UN CONTINENTE DIMENTICATO

PER UNA RINASCITA DELL’AFRICA

 

Davanti alla sfida del terrorismo internazionale quale contributo può dare l’Africa alla ricostruzione del mondo? In mezzo a tanto “afropessimismo” c’è spazio anche per una prospettiva ottimistica _e positiva.

 

Al summit di Evian-les-Bains, in Francia, i rappresentanti del G8 avevano tra i loro obiettivi l’impegno di gettare un ponte tra paesi industrializzati e i paesi in via di sviluppo. A tener banco è stata invece l’ansia di ritrovare serenità e distensione tra Stati Uniti e Francia dopo la netta divergenza di posizioni sulla guerra in Iraq e, a seguire, le questioni economiche, del terrorismo internazionale e della situazione israelo-palestinese. Marginali e diplomatiche le affermazioni sulla situazione africana, nonostante l’appello dei vescovi della comunità europea (COMECE) a una nuova mobilitazione per l’Africa.

Diamo spazio a un intervento di p. Gabriele Ferrari, che cerca di riflettere sulla possibilità dell’Africa e dei suoi popoli di camminare verso un vero sviluppo, contribuendo anche alla ricostruzione del mondo.

 

Dopo l’attacco alle Torri di Manhat­tan (11 settembre 2001) si disse che “la storia non poteva essere più quella”.

Stando qualche tempo in Africa, mi sono chiesto che cosa è cambiato in Africa dopo quel giorno tremendo. Apparentemente, nulla o quasi nulla. L’Africa sembra aver metabolizzato quell’esperienza dicendo a se stessa che in fondo i suoi problemi rimanevano gli stessi ed erano, purtroppo, ben più vasti e gravi di quelli inflitti dal terrorismo all’occidente; che ha già pagato e sta pagando conti molto salati all’occidente, vedi la tratta degli schiavi, la colonizzazione, il neocolonialismo, la recessione che l’ha colpita dopo il fallimento dell’epoca dello sviluppo.

Oggi, di nuovo sotto choc per l’imprevedibile crisi che ha colpito la vetrina dell’Africa francofona, la Costa d’Avorio, l’Africa assiste apparentemente impassibile al ribollire del terrorismo internazionale dopo la guerra dell’Iraq, che ha colpito il Marocco, finora noto per il suo islamismo tollerante.

L’orizzonte africano è in questo momento molto oscuro: pensiamo alla situazione della Repubblica democratica del Congo che non riesce malgrado ripetuti tentativi a trovare la formula della pacificazione; pensiamo alle altre guerre della zona dei Grandi Laghi (Rwanda, Burundi, Uganda); alle tensioni della Repubblica Centro Africana dal marzo scorso teatro d’un colpo di stato che ha spazzato via il presidente Patassé, oppure al rinascere della guerra in Liberia, al persