questo tempo, pur con le sue contraddizioni, è il tempo opportuno per vivere in pienezza la propria consacrazione nel mondo testimoniando il regno di Dio.

 

Da alcuni anni, i membri degli istituti secolari dell’Emilia Romagna e Toscana si stanno incontrando per un cammino e un confronto unitario relativo alla specificità della vocazione secolare. Per concludere l’anno di lavoro, tutti i consacrati secolari di dette regioni si sono riuniti in assemblea plenaria il 31 maggio a Bologna condividendo e raggruppando il lavoro svolto sul tema della speranza. Inoltre, durante questo incontro plenario, hanno potuto ascoltare la relazione della professoressa Vera Zamagni su alcuni miti dell’epoca della globalizzazione che uccidono la speranza.

«Ci siamo interrogati, come membri degli istituti secolari, sulla speranza partendo dalla realtà della crisi perché siamo consapevoli che questo nostro tempo sta attraversando un momento di sofferenza, di disagio, di difficoltà di orientamento, anche se non mancano segni significativi di impegno per il bene dell’uomo e del futuro dell’umanità». A tutti i membri, già alcuni mesi fa, è stata proposta una griglia di domande con l’intento di arrivare a definire, in ultima analisi, anche «dei progetti di bene che continuamente ci permettono di scoprire il senso del nostro essere “mandati per vocazione” nel mondo». È specifico dei membri degli istituti secolari condurre la propria vita nelle situazioni ordinarie del mondo ed essere lì segno della presenza di Dio.

Il lavoro svolto durante tutto l’anno ha permesso di individuare le cause della crisi di speranza che oggi si riscontrano, dovute, sicuramente, a diversi fattori: innanzitutto un orientamento materialistico della vita, privo di riferimento alla trascendenza. Altre cause le troviamo in riferimento ai disagi del vivere tra cui le tante paure personali, l’insicurezza esistenziale che impedisce di assumere responsabilità e rischi; difficoltà di comprendere i mutamenti epocali in cui ci troviamo; sfiducia generalizzata nelle istituzioni per la loro scarsa capacità di esprimere le virtù civiche; sfiducia anche nella comunità cristiana che sembra esprimere una qualità di fede ininfluente sulla storia. Molte altre cause della crisi della speranza vengono riscontrate in riferimento alla vocazione: nell’orientamento vocazionale dei giovani con la loro difficoltà ad assumere legami a lunga scadenza; la difficoltà di attualizzare i carismi di fondazione, l’invecchiamento dei membri e la scarsità delle vocazioni; l’aver conservato un certo efficientismo nelle opere o dei servizi a scapito dell’essenziale della vita consacrata. Queste sono solo alcune delle cause individuate della poca speranza presente nel mondo. Quale allora il ruolo dei laici consacrati chiamati a vivere pienamente e totalmente la loro consacrazione nel mondo? Quali cammini sono possibili per aiutare questo nostro mondo a crescere nella speranza? Quali speranze, i consacrati secolari, sono chiamati a condividere e quali tentazioni sono da allontanare?

Un cammino possibile e accessibile a tutti è quello di curare sempre di più una formazione umana basata su una visione positiva dell’esistenza, che sostenga il senso di gratitudine, l’apertura del cuore, il senso dell’ottimismo, la consapevolezza dei limiti. Tutto questo deve trovare radicalità in una vita di preghiera, di silenzio per un discernimento continuo personale e comunitario. Inoltre è importante, come percorso da attuare, il continuo riferimento alla storia, agli eventi grandi e piccoli di cui bisogna saper cogliere provocazioni e messaggi; coltivare lo studio, l’aggiornamento, per arrivare a cogliere i germi di bene sparsi nel mondo.

 

SPERANZE

DA CONDIVIDERE

 

Proprio perché i membri degli istituti secolari sono inseriti a pieno titolo nel mondo, sono chiamati a comprendere meglio i pensieri e i problemi del loro tempo, e si devono porre di fronte ad essi con coscienza critica, secondo il vangelo e nella fedeltà al magistero della Chiesa. Tutti i cristiani, laici consacrati compresi, sono chiamati a condividere la pace, la giustizia, la difesa dei diritti umani, la difesa della liberazione dalle varie schiavitù, del rispetto della libertà religiosa, di spazi di evangelizzazione. Per essere segno di speranza è importante incoraggiare chi sta operando positivamente in ogni aspetto della vita umana e del creato: poveri, cultura, scienza, politica, economia, ecc., tutto questo perché aumenti la fiducia nell’uomo e nei mezzi dell’autentico sviluppo.

