Con uno stile essenziale, il biblista Wilfrid J. Harrington commenta i “misteri della luce” aggiunti da Giovanni Paolo II al rosario, dimostrandone il pieno radicamento nei Vangeli. Ma tutto il rosario, afferma, è una preghiera essenzialmente evangelica.

 

Il rosario è una preghiera del tutto biblica, una preghiera essenzialmente evangelica.1 La ragione non sta solo nel fatto che il “Padre nostro” e gran parte dell’ “Ave Maria” traggono origine direttamente dai Vangeli. Dipende piuttosto dal fatto che quasi tutti i “misteri” derivano direttamente dai Vangeli.

 

IL TERMINE

“MISTERO”

 

I “misteri della gioia” sono ricavati dai primi due capitoli del Vangelo di Luca – i racconti dell’infanzia. I “misteri del dolore” si basano sui racconti della passione dei quattro Vangeli. I “misteri della gloria” riflettono la conclusione dei Vangeli e il loro prolungarsi nella nuova era dello Spirito e della Chiesa. Il rosario tuttavia ha una grave lacuna. I misteri della gioia giungono solo fino a Gesù dodicenne nel tempio.

I misteri del dolore iniziano con il Getsemani. Non c’è nessuna traccia di Gesù che esercita il suo ministero. Il fatto è che non si può comprendere veramente la morte di Gesù se non nel contesto della sua vita. Gesù non è morto: è stato ucciso. È stato messo a morte proprio per la testimonianza data, con tutto ciò che era e con tutto ciò che ha compiuto durante il suo ministero. “Chi dite voi che io sia?” è la sfida posta dal Gesù di Marco (Mc 8,29).

La risposta non sta solo nella sua morte, ma in ciò che l’ha portato alla morte. L’aggiunta – o meglio l’inserimento – da parte di Giovanni Paolo II dei misteri della luce rende il rosario una preghiera più equilibrata.

Nei misteri della luce – battesimo, Cana, annuncio del Regno, trasfigurazione, ultima cena – Gesù è centrale. Mentre la presentazione fatta dai vangeli riflette l’incontro con lui come il Signore risorto, egli tuttavia è fermamente il Gesù di Nazaret. È colui che “è nato da donna, nato sotto la legge” (Gal 4,4), “uno in tutto simile ai fratelli” (Eb 2,17). È questa la verità che si vuol qui sottolineare. È di vitale importanza per una cristologia equilibrata, i misteri della luce rivelano la Luce che è luce del mondo, ossia vita del mondo. Rivelano il Verbo incarnato. Il rosario è essenzialmente una meditazione sul figlio di Maria, su colui che è rivelazione e presenza di Dio.

Non è senza importanza considerare il termine mistero. Nell’uso comune, “mistero” vuol dire nascosto, non discernibile immediatamente; noi parliamo di un mistero da investigare. Nella catechesi del passato, “mistero” era definito “una verità rivelata che noi non possiamo comprendere”. Nell’uso biblico – ed è ciò che ci guida qui – mysterion non è più qualcosa di misterioso. Un “mistero” è un progetto o un’intenzione di Dio, nascosto è vero in passato, ma ora rivelato (cf. Rm 11,25-26). La lettera ai colossesi parla di un “mistero” tenuto a lungo nascosto da Dio, ma ora “manifestato ai suoi santi”(Col 1,26). Ne deriva che il mistero è identificato con la persona di Cristo. In breve, il mistero è rivelatorio. I misteri del rosario rivelano Cristo, ci guidano a comprenderlo più profondamente. Prendiamo ora in considerazione i “misteri della luce.

 

BATTESIMO (Mc 1,9-11; Mt 3,13-17; Lc 3,21-22; Gv 1,29-34)

 

Il battesimo di Gesù da parte di Giovanni Battista segnò l’inizio del breve ministero attivo di Gesù di Nazaret. Egli cominciò come discepolo di Giovanni, ma già da diverso tempo aveva iniziato la sua missione specifica il cui scopo era il rinnovamento di Israele: condurre Israele a essere ciò che Dio voleva che fosse. Nel battesimo Gesù fu proclamato solennemente Figlio di Dio, capo del popolo di Dio degli ultimi tempi, Signore del suo popolo.

