CONVEGNO DELLE CARITAS DIOCESANE

SCELTE DI GIUSTIZIACAMMINI DI PACE

 

Prima che le comunità credenti possano dare un contributo alla pace nel mondo, devono trasformarsi in religioni della pace e superare quanto nelle proprie tradizioni favorisce ostilità o distruzione del nemico. Occorre soprattutto una presenza profetica incarnata nei luoghi del quotidiano.

 

Nel 2002 le Caritas diocesane erano convenute per verificare quanto la “Chiesa della solidarietà” fosse in grado di collegare emergenze e quotidianità (cf. Testimoni 13/02).

Un anno dopo (a Orosei -Nuoro, 16-19 giugno 2003) – con uno scenario ancor più segnato da tensioni culturali e politiche, in un momento in cui l’Europa tenta di chiarire identità e ruolo internazionale – circa 600 convegnisti in rappresentanza di oltre 160 diocesi si sono interrogati sullo stato dell’arte della giustizia e della pace, alla luce dei segni dei tempi (scrutati attraversi i propri strumenti pastorali: Centri di ascolto, Osservatori delle povertà e risorse, Locande dell’accoglienza e della relazione, Tavoli del discernimento delle prassi socio-pastorali e delle politiche sociali) e degli Orientamenti pastorali CEI del decennio.

 

GIARDINO

ANCORA SELVATICO

 

In apertura il vescovo neopresidente della Caritas, mons. Francesco Montenegro, ha messo in guardia contro il demone della rassegnazione («Oggi, tra le macerie dell’Iraq, rinveniamo infranto il sogno di quanti sperarono un mondo in cui l’uso della forza fosse almeno regolato e non semplice monopolio dei più forti») per rilanciare il sogno di Gesù: «Una comunità di pacifici, di miti che sanno perdonare e accogliere e che costruisce un mondo vivibile, consegnabile alle generazioni che vengono»; in chiusura il direttore, mons. Vittorio Nozza, ha efficacemente sintetizzato le principali strutture di peccato emerse dall’analisi condotta sul “giardino” terrestre.

«Nel giardino universale di oggi perdura l’abitudine di uccidere, cioè di non rispettare la vita o di considerarla come una variabile dipendente da altri valori ritenuti superiori… Inoltre nel giardino universale di oggi perdura l’abitudine di rubare, cioè di comportarsi in modo ingiusto e scorretto nei confronti del bene e dei beni altrui e, soprattutto, del bene e dei beni di tutti. Gli esempi possibili sono tanti, ma due bastano a rendere l’idea perché sono tratti da un’attualità che brucia. Il primo attiene alla globalizzazione, cioè il processo economico che moltiplica la ricchezza del mondo, ma la distribuisce in modo talmente diseguale da accrescere l’ingiustizia e da alimentare quella che la Populorum progressio chiamava “la collera dei poveri”. L’altro esempio riguarda l’inosservanza dei doveri inderogabili di solidarietà sui quali si basa ogni architettura di coesione sociale. Ciò accade quando l’evasione fiscale è praticata e presentata come una sorta di dovere civico in presenza di uno stato (democratico) assimilato ad un rapinatore, quando la falsificazione dei bilanci per frodare il fisco è declassata a peccato veniale e quando di tali comportamenti si fa palese apologia senza provare vergogna e senza che scatti la pubblica indignazione. Ancora nel giardino universale di oggi perdura l’abitudine di mentire, cioè di parlare e operare non secondo verità ma secondo convenienza. Si pensi alle manipolazioni dell’informazione, alle costanti dimenticanze nei confronti di conflitti e sfruttamenti di ogni tipo, alla rappresentazione conformistica di eventi e personaggi a vantaggio di poteri o interessi costituiti. Infine nel giardino universale di oggi perdura l’abitudine di dimenticare o di negare i poveri. È questo probabilmente il compendio, cioè il risultato di tutte le altre abitudini. La civiltà della ricchezza non può sopportare una convivenza sgradevole; e non vuole neppure riconoscere di avere bisogno dei poveri per affermarsi in quanto luogo dell’opulenza. Al massimo si concede qualche parentesi benefica, nella quale il tema della povertà viene a essere incastonato in una cornice di spettacolo. E quando i poveri fuggono dalla loro miseria e premono alla soglia dei paesi dell’abbondanza c’è sempre qualcuno pronto a riproporre anche per loro – esseri umani disperati che si affidano a mercanti brutali su carrette sovraccariche – la tecnica del tappeto: farli sparire, portarli fuori dal nostro campo visivo, magari usando le armi della guerra per mare. (…) Probabilmente a recare disturbo non sono solo i poveri, ma anche la presenza di quelli che se ne fanno voce, che ne reclamano i diritti, che ne assumono il gratuito patrocinio verso la società e le istituzioni».

