SETTE ANNI DOPO LA TRAGEDIA

RICORDANDO I MONACI DELL’ATLAS

 

È tuttora viva la memoria dei sette monaci uccisi _in Algeria nel 1996, mentre dura il buio su chi ha voluto e chi ha eseguito quella strage. Il dovere di cercare più a fondo la verità e onorare la profezia della loro vita.

 

Sette anni or sono – scrive La Croix di domenica 1 giugno 2003 – “il mondo scopriva che in Algeria v’erano dei monaci”. Lo venne a sapere non perché vi fossero arrivati in missione, al monastero di Notre-Dame de l’Atlas fondato a Tibhirine (Algeri) nel 1934, ma perché vi erano stati uccisi, tutti e sette in una volta, i silenziosi abitatori di quell’oasi dello spirito che parlarono un giorno per sempre, al mondo, con il loro sangue versato il 21 maggio 1996.

Parlarono al mondo, poi, nell’indimenticabile atto che sembrò riconsacrarli, entro l’atmosfera orante del Giubileo del 2000, allorché la preghiera in San Pietro venne ritmata dallo spegnimento, uno dopo l’altro, dei sette ceri significanti l’ardore della loro vita in Cristo estinta repentinamente nel martirio.

Martirio: parola che pronunciamo in infinite circostanze e mai appropriatamente come in eventi analoghi a quello dell’uccisione dei sette monaci dell’Atlas; ma della quale pensiamo nessuno abbia potuto comprendere la concreta portata trascendente come la afferrò dom Bernardo Olivera, il loro Abate generale, nel momento in cui dovette compiere l’atto legale di identificare le spoglie dei sette monaci e riconoscere nei tratti sfigurati di quei corpi e di quei volti i suoi sette Giovanni Battista, decapitati come il primo testimone di Cristo nei deserti.

Era stato proprio lui, dom Olivera, a riferirsi al martirio del Precursore, quando raccontò al suo ordine (l’Ordine cistercense della stretta osservanza/ocso) l’episodio vissuto, come leggiamo in un commento di Michel Kubler nel citato numero di La Croix: “Nel riportare l’episodio alle comunità del suo ordine, egli ebbe saggiamente il pudore di non descrivere quella visione d’orrore, ma di fornirne la chiave: ciò che gli era stato mostrato dei corpi dei suoi fratelli – scriveva – evocava letteralmente il martirio di Giovanni Battista, decapitato per ordine del re Erode”.

In tal modo l’Abate indicava – prosegue il commento di Kubler – con un unico raffronto la duplice portata dell’avvenimento: quella dell’incredibile carica emozionale che suscitò nel mondo intero e presso tutte le fedi la morte dei sette trappisti di Notre-Dame dell’Atlas: “un’emozione fatta di indignazione di fronte a tale assurda violenza e anche di mobilitazione per affermare che in quell’affare non si poteva chiamare in causa Dio. L’altra dimensione va più lontano e annuncia l’aspetto profetico che la semplice morte così drammatica comportava: occorreva discernere, non soltanto nella morte ma nella vita di quei monaci una parola detta da Dio davanti al mondo”.

 

A TIBHIRINE,

IL “GIARDINO”

 

Soli ad averli visti morire sono stati gli esecutori della strage, anche quello che ha ucciso tra i sette dom Christian de Chergé, il priore del monastero, il quale nel suo preveggente testamento spirituale così si rivolgeva, chiamandolo “amico” come Gesù aveva chiamato Giuda che lo tradiva, a colui che gli avrebbe dato la morte: “E anche tu, amico dell’ultimo istante, che non saprai quello che starai facendo, sì, anche per te voglio dire questo grazie, e questo ad-Dio, nel cui volto io ti contemplo. E che ci sia dato di incontrarci di nuovo, ladroni colmati di gioia, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, Padre di tutti e due. Amen”.

Ma della vita di quei sette uomini di Dio c’erano – ci sono tuttora – persone amiche del monastero che ne hanno conosciuto de visu la fede e la preghiera, ammirato l’onesta sobrietà del vivere, partecipato l’amicizia, gustato la carità discreta condita di semplice gioia.