Inoltre è bene lasciarsi interpellare dalle situazioni vicine e lontane e andare incontro all’altro in gratuità, così come è importante incoraggiare e seguire con interesse il cammino ecumenico e il dialogo interreligioso. Se c’è la volontà da parte di tutti di compiere questi piccoli segni di speranza, condividere il bene presente in questo mondo, camminare insieme per annunciare il vangelo, allora nel tempo sarà possibile scorgere la presenza del regno di Dio. Tutto questo non deve illudere nessuno dal sentirsi fuori pericolo da alcune tentazioni non così lontane dell’esperienza comune. Bisogna, come consacrati, allontanarsi dalla tentazione di esibire con esagerata sicurezza la propria fede con la presunzione di vantare chissà quali privilegi. È bene anche allontanare da noi l’idea dell’autosufficienza egoistica, il rifiuto del dialogo, il disinteresse, la disistima dell’altro, il dire “ormai” non si può più fare niente. Spesso anche all’interno dei nostri singoli gruppi, nei nostri specifici istituti, personalmente e comunitariamente, si fa fatica a credere alla forza della preghiera, del perdono, della carità, della fedeltà di Dio; non ci si impegna più di tanto ad acquisire conoscenze e competenze; si vive la fatica di mettersi in gioco nelle relazioni soprattutto se rischiose o difficili per la sola ragione dell’autodifesa o della diffidenza. Tutto questo non aiuta certo ad alimentare atteggiamenti carichi di speranza, a essere nel mondo segno profetico della presenza di Dio. E come se non bastasse il più delle volte non si crede nella capacità rigenerativa del proprio carisma con il risultato e il rischio di entrare in un clima di passività e di resa.

Quali allora le modalità di impegno che si intravedono oggi? Riportiamo in sintesi alcune indicazioni emerse dai lavori sia individuali sia di istituto: uno degli aspetti più salienti e a volte il più scontato, ma che scontato non lo è per niente, è il «vivere gioiosamente e in fedeltà la vocazione ricevuta; condividere i momenti cruciali della vita dei fratelli di ogni età, con apertura di cuore; coltivare la capacità di meravigliarsi della continua opera di Dio e dell’uomo; vivere la spiritualità del mistero pasquale, del consegnarsi in gioioso abbandono nutrito dai tanti mezzi di cui disponiamo; coltivare la progettualità e avere iniziative; stare nelle nostre condizioni di lavoro, di servizio nelle realtà secolari vivendole come “luoghi teologici di salvezza” e infine sentirsi pellegrini senza troppe sicurezze, allargando i nostri orizzonti verso i più poveri, ma anche verso gli emarginati delle nostre comunità».

Tutte queste indicazioni e suggerimenti emersi aiutano ad assumere fino in fondo la radicalità della consacrazione a riscoprire e a comprendere maggiormente «il valore del mettere in gioco i consigli evangelici perché sia amata, rispettata e promossa la vita».

 

VIGILANZA

SU ALCUNI MITI

 

A queste riflessioni, che sono un po’ la sintesi del lavoro svolto dai rispettivi istituti, è seguita la relazione della Zamagni per aiutarci a mantenere alta la vigilanza su quei miti, più presenti in quest’epoca della globalizzazione, che in qualche modo uccidono la speranza. Miti che – dice la relatrice – non sono certo gli unici, «ma che sono quelli che complicano in modo speciale l’odierna condizione umana e tendono a ingigantire i problemi». Tra gli aspetti che maggiormente si riscontrano oggi e che connotano l’attuale fase storica c’è «l’accelerazione con cui avvengono i cambiamenti, un’accelerazione che provoca un restringimento del tempo dell’esperienza, vale a dire la riduzione delle opportunità per fare esperienza. Le possibilità di fare esperienza si riducono, perché la società dell’urgenza obbliga tutti a vivere il tempo delle fretta». Dunque quali gli aspetti su cui bisogna maggiormente vigilare? Quali attenzione mantenere vive per non cadere in atteggiamenti di pressappochismo, di passività? La Zamagni individua tre miti su cui vigilare, il primo che lei definisce quello tecnologico si può riassumere con queste altre parole: «tutto ciò che è possibile va realizzato perché genera, aumenta il valore». «Le persone oggi sono sottoposte a decisioni continue che riguardano, virtualmente, tutti gli ambiti della vita: la scelta professionale, i rapporti affettivi, la politica, l’inserimento nella società civile organizzata. È tale situazione a creare il paradosso della scelta: quando parliamo di scelta sembriamo riferirci a uno spazio di libertà, ma al tempo stesso siamo sempre più costretti a scegliere. La scelta, situazione che postula libertà, diventa una sorta di necessità, perché non possiamo non scegliere; d’altro canto, il non scegliere è esso stesso una scelta».