L’intestazione del Vangelo di Marco – Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio (1,1) – ha già informato il lettore del modo con cui l’evangelista intende l’identità di Gesù. Nella scena battesimale la voce dal cielo (la voce di Dio) proclama Tu sei il Figlio mio prediletto (1,2). Mentre Gesù stava per cominciare il suo ministero pubblico, Dio solennemente affermò sia il suo status sia la sua chiamata. In maniera analoga, nella trasfigurazione Dio dichiarò (questa volta a beneficio di tre discepoli): Questi è il mio Figlio prediletto: ascoltatelo (9,7). Soltanto nel battesimo e nella trasfigurazione Dio emerge come “attore”. Non solo Dio dichiarò in ciascuna volta che Gesù era “Figlio”, ma la dichiarazione aveva anche lo scopo di una conferma. La dichiarazione nel battesimo confermò la verità dell’intestazione del vangelo (1,1); la dichiarazione alla trasfigurazione confermò la verità della professione di fede di Pietro in Gesù come “Messia” (8,29), andando al di là della sua incomprensione (32,33). Infine, nel momento culminante della morte di Gesù, il titolo fu quello di Figlio di Dio: Veramente quest’uomo era Figlio di Dio.

Il centurione è stato il primo nel Vangelo di Marco a penetrare il segreto dell’identità dei Gesù, perché fu il primo a comprendere il significato della croce.

Nei sinottici, il battesimo è immediatamente seguito dalle tentazioni (Mc 1,12-13; Mt 4,1-11; Lc 4,1-13). Gesù era Figlio di Dio, ma era simile ai suoi fratelli e alle sue sorelle, sotto ogni punto di vista. Fu messo alla prova, doveva prendere delle decisioni che riguardassero tutta la sua vita. Il fatto di essere Figlio non lo risparmiò: “pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8). Imparò quanto costasse dire “sì” a Dio: un “sì” che lo portò alla croce.

Paolo trovò ispirazione e conforto nella fede in Cristo: “Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Il Figlio fedele è il sostengo nelle nostre tentazioni.

 

CANA (GV 2,1-12)

 

Il brano 2,1-12 è un’accurata costruzione giovannea, ricca di simbolismi. Il primo personaggio nel racconto, la madre di Gesù, apre l’azione con la sua richiesta che viene accolta: “Non hanno più vino”. L’acqua “per i riti di purificazione dei giudei” (6) divenuta vino, è simbolo dell’antica legge che lascia il posto alla nuova. Per l’evangelista l’episodio è simbolo di qualcosa che avviene durante tutto il ministero di Gesù: la manifestazione della sua “gloria”, termine impiegato da Giovanni che sta per rivelazione. La rivelazione, in Giovanni, è autorivelazione di Gesù, in definitiva rivelazione del Padre. Tutto il resto deriva da questo. Cana segnò il primo momento della doxa, “gloria”. La pienezza della rivelazione avverrà quando il Figlio dell’uomo sarà “innalzato”. Egli era l’Inviato che ha detto l’“Io sono” della presenza e dell’autorità del Padre. Ha detto quella parola sulla croce.

“E beata colei che ha creduto” (Lc 1,45): Elisabetta ha messo in risalto il tratto caratteristico di Maria nei Vangeli: una donna di fede. Ciò è particolarmente visibile nel quarto vangelo. A Cana si è fatta esempio di una fiducia totale – e quindi l’ha anche chiesta – nella parola del suo Figlio. È diventata modello per i cristiani e avvocata del suo Figlio. Ha indicato oltre se stessa. Nel suo comportamento ha confermato l’affermazione del suo Figlio: “Io sono la vite e voi i tralci… Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). E continua a dirci: “Fate tutto quello che vi dirà” (2,5).

Il ruolo permanente di Maria fu confermato nell’ “ora” di Gesù. Lei e il discepolo prediletto, nella teologia di Giovanni, sono i credenti per eccellenza. Costituiscono il nucleo di una nuova famiglia di credenti. Furono testimoni dell’ “ora”: la definitiva rivelazione di Dio. Ora devono darne testimonianza. Alla Madre è stato detto: “Ecco tuo figlio” (19,26). Divenendo Madre del discepolo prediletto è perciò Madre di tutti i cristiani.

