QUANDO L’ASSISTENZA NON BASTA

I DISABILI SI ASPETTANO AMORE

 

Non si può comprendere e affrontare il fenomeno della disabilità senza l’amore. È l’amore, infatti, che rende possibile raggiungere la persona portatrice di handicap, al di là di ogni limite fisico e psichico, un amore che rifletta il volto misericordioso di Dio.

 

Da quando il Consiglio d’Europa ha proclamato il 2003 anno delle persone disabili, si sono moltiplicate le iniziative per sottolineare l’importanza di questa ricorrenza. Con­gressi, pubblicazioni scientifiche e divulgative hanno messo in luce, in termi­ni quantitativi e qualitativi, il cammino percorso in questi ultimi decenni dalle varie componenti della società civile ed ecclesiale per promuovere e migliorare la condizione dei portatori di handicap, indicando ulteriori mete da raggiungere.

Seguendo con un certo interesse le informazioni dei mass media su questo tema, ho cercato di porre attenzione alle risonanze che esse suscitano nel mio spirito.

Mi sono reso conto, non senza stupore, che nel continente europeo l’handicap colpisce circa 37 milioni di persone, in pratica un individuo su dieci. In Italia, secondo recenti sondaggi ISTAT i disabili sarebbero 2 milioni e 800 mila. Dietro questa immensa folla che raggruppa persone con handicap fisici e psichici, presenti dalla nascita o acquisiti in seguito ad incidenti di vario tipo, si muove lo stuolo dei familiari chiamati a condividerne il difficile destino.

 

INTERROGATIVI

SOFFERTI

 

Non sarei sincero con me stesso se ignorassi, per paura di mancare di fede, la forte reazione di sgomento che si sviluppa in me di fronte a tutta questa sofferenza. Perché la presenza di tanti limiti fisici e psichici? L’angoscia diventa più acuta quando cerco di mettermi al posto di tanti genitori che hanno messo al mondo figli disabili o di molte persone il cui percorso esistenziale ad un certo momento è stato interrotto e deviato da un incidente. Perché? Con essi rivolgo questa domanda al Signore, addentrandomi nella notte misteriosa del mistero. So che, come al termine della lotta tra Giacobbe e il personaggio misterioso apparsogli sul far della sera, può dischiudersi la luce del giorno. Ma quale cammino si è chiamati a percorrere! Penso a quel padre di famiglia che mi domandava se il grave ritardo mentale delle sue due bambine fosse il castigo per qualche colpa commessa da lui o da sua moglie. Anche dalla bocca di chi è abitato dalla fede ho sentito uscire gravi parole indicanti la difficoltà di accettare la volontà di Dio…

Resto convinto che il lasciare un legittimo spazio a queste reazioni mie e delle persone coinvolte nella realtà dell’handicap costituisca un passo indispensabile per riuscire a comprendere la disabilità come segno della condizione finita dell’uomo e per comprendere ed apprezzare quanto viene compiuto dalla società e dalla Chiesa per aiutare chi di questa finitezza soffre in maniera drammatica le conseguenze.

Osservando poi gli atteggiamenti della società nei confronti della disabilità e dei disabili, balza immediatamente alla mia attenzione l’ambivalenza da cui essi sono caratterizzati.

Da una parte si assiste ad uno sforzo enorme per migliorare la condizione dei portatori di handicap. Non si possono, infatti, ignorare i grandi progressi compiuti dalla scienza e dalla tecnologia medica per prevenire e limitare la disabilità. Notevoli, inoltre, si sono rivelati i programmi e i progetti per integrare il più possibile l’handicappato nella società, nel mondo della scuola, del lavoro, del tempo libero, abbattendo barriere fisiche e psicologiche. Osservatori attenti affermano che l’Italia si è distinta nel tutelare le persone disabili nell’ambito sociale dove erano nate e cresciute, evitando così di segregarle. Anche quando, per circostanze gravi , non era possibile mantenere l’ambiente d’origine, ha chiesto sempre di ricreare, in termini allargati, ambienti dove ognuno comunque si sentisse protagonista di se stesso e della propria identità.

Dall’altra parte, però, risalta evidente la presenza di una tendenza ancora abbastanza diffusa a tenere a distanza l’handicappato. Alla base di tale tendenza vi è sia la volontà di eliminare tutto ciò che contrasta con i criteri imposti dalla società per essere accettati e apprezzati, sia quell’orrore della sofferenza che porta a rifiutare quanto che minaccia il desiderio, illusorio, di essere invulnerabili. Simile atteggiamento contribuisce a far considerare i disabili da un unico punto di vista, come persone “caratterizzate da carenze e quindi non rispondenti alla nostra abituale concezione dell’essere umano”. Ne riesce un’immagine che non corrisponde o raramente corrisponde alla realtà o alla coscienza che i disabi­li hanno di se stessi. “Le menomazioni sono troppo rapidamente associate a dolori, sofferenze e disgrazie, cioè elementi negativi. Si vedono meno la gioia di vivere, la felicità e la gratitudine, il positivo e il bello che hanno un posto anche nella vita dei disabili”.