 

UN VUOTO

DA COLMARE

 

Dove ci porta questo? Ecco il punto di arrivo del discorso: «Quando il problema della scelta consiste nel decidere tra mezzi alternativi per raggiungere un determinato fine – quando, cioè, in termini kantiani, la domanda che attende risposta è del tipo “che cosa devo fare per ottenere ciò che voglio” – il ricorso alla ragion tecnica è di per sé sufficiente. A essa chiediamo l’algoritmo risolutivo. Ma quando la domanda diviene: “che cosa è bene che io voglia”, vale a dire quando si tratta di scegliere tra fini diversi, la necessità di disporre di un criterio di scelta fondato sulla categoria del giudizio di valore diviene irrinunciabile. Nessun progresso tecnologico potrà mai fornirmi il criterio di valore sulla cui base scegliere il mio piano di vita. Comprendiamo ora la portata dell’insidia che il mito tecnologico va diffondendo: far credere che l’avanzamento delle conoscenze tecnico-scientifiche sia sufficiente a risolvere ogni problema di scelta. E dunque che, in fondo, tutto possa risolversi con l’attesa. Sappiamo invece che tale insidia conduce a un esito certo: che l’esistenza intera viene vissuta senza scopo e senza significato. È questo il pericolo che tutto divenga indifferente, il pericolo della conclusione sartriana “dell’indifferenza di tutte le possibilità”». Tutto questo non è così lontano dall’esperienza comune che si sta vivendo, anzi, si è continuamente sottoposti a un discernimento per valutare oggettivamente come ci si pone di fronte alla realtà, quale testimonianza riusciamo a dare anche in riferimento a questo.

C’è comunque un altro mito che la Zamagni chiama dell’individualismo assiologico cioè di quella «posizione che nega il carattere relazionale della persona. L’idea che sta sotto è che la «realizzazione del potenziale di vita del soggetto dipende unicamente dai suoi forzi e dalle sue abilità. Si ammette sì che, per raggiungere i suoi scopi, l’individuo debba entrare in rapporto con altri, ma ciò trae ragione solamente da considerazioni di convivenza, per ottenere più consenso o più potere». Le conseguenze di questo modo di agire sono ben note a tutti e aumentano l’individualismo con la «crescente diminuzione dei beni relazionali cioè di quei beni nei quali l’identità e le motivazioni di coloro che interagiscono sono elementi essenziali». Al posto dei beni relazionali, cioè della bellezza del camminare insieme, del condividere ciò che abita nel cuore, vengono offerti e domandati beni posizionali, «beni che conferiscono utilità per lo status che creano, per la posizione relativa nella scala sociale che il loro consumo consente di occupare». Gli effetti di questa sostituzione di beni sono da una parte la competizione che porta a consumare più degli altri, dall’altra la sistematica distribuzione di beni relazionali e a questo proposito basti pensare alla crescente solitudine presente nei cuori della nostra gente. «Se si vuole contribuire – dice la prof.ssa – a colmare il vuoto che affligge il mondo di oggi, un vuoto che si nutre di opulenza e sovrabbondanza, non c’è altra via che quella di puntare sull’offerta dei beni relazionali».

Un altro mito su cui bisogna vigilare è quello dell’economicismo che si può spiegare in questi termini: «poiché il comportamento degli esseri umani è mosso unicamente dall’interesse proprio, l’unico modo per assicurare un ordine sociale, libero ed efficiente, è quello di intervenire sugli schemi di incentivo per i soggetti», se si vuole che l’individuo faccia qualcosa, non c’è via migliore che quella di offrirgli l’incentivo adeguato alla situazione. Questo, anche a breve termine, non aiuta certo a tendere verso i valori scelti e proclamati, ma aumenta la logica del mercato a «ricomprendere ogni bisogno dell’uomo, ogni sua attività e ogni momento della sua vita all’interno di un’unica categoria di pensiero, quella delle relazioni di scambio tra equivalenti». Viene meno così la dimensione della reciprocità che nasce dal dono, dall’apertura all’altro gratuitamente senza nessun tornaconto. La relazione tra persone è sempre un bene che, in quanto tale genera valore, fiducia e un atteggiamento collaborativo.

In ultima analisi, afferma la Zamagni, «la speranza è sempre legata ad un’idea di miglioramento, di progresso e oggi si apre una nuova era in cui la speranza deve essere riposta nei valori spirituali piuttosto che nei prodotti della tecnica, che sono mezzi e fini; nelle relazioni tra le persone, piuttosto che nelle relazioni con le cose; nella reciprocità piuttosto che nell’utilitarismo egoistico». Ai laici consacrati dunque questo arduo compito di essere segno profetico nel mondo per seminare germi di speranza «costruendo un vocabolario della speranza autentico e credibile anche da chi è lontano dalla fede», continuando, ciascuno nel proprio ambito e secondo il carisma specifico, l’annuncio del Regno.

 

Orielda Tomasi