 

IL REGNO

 

Il senso fondamentale di Regno di Dio, come è compreso e inteso da Gesù, era la signoria definitiva di Dio quando, come scrive Paolo, Dio sarà “tutto in tutti” (1Cor 15,28). Allora la preghiera di Gesù sarà compiuta: “Venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra” (Mt 6,10). Gesù però ha insistito nel dire che, nella sua persona e nel suo ministero, il Regno era già realtà qui e ora (cf. Lc 11,20; 17,21). In effetti, il modo migliore per comprendere la natura del Regno, la signoria di Dio, è di vederla in atto nei fatti e nei detti di Gesù, nella sua stessa persona.

In questa proclamazione del Regno, il presupposto di Gesù era quella di un Dio come Padre, con un genere umano, con dei figli di Dio, come fratelli e sorelle. Questa è la ragione dell’autorità che portava sul suo capo. Siccome la comunità dei suoi seguaci dovrebbe essere caratterizzata dalla koinonia, dalla comunione, ogni sistema di potere dovrà essere escluso: “Fra voi però non è così” (Mc 10,43). L’autorità trova la sua espressione nel servizio.

In un mondo di profonda disuguaglianza e di ingiustizia, Gesù ha avuto un’attenzione tutta particolare per gli afflitti e gli emarginati. La categoria “esclusi” era qualcosa che non poteva né voleva riconoscere. Egli mostrò un grande rispetto per le donne e i bambini. Era sensibile alle sofferenze e prodigo nel risanare i mali dell’umanità. Aveva un’attenzione speciale per le malattie distruttive vale a dire il peccato, al punto da essere conosciuto come “amico dei peccatori”. Seguirlo non costituiva una scelta comoda: i suoi discepoli, uomini e donne, avevano lasciato tutto. La via che egli aveva intrapreso portava alla croce. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Il regno di Dio è la via dell’amore.

 

TRASFIGURAZIONE (Mc 9,1-8; Mt 17,1-8; Lc 9,28-35)

 

La trasfigurazione è stata molto probabilmente un’esperienza di preghiera in cui Gesù fu messo a confronto con il suo esodo, la sua “dipartita”: la sua morte. Evidentemente l’esperienza fu così profonda da lasciare un’impressione indelebile sui discepoli che ne furono testimoni. Vista in retrospettiva, alla luce della risurrezione, fu interpretata come una visione anticipata di Gesù nella gloria. Ora è riscritta come un episodio a beneficio dei discepoli, una rivelazione concessa a loro. Il momento culminante è la voce dal cielo: “Questi è il mio Figlio prediletto; ascoltatelo!” (Mc 9,7).

Nel racconto, Mosè ed Elia rappresentano la Legge e i Profeti, la Scrittura di Israele. La proposta di Pietro di fare tre “tende” una ciascuno per Gesù, Elia e Mosè avrebbe posto tutti e tre sullo stesso piano. Pietro effettivamente “non sapeva cosa diceva”. La voce dal cielo mise a posto le cose: il Figlio solo parla in pienezza la parola di Dio. Nella versione di Matteo i discepoli, pieni di timore, vengono rassicurarti da Gesù: “Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo” Mt 17,8). Mosè ed Elia parlano ancora la parola di Dio, ma non quella definitiva. Ora Dio “ha parlato a noi per mezzo del suo Figlio” (Eb 1,2).

 

ULTIMA CENA (Mc 14,12-28; Mt 26,20-29; Lc 22,14-23; 1Cor 11,17-33)

 

La preoccupazione di Marco in 14,12-25 è stata di collegare  questa cena di addio alla pasqua ebraica – nel v. 14 egli parla esplicitamente di un banchetto pasquale. Ciò significa che, nella sua cronologia, Gesù morì in occasione della festa di Pasqua, e in questo è seguito anche da Matteo e da Luca. Il quarto vangelo afferma con uguale chiarezza (Gv 18,28-14) che Gesù morì nella vigilia della Pasqua. In realtà sembra che l’ultima cena sia stata una solenne cena di addio e non una tradizionale cena pasquale. È stata il culmine di una serie di pasti condivisi da Gesù con i suoi discepoli. Ciò che si può affermare in maniera incontestabile, qualunque sia la natura precisa dell’ultima cena, è il contesto entro cui si è svolta la Pasqua ebraica. Gli evangelisti sfruttano questo fattore.

Gesù seguì la prassi di un capofamiglia nel pasto festivo giudaico spezzando un pane e distribuendone i pezzi. Egli “prese il pane”, “benedisse”, lo “spezzò”, lo “diede”: sono gli stessi gesti e le medesime parole in ambedue i racconti dove Gesù sfama le folle (6,41; 8,16). Senza alcun dubbio, la corrispondenza fu intenzionale; il vocabolario là fu suggerito dal linguaggio eucaristico qui. Allora i discepoli “non avevano capito il fatto dei pani” (6,52). Ora il mistero è rivelato. Gesù è  “l’unico pane” (cf. 8,14) per i giudei e i gentili, poiché, come egli dice, il suo corpo è dato e il suo sangue versato per tutti (14,23-24).

A parte i due passi della prima ai Corinzi (10,16-17; 11,17-34), sembra che Paolo non abbia saputo niente dell’eucaristia. In ogni caso, 1Cor 11,23-26 egli afferma, oltre ogni dubbio, che la cena del Signore costituiva parte della fede e della prassi cristiana fin dai primi tempi. Il brano costituisce il riferimento più antico esistente nel Nuovo Testamento all’eucaristia. La cosa che colpisce maggiormente è che Paolo non pensa all’eucaristia e alla presenza di Cristo in maniera statica. Al contrario, il racconto è pieno di espressioni dinamiche. Non si tratta semplicemente di rendere presente il corpo e il sangue di Cristo; è una proclamazione e un memoriale della sua morte, di un evento. Allo stesso modo, il calice è “la nuova alleanza nel mio sangue”, ossia, un evento, l’attuazione di un’alleanza con delle conseguenze stabili e definitive per la vita del popolo dell’alleanza. Il comando di ripetere l’azione del Signore “Fate questo…” non solo impegna la comunità a celebrare regolarmente la cena del Signore mantenendo così vivo il significato della morte di Gesù, ma aggiunge l’obbligo di proclamare il significato redentivo della sua morte.

“Questo è il mio corpo… questo è il mio sangue”. Corpo e sangue, vale a dire, l’io stesso, la persona: Gesù dona se stesso e dona se stesso nella morte. Paolo ha compreso il significato del dono: dono del “Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 1,20). La morte di Gesù è “per” noi. E il comando: “Fate questo in memoria di me”: l’Eucaristia è anamnesis, “ricordo”, un riportare alla mente, vale a dire, una forma di presenza. L’Eucaristia compie la promessa del Signore. “Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).

Paolo afferma: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? E il pane che spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?” (1Cor 10,16). Il suo accento non è tanto sul pane e il calice, ma sulla condivisione dello stesso pane e dello stesso calice. La ragione è che, mediante la condivisione, essi partecipano allo stesso pane, e coloro che celebrano diventano “un solo corpo”, il corpo di Cristo. “Poiché c’è un unico pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo, tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (10,17). L’Eucaristia è concepita come vincolo di unità. La celebrazione eucaristica dovrebbe essere una manifesta testimonianza di unità. Nel pensiero di Paolo, se questo non avviene, non esiste eucaristia (11,20) e ciò dovrebbe farci riflettere. La nostra celebrazione eucaristica, la nostra messa, è un chiaro segno di unità? È veramente la cena del Signore?

 

1_Wilfrid J. Harrington è un noto biblista domenicano, autore di numerosi libri. Insegna Scrittura presso lo Studio domenicano di Dubli­no (Trinity College) e il Kimmage Missionary -Institute. Durante questa estate è prevista la pub-

blicazione di un suo nuovo libro sul tema trattato in questo articolo, pubblicato da Spirituality, vol. 9, 47, marzo aprile 2003, 80-85, ripreso da Sedos, maggio-giugno 2003, 93-95.