Quale dei due atteggiamenti indicati sopra è il più forte? Mi sono spesso posto questa domanda, e la mia risposta tende a far pendere la bilancia dalla parte di chi tende a mantenere a distanza il disabile. E questo, malgrado il grande cammino compiuto dalla società e dalla Chiesa per rendere più umana la vita dei portatori di handicap.

 

ORIENTAMENTI

NELLA CHIESA

 

Nella mia riflessione non poteva mancare una considerazione sulla presenza della Chiesa nel mondo della disabilità. Osservando quanto la comunità ecclesiale ha compiuto a favore di questa categoria di persone, mi sembra di poter identificare due grandi orientamenti.

Il primo è costituito dalla prossimità. La Chiesa si è sempre mostrata maestra nel farsi vicina a chi soffre, attraverso la cura del corpo e dello spirito, come l’attesta a chiare lettere la storia. Seguendo l’esempio di Gesù, divino samaritano delle anime e dei corpi, si è impegnata a restituire gli handicappati alla famiglia e alla società, aprendo loro la via della salvezza. Se in questa attività si sono distinti soprattutto alcuni istituti religiosi – vera longa manus della Chiesa per perpetuare il ministero di Cristo verso i disabili – non sono mancati interventi di altre persone e organismi.

Durante questi ultimi anni ho avuto il privilegio di visitare molte di queste istituzioni, in vari continenti, dai Cottolenghi alle Arches di Jean Vanier, incontrando tante persone che hanno consacrato la loro vita a servire i disabili. In quelle occasioni, ho potuto constatare la bellezza e la creatività di tanti carismi che spingono persone consacrate e laici agli avamposti della missione della Chiesa.

Sono stato contento che in occasione del Giubileo una giornata sia stata consacrata ai disabili. Il 3 dicembre 2000, nella Basilica di San Paolo a Roma, alla presenza del papa, la Chiesa ha voluto esprimere un segno forte della sua vicinanza ai portatori di handicap.

Il secondo orientamento è costituito dalle prese di posizione dottrinali e pastorali. Proprio per l’assistenza prestata ai disabili la Chiesa può sentirsi legittimata ad alzare la voce per difenderne i diritti. Ho in mente alcuni recenti interventi sull’argomento. Nel 1981, in occasione dell’anno internazionale del disabile, la Santa Sede elaborò un significativo documento. Dieci anni più tardi, nel 1991, la Conferenza episcopale italiana pubblicò una Nota sul tema: Riflessioni pastorali sulle condizioni di vita dei portatori di handicap. Nel 2001, l’Ufficio nazionale per la pastorale della salute ha curato l’edizione di un prezioso sussidio: Talità kum, il disabile e la chiesa accogliente. È di questi mesi (12 marzo 2003) una significativa lettera dei vescovi tedeschi sui disabili: Condividere senza impedimenti vita e fede. Accenni ai disabili sono presenti in altri documenti ecclesiali.

In questi documenti trova grande risalto l’affermazione di alcuni principi fondamentali concernenti la dignità del portatore di handicap. Nell’intervento della Santa Sede in occasione dell’anno internazionale del disabile si legge: “Il primo principio che dev’essere affermato con chiarezza e vigore, è che la persona handicappata (sia essa per infermità congenita, a seguito di malattie croniche, ad infortuni, come anche per debilità mentale o infermità sensoriali, quale che sia l’entità di tali lesioni) è un soggetto pienamente umano, con corrispondenti diritti innati, sacri e inviolabili”.

Nella lettera citata sopra, i vescovi tedeschi constatano che tale principio tende a venir progressivamente eroso. A conferma di questa affermazione citano una legge della Repubblica federale tedesca secondo la quale i genitori hanno diritto di chiedere “un indennizzo nei confronti di medici che presumibilmente, durante la gravidanza, non li hanno informati, o per lo meno non in misura sufficiente, riguardo alla menomazione del figlio”. È vero, continuano i vescovi, “che vari giuristi o politici affermano che il danno non è riferito al bambino disabile, bensì unicamente ai costi che il bambino o la sua menomazione comportano, ma questo non sminuisce lo scandalo di queste sentenze. Quando si tratta di mettere al mondo o non mettere al mondo, quindi di vita o non vita, i disabili vengono ridotti a mere cause relative a costi e danni patrimoniali”. Anche la diagnostica prenatale viene chiamata in causa dall’episcopato della Germania: “Occorre continuare a richiedere che la diagnostica prenatale serva esclusivamente, in caso di malattia o menomazione dell’embrione, ad avviare tempestivamente la terapia e a preparare i genitori alla particolare situazione che verrà a determinarsi in seguito alla nascita del figlio. È in ogni caso eticamente condannabile l’uccisione mediante l’interruzione della gravidanza di un feto nel quale si scopre una malformazione”.

Numerose altre affermazioni percorrono i documenti citati; molte di esse sottolineano che la persona umana può realizzarsi come tale anche in condizioni di mancata integrità fisica e psichica. In una prospettiva di fede, poi, lo stesso limite fisico e psichico può diventare occasione di crescita umana e spirituale. Spetta alla società e alla Chiesa offrire tutte le risorse necessarie perché il disabile possa esprimere le proprie potenzialità e contribuire al bene comune.