In quel luogo circondato da una geografia impervia e dal nome Tibhirine, che in lingua berbera significa giardino, i sette trappisti rendevano presente il Vangelo nella pazienza di una esistenza non lanciata alle conquiste della fede cristiana ma consegnata al silenzio che fa maturare l’umile seme della Parola anche nel cuore di fratelli musulmani toccati dalla loro umanità e dalla loro accoglienza.

Con il priore dom Christian, 59 anni, figlio di un generale, giunto quale semplice monaco all’Atlas nel 1969, erano – nominiamoli tutti – Luc Dochler, il decano perché aveva 82 anni e vi era entrato nel 1946: fratello converso per vocazione, curava gratuitamente i malati che bussavano alla loro porta; Christophe Lebreton, 45 anni, a Tibhirine dal 1987, maestro dei novizi e sotto-priore che coltivava con gusto singolare l’amicizia evangelica con i più poveri; Michel Fleury, 52 anni, arrivato all’Atlas nel 1984, monaco dopo essere stato operaio fresatore: cuciniere della comunità e addetto a lavori domestici vari, si racconta che avesse sempre sulle labbra l’esclamazione musulmana Inch Allah!; Bruno Lemarchand, 66 anni, superiore dal 1992 della casa di Fès in Marocco che dipendeva da Notre-Dame dell’Atlas, e di passaggio per votare alla rielezione del priore; Célestin Ringeard, il cantore della comunità: era stato infermiere durante la guerra d’Algeria, aveva 62 anni e si trovava a Tibhirine dal 1987; Paul Favre-Miville, 57 anni e all’Atlas dal 1989: proveniente dall’Alta Savoia chiamato alla vita monastica quando aveva 45 anni; ed essendo stato prima un idraulico, era incaricato di mettere a punto un sistema di irrigazione delle coltivazioni. A Tibhirine, Giardino ora incolto.

 

RIMASTI

FINO ALLA MORTE

 

Sapevano bene, tutti e sette, che l’Algeria stava attraversando un periodo tristissimo e anzi da tempo riflettevano sull’eventualità che il fondamentalismo terroristico avrebbe potuto non risparmiare la loro vita, legata a quella terra dal loro voto perpetuo di stabilità; il lungo discernimento compiuto tutti insieme li aveva portati sia a rifiutare l’offerta di una protezione armata e quella di trasferirsi, sempre protetti dalle armi, a Médéa, volendo restare a Tibhirine unicamente come segno di pace, sia a concludere che l’avrebbero lasciata, l’Algeria, soltanto a condizione di potersi trasferire in Marocco per ritornare in tempi migliori al loro monaste­ro, casa della loro vita sino alla morte.

Di quel discernimento fece parte fin dall’ottobre del 1993 una lettera che il priore dom Christian aveva pensato di inviare a Sayah Attiya capo del Gruppo islamico armato (il GIA) e del gruppo che nella notte di Natale dello stesso anno aveva poi fatto irruzione nel monastero:“Fratello, mi permetta di rivolgermi a lei, da uomo a uomo, da credente a credente (...). Nel conflitto attuale che sta vivendo il paese, ci pare impossibile prendere partito. La nostra condizione di stranieri ce lo proibisce. Il nostro stato di monaci (ruhbân) ci vincola alla scelta di Dio su di noi, che è quella di una vita di preghiera e di semplicità, di lavoro manuale, di accoglienza e di condivisione con tutti, specialmente con i più poveri (...). Queste ragioni di vita costituiscono una scelta libera di ciascuno di noi. Ci impegnano fino alla morte. Non penso che sia volontà di Dio che questa morte ci venga da voi (...). Se un giorno gli algerini riterranno che siamo di troppo, rispetteremo il loro desiderio di vederci partire. Certamente con grande dolore. So che continueremo ad amare tutti e fra questi anche lei. Quando e come questo messaggio le arriverà? Poco importa. Sentivo il bisogno di scriverlo oggi. E l’Unico di ogni vita ci guidi. Amen” (da Il Regno-documenti 13/1996, 428).

