L’AFRICA È UNA PENTOLA CHE BOLLE

 

Mutuando dal sociologo camerunese Jean-Marc Ela la metafora dell’Africa come “pentola che bolle” da contrapporre all’immagine di un continente abitato da popoli condannati alla deriva, il giornalista e intellettuale congolese Jean-Léonard Touadi (dal 1999 uno degli autori del programma di Rai Eucational “Un mondo a colori”), in un recente volume,1 ci aiuta a ri-centrare il ruolo dell’Africa nello scenario internazionale, ricostruendone la storia dal “sogno tradito delle indipendenze” degli anni 60 (di fatto un tentativo fallito di costituirsi in soggetto geopolitico) fino ai nostri giorni, segnati da quella che possiamo tranquillamente definire la permanente “guerra mondiale” nella regione dei Grandi Laghi.

Il volume si presenta come un piccolo prezioso dossier in un momento in cui il barometro che misura l’indice di fiducia sull’Africa segna nuovamente un punto negativo. Smaltito l’afro-ottimismo degli anni ’90 (indotto dalla fine di alcuni regimi totalitari e dagli inizi dei processi di democratizzazione) si torna a parlare di “continente dimenticato” o “in agonia”, di “zavorra geopolitica” e di “binario morto della globalizzazione”. Alcuni lanciano l’idea di una ri-colonizzazione dell’Africa con formule nuove da concordare con le Nazioni Unite, altri semplicemente dicono di abbandonare gli africani al loro triste destino.

E gli africani da che parte stanno? Essi si dichiarano ottimisti oppure pessimisti a proposito del futuro? Touadi risponde sottolineando “l’afro-realismo” unito all’orgoglio per la propria storia: questo straordinario viaggio che prende le mosse dalla “culla dell’umanità” passando per la nascita delle civiltà egiziane e dei regni nilotici; dall’epopea degli imperi del Ghana e del Mali, del Sudan e del Kongo, alla luminosità delle civiltà swahili; dalla primordialità delle culture di pigmei, boscimani e ottentotti all’affermazione dei regni del Monomotapa, degli Zulù e dei Xhosa. Una storia che aveva raggiunto, prima del dominio occidentale, traguardi significativi in campo amministrativo, socio-culturale, tecnologico ed economico paragonabili a quelli raggiunti da altre regioni del globo. Ma gli africani rivendicano anche la sofferta storia della dominazione e dello sfruttamento dalla parte degli europei attraverso la schiavitù e la colonizzazione: un ingresso non negoziato nella modernità degli altri di cui l’Africa paga ancora oggi le conseguenze.

 

LA CRESCITA DELLA

SOCIETÀ CIVILE

 

Da questa sconfitta, secondo l’autore, si sta uscendo con la riscoperta della “negritudine” negata da secoli di alienazione culturale e ora insidiata dalla globalizzazione omogeneizzante. La storia dell’Africa è riassumibile come una pedagogia della resistenza. Resistenza innanzitutto rispetto agli elementi della natura ostile (il più grande deserto del mondo, una zona saheliana estesa, vaste zone di foresta equatoriale) e insieme generosa (ricchezze del suolo e del sottosuolo). Resistenza, in secondo luogo, di fronte ad una storia di negazione della umanità degli africani con la loro riduzione a oggetto di scambio commerciale. Resistenza, in ultimo luogo, di fronte alla geografia della miseria nel mondo: l’Africa conta poco nell’economia e nel commercio mondiale (meno del 2% dell’insieme degli scambi); è ricca di materie prime ma con gli indicatori macro-economici e i fattori di misurazione dello sviluppo umano in rosso. I conflitti armati, le epidemie che diventano catastrofi demografiche e sociali, le concentrazioni urbane come luoghi di alienazioni sociali: tutto questo contribuisce a fare del continente uno dei sotterranei della storia.

In questo contesto “l’irruzione dei poveri” come soggetto della scena socio-politica africana rappresenta un segno dei tempi con il quale fare i conti per affrontare le nuove sfide della globalizzazione neoliberale, creatrice di “strutture di peccato” e della solitudine geopolitica che ha sancito l’insignificanza delle istanze africane dentro l’agenda della comunità internazionale. Per comprendere oggi la profondità della guerra contro la miseria non bastano più discorsi stereotipati sulla pressione demografica, sulla cattiva gestione economica, sulla corruzione o sulla congenita incapacità dei popoli africani a darsi da fare.

Occorre avere il coraggio di inoltrarsi nelle periferie urbane dove le persone sono intrappolate nel circuito infernale disoccupazione-assenza di reddito o reddito insufficiente-precarie condizioni di vita. In questo marasma i poveri si organizzano e creano dei circuiti informali di produzione e di distribuzione dei beni, allo scopo di ribaltare la logica mercantile per sovrapporvi logiche di tipo familiare o culturali, avendo come riferimento la solidarietà per una ricomposizione sociale che superi la logica etnica. Occorre il coraggio di guardare alle campagne e alle associazioni create da donne e giovani; campagne dove sta avvenendo la valorizzazione della medicina tradizionale; un mondo rurale che accoglie a migliaia sempre più ex cittadini che per necessità vi fanno ritorno e scoprono la possibilità di una qualità di vita con un pizzico di inventiva. Occorre analizzare la vita delle comunità religiose (quelle appartenenti alle chiese istituzionali o quelle spontanee dove si mescolano riti tradizionali e apporti esterni), gruppi che costituiscono un modo nuovo di ricomporre le lacerazioni imposte dalla vita moderna: al loro interno le persone riscoprono il gusto della celebrazione della vita come dono, della parola danzata e condivisa, dell’angoscia esorcizzata attraverso la speranza radicata nella concretezza del fare.

Occorre ripensare infine la relazione intellettuali-popolo, che ha seguito per lunghi decenni un modello autoritario e paternalistico: nessuna cultura della cittadinanza da parte del popolo e nessuna coscienza della responsabilità da parte delle élite al potere. La crisi economica, i conflitti armati e la destrutturazione politica e sociale degli stati moderni in Africa hanno provocato in alcuni dei più illuminati un senso di frustrazione e un’esigenza di ritorno alla base popolare per agevolare la crescita di tutti a partire dai più piccoli. L’allargamento di questa fascia di intellettuali e la valorizzazione delle potenzialità femminili costituiscono le leve della riscossa sociale e i pilastri del patto sociale che rinnoverà da cima a fondo la società africana.

In sintesi occorre dunque prendere atto che la “società dal basso” ha creato un circuito parallelo di sopravvivenza, di resistenza e di innovazione. Sono stati proprio la ciclicità degli “aiuti”; la dipendenza che essi creano e la loro incapacità di attivare dinamiche di speranze, alcuni dei fattori che hanno permesso la maturazione e la crescita di esperienze di riscossa dal basso.

Quei poveri che in Africa hanno smesso di guardare “il cielo degli aiuti” per rivolgersi verso la terra da coltivare, ci indicano una pista nuova nella ricerca di un modello economico non più allineato alle logiche del profitto, ma attento ai valori dell’uomo, della società e della cultura. La povertà dell’Africa e la sua battaglia per sconfiggerla possono insomma diventare una ricchezza per i popoli del consumismo: il continente nero si rivela sotto quest’aspetto come un serbatoio di valori antropologici, una riserva di umanità degna della terra che ha visto nascere, crescere e consolidarsi la nostra specie umana. Segno di questa volontà di futuro è il pellegrinaggio annuale verso Nkamba, il villaggio natale del profeta Simon Kimbangu (regione meridionale del Congo Democratico), luogo della sua sepoltura, vera e propria Gerusalemme “nera” dove egli è ricordato come il Gandhi africano. Attraverso il pellegrinaggio è un popolo intero che ricorda le sofferenze dell’esilio durante il periodo coloniale e rinnova le promesse di un futuro di salvezza nonostante le tribolazioni del presente. E tutto ciò nella fedeltà alla propria identità culturale e all’esigenza di allargare la salvezza stessa a tutti i neri espulsi dal banchetto di nozze pagane celebrate sulla loro pelle.

 

M.C.

1 TOUADI J. L., Africa la pentola che bolle, EMI, Bologna 2003, pp. 111, € 6,00.