Questo stesso concetto è espresso a un livello pastorale. È significativa, a questo riguardo, un’affermazione dell’esortazione apostolica Christifideles laici che invita a considerare “il malato, il portatore di handicap, il sofferente non semplicemente come termine dell’amore e del servizio della Chiesa, bensì come soggetto attivo e responsabile dell’opera di evangelizzazione e di salvezza” (n. 54). In questa presa di posizione si può leggere una spinta a superare, anche nella pastorale, l’atteggiamento assistenzialista nei confronti dei disabili. In questo senso si era già espresso, in una omelia del 1984, Giovanni Paolo II: “Questi nostri fratelli e sorelle devono sentirsi effettivamente tali in mezzo a noi e non solo degli assistiti. A questo riguardo, le comunità cristiane devono offrire segni evidenti di credibilità, affinché i fratelli colpiti da handicap non si sentano estranei nella casa comune che è la Chiesa”.

Per mettere in pratica le indicazioni riportate sopra, è necessario che vengano promosse iniziative efficaci. In primo luogo esse devono mirare a integrare, nella formazione dei disabili, anche la dimensione cristiana attraverso significativi programmi di catechesi.

Qualche anno fa, la mamma di un bambino affetto dal morbo di Down si lamentava con me perché suo figlio non voleva fare la comunione. “Quando aveva sette anni – essa diceva – non la fece perché pensavamo che, da più grande, avrebbe potuto comprendere meglio, però in seguito non volle farla. Quest’anno si rifiutò di riceverla in occasione della prima comunione di alcuni miei nipotini. Ho ricevuto la catechesi individuale, però non so se la ragazza ha fatto bene il suo lavoro…Ho presentato il caso ai sacerdoti della parrocchia; essi mi hanno detto di star tranquilla, perché non se ne rende conto. Però, noi siamo religiosi, io ho fede e per quanto mio figlio non pecchi, io mi sento inquieta”.

Il problema della catechesi ai disabili era già stato toccato dall’Esortazione apostolica Catechesi tradendae del 1979. Riferendosi ai fanciulli e ai giovani “handicappati fisici e mentali”, Giovanni Paolo II affermava: “Essi hanno diritto a conoscere, come altri coetanei, il “mistero della fede”. Le difficoltà più grandi, che essi incontrano, rendono ancor più meritori i loro sforzi e quelli dei loro educatori. È motivo di soddisfazione constatare che alcuni organismi cattolici, particolarmente consacrati ai giovani handicappati, hanno voluto portare al sinodo un rinnovato desiderio di affrontare meglio questo importante problema. Essi meritano di essere vivamente incoraggiati in tale ricerca”.

È, poi, importante che i disabili, secondo le loro capacità, siano coinvolti nella vita delle parrocchie, nei consigli pastorali, nelle associazioni. Infatti, come è ben espresso nel sussidio per la giornata del malato del 2003, i disabili non solo sono destinatari dell’amore della comunità ecclesiale ma sono anche chiamati al dono di sé.

I traguardi raggiunti finora nel favorire l’integrazione del disabile nella comunità civile e ecclesiale non sono che tappe di un cammino da continuare con impegno e buona volontà. Mi sembra che uno dei compiti che spetta alla Chiesa consista nel sapersi alleare con le forze positive presenti nella società. Tale alleanza si realizza in un dare e ricevere che torna vantaggioso per tutti. Se, da una parte, la comunità ecclesiale può offrire a quella civile la ricchezza della propria tradizione e dell’esperienza acquisita lungo i secoli, dall’altra le è possibile beneficiare delle risorse rese disponibili dalla società. Non si tratta di un cammino facile. Il non percorrerlo adeguatamente, però, toglierebbe vigore al progetto ecclesiale – coltivato da sempre – di accendere sul fenomeno della disabilità la luce del Cristo, senza il quale, come afferma Pascal, “noi non sappiamo che cosa sia nostra vita, la nostra morte, Dio e noi stessi”.

 

Rileggendo queste mie riflessioni, mi accorgo d’aver trascurato una parola che attraversa gli scritti dei disabili e sui disabili e che non manca di essere pronunciata in tutte le manifestazioni intese a sensibilizzare la gente su questo problema: l’amore. Se è vero che è possibile cadere nella retorica quando si utilizza questo termine, è altrettanto vero, però, che non si può affrontare e comprendere il fenomeno della disabilità senza l’ingrediente indispensabile alla vita umana che esso descrive. È l’amore, infatti, che rende possibile raggiungere la persona del portatore di handicap, cogliendone la bellezza e la diversa abilità, al di là di ogni limite fisico e psichico. Ed è ancora l’amore che nasce nel cuore di chi, prendendosi cura dei disabili, sa superare il proprio egoismo, creando nuove forme di fraternità.

Un amore nel quale si riflette il volto misericordioso di Dio.

 

Angelo Brusco mi