Rimasero, quindi, mentre in Algeria venivano uccisi a ritmo continuo religiosi e religiose di ordini diversi, e mentre si faceva più chiaro che il medesimo destino attendeva anche loro. Rimasero con la serenità di sempre: la dolcezza con cui fratel Luc continuava ad accogliere e curare i malati della zona circostante, e la pazienza con cui avevano assistito alla posa della prima pietra di una piccola moschea (rimasta incompiuta) proprio davanti al monastero; una provocazione, questa, che i monaci non raccolsero perché sapevano che l’iniziativa non era stata dei loro vicini, i quali li amavano e li hanno pianti.

Li rapirono nel silenzio della notte tra il 26 e il 27 aprile e li uccisero il 21 maggio 1996: è questa la data incisa sulle sette tombe al limite di un vialetto di pini, nel cimitero ora seminascosto dagli alberi del giardino sottostante al monastero. Monastero ora senza monaci, e nel quale una sala prestata dai cistercensi ai musulmani risuona delle voci dei bambini che studiano il Corano...

 

ONORARE

LA PROFEZIA

 

Una tragedia ancora attuale, quella di Tibhirine, per altro indissociabile dal dramma dell’Algeria odierna. Il buio avvolge tuttora la verità dei fatti avvenuti tra il 27 aprile e il 30 maggio, giorno in cui i sette monaci vennero trovati assassinati: un delitto voluto dal GIA? O sono stati sacrificati – è la domanda ripetuta anche nel citato numero di La Croix – in un regolamento di conti tra fazioni rivali? Oppure sono state vittime di un intervento militare inteso a liberarli? Domande finora senza risposte, mentre nella sua attualità – è nuovamente il commento di Kubler – occorre ricercare sullo stesso doppio registro di cui si è detto all’inizio: “Da una parte, resta da appurare la verità quanto alle cause e alle circostanze di quell’orrore; si tratta di un dovere sacro, che concerne i fatti ma soprattutto riguarda l’insieme delle comunità interessate. È il dovere di indagare che grava su tutti coloro che ne hanno la missione, siano essi giornalisti, politici, militari o diplomatici. E rimane l’altro compito, che è quello di discernere la dimensione profetica della vita e della morte dei sette monaci di Tibhirine, al fine di trarne un messaggio forte verso la nostra attualità ovunque situata”.

Se ha parlato al mondo la loro morte, rivelando l’esistenza di monaci che erano uomini come tutti, provenivano da famiglie normali come tante, avevano una storia e degli amici, lavoravano con le proprie mani, così è giusto che il mondo conosca la loro scelta di tuffarsi nel deserto, il luogo dal quale Giovanni chiamava a conversione l’umanità ed essi con il loro silenzio ripetevano l’eco della sua voce.

Occorre – è la conclusione di Kubler – che la voce dei Giovanni Battista d’oggi possa risuonare, da quel deserto, attraverso tutte le nazioni, invitante al dialogo tra le religioni come i sette erano dediti al dialogo con l’islam, nello stesso tempo in cui, nell’additare l’Agnello di Dio che passa in mezzo all’umanità, provoca i cuori alla conversione.

Certamente prima depositaria dell’eredità dei sette monaci uccisi a Tibhirine è il “piccolo gregge” cristiano che è la Chiesa cattolica in Algeria, colpita anche dall’uccisione del suo vescovo mons. Henri Teissier. E della sua fedeltà perseverante fino al martirio si fa garante ognuno – un prete, una religiosa, una minuscola comunità immersa tra le moltitudini islamiche – che sulla scia esemplare dei martiri di Notre-Dame dell’Atlas sceglie ancora di restare, nonostante tutto, per dimostrare quanto il Padre ami quei suoi figli. L’ha sottolineato con la sua solita sobrietà di parola dom Bernardo Olivera, intervistato per La Croix da Yves Pitette, ricordando la scelta comune dei monaci di Tibhirine di restare sul posto, fedeli all’impegno – sostenuto dal voto di stabilità – di dedicarsi al dialogo con i fratelli musulmani, nello stile della loro tipica “apertura a ogni essere umano specialmente se soffre” e “in quella solidarietà col popolo algerino che laggiù ha commosso il cuore di tante persone”.

 

Zelia Pani