 

LA VIOLENZA

DEI CREDENTI

 

Questa lettura della situazione si è arricchita col contributo del teologo Jürgen Moltmann sulla violenza odierna: «prima che le comunità credenti possano dare un contributo alla pace nel mondo, devono esse stesse trasformarsi in religioni della pace e superare quanto nelle proprie tradizioni favorisce ostilità o distruzione del nemico». Analizzando la nota immagine dell’arcangelo-difensore del Sacro romano Impero che uccide il drago, si è domandato come si sia arrivati alla contraddizione fra il messaggio di pace di Gesù e la cristiana battaglia di draghi in cielo e in terra. Oggi, alla fine di un processo storico, si riconosce il bisogno del monopolio statale e internazionale (ONU) della violenza e del suo legame con il diritto e la giustizia. Ma c’è bisogno anche di forze complementari per la costruzione di un mondo che si possa amare e vivere insieme con gli altri. Attraverso disposizioni di polizia e operazioni militari di protezione della pace, lo stato può istituire le condizioni di base per tale pace ma non può cambiare il cuore degli uomini trasformando i nemici in buoni vicini: questo devono farlo gli uomini stessi e per questo lo stato deve fare assegnamento su iniziative di pace delle organizzazioni non governative.

 

«C’è nella tradizione cristiana, ha concluso Moltmann, una bella immagine contrapposta al san Giorgio uccisore di draghi. È quella di santa Marta. Secondo la leggenda, Marta arrivò per nave con la sorella Maria e il fratello Lazzaro nel sud della Francia per evangelizzare la valle del Rodano. A Tarascona le mostrarono il truculento drago al quale si dovevano offrire in sacrificio ogni anno delle giovani ragazze. Lei domò il mostro con l’acqua santa, gli mise la cintura al collo e lo inviò nel Mediterraneo… Uccidere il drago o domare il drago: può essere la prima una forma maschile e la seconda una forma femminile di affrontare il male? Gli uomini devono non solo essere liberati dal male, devono anche liberare le energie criminali che vengono investite nel male e volgerle al bene. Dalla violenza dell’uccisore possono sorgere le forze dell’amore». Ma come può l’ostilità essere vinta e salvare dalla distruzione la vita di tutti? Moltmann, richiamando l’immagine di Gesù “servo di Dio sofferente”, ha indicato tre passi dell’amore ai nemici: il primo consiste nel non lasciarsi imporre l’inimicizia dal nemico, il secondo consiste nel riconoscimento dell’altro («… ogni inimicizia comincia con la disumanizzazione dei nemici: essi sono sub-uomini, insetti nocivi, erbacce da sradicare. Con queste disumanizzazioni vengono tolti i normali impedimenti alle uccisioni. La guerra può cominciare»); il terzo passo conduce al riconoscimento delle ragioni dell’inimicizia: poiché le aggressioni nascono in gran parte da offese subite, è utile ascoltare le storie delle sofferenze degli uomini o dei popoli nemici e cercare insieme con loro una guarigione da questi ricordi.

Un ulteriore spunto al processo di conversione dei credenti è venuto dal presidente della Caritas in America latina, mons. Gregorio R. Chavez, che ha riassunto il contributo della Chiesa latinoamericana al mondo nel messaggio complessivo sulla Chiesa della Pasqua da parte del vescovo martire salvadoregno Oscar A. Romero: «La “Chiesa della Pasqua” è, in primo luogo, una Chiesa povera e dei poveri: “Quando la Chiesa si chiama Chiesa dei poveri, non è perché stia dando il suo consenso a questa povertà frutto di peccato. La Chiesa si avvicina al peccatore povero per dirgli: convertiti, promuoviti, non ti addormentare. E questa missione di promozione che la Chiesa sta portando avanti dà anche fastidio. Perché conviene a molti avere delle masse addormentate, delle persone che non si sveglino, della gente conformista” (Omelia, 11.11. 1977)… La “Chiesa della Pasqua” è poi profetica e perseguitata. “La Chiesa non può tacere davanti a quelle ingiustizie di ordine economico, di ordine politico, di ordine sociale. Se tacesse, la Chiesa sarebbe complice della situazione di colui che si emargina e dorme un conformismo malaticcio, peccaminoso, o di colui che si approfitta di questo assopimento della gente, per abusare ed accaparrare economicamente, politicamente, ed emarginare l’immensa maggioranza del paese. Questa è la voce della Chiesa, fratelli. E finché non la si smette di dichiarare queste verità del suo Vangelo, c’è la persecuzione” (Omelia, 24.07.1977».

 

LA PROFEZIA

PER TEMPI NUOVI

 

Due appaiono essere oggi i nuovi soggetti in costruzione: il movimento per la pace e il movimento per una diversa globalizzazione: «…la Caritas dovrebbe sempre cercare ogni possibile forma di collaborazione con tutti gli esseri umani e i gruppi che sono mossi dalle stesse ansie – gli uomini e donne di buona volontà – non importa se credenti o non credenti, non importa quale sia la loro provenienza filosofica o culturale, ma che hanno a cuore gli alti valori presenti nell’animo umano anche se non ne conoscono l’autore» (cf. relazione Chiavacci). La sfida che sta di fronte al movimento per la pace è quella di guardare non solo alle finestre con la bandiera arcobaleno ma anche a quelle senza. Il movimento è chiamato a realizzare con continuità una educazione alla pace con iniziative atte a scongiurare la fase armata di un conflitto, ma anche a prevenirne le cause e i pretesti. Quanto al movimento per una diversa globalizzazione, si pone un problema di scelta: dalla reazione ai G8 si può uscire con la logica di scontro tra sfruttati e sfruttatori, ma anche con un tasso più alto d’impegno e di solidarietà, con piccoli passi per sovvenire ai bisogni immediati o per dimostrare che un altro tipo di sviluppo è possibile.

In primo luogo occorre una presenza profetica che impegna a frequentare la politica per governare i cambiamenti (cf. relazione Magatti: «a fianco della carta politica tradizionale, dobbiamo fornirci di tante altre carte, relative ai vari fenomeni: i flussi di turisti e quelli di migranti e profughi; i nodi di internet e i centri di produzione culturale; le città globali e le aree in via di abbandono»). Solitudine urbana, crescenti ritmi lavorativi, senso di insicurezza: si tratta di verificare se le politiche urbanistiche, le innovazioni nel settore commerciale, i piani regolatori dei tempi di vita, le politiche di contrasto a povertà ed esclusione, rappresentino un’effettiva risposta allo sfaldarsi della comunità locale. Non è utile a nessuno agitare lo spettro della sicurezza, per coprire l’assenza di politiche di coesione e sicurezza sociale; non è una politica sana quella che nasconde un sistema economico che crea strutturalmente insicurezza, ma che enfatizza solo il problema della sicurezza personale. In secondo luogo,va ricercata una presenza profetica che impegna a costruire relazione con l’altro: «Il vero sviluppo umano è quello centrato sulla persona; … uno sviluppo a misura d’uomo, oggi, è uno sviluppo umano e nonviolento… l’umanità può perdere i complessi di orgoglio di sé, di superiorità sul prossimo, di sottomissione della natura e dominio dei popoli, recuperando il vero valore del tempo, del silenzio, dell’autolimitazione e del lavoro» (cf. relazione Martirani). In terzo luogo, va alimentata una presenza profetica incarnata nei luoghi del quotidiano. Nel convegno è stata segnalata la tenuta della parrocchia come luogo di coesione sociale, di visibilità e di presenza nel territorio. Cresce però poco sia la relazione delle parrocchie con gli enti pubblici territoriali (scuole, servizi sociali, centri di accoglienza) sia la funzione di riflessione culturale offerta dalle realtà religiose di base sui temi sociali emergenti. Le Caritas diocesane devono allora essere la porta che consente di uscire dal tempio per andare verso il territorio. Anche questo è impegnare la giustizia a baciare la pace.

 

Mario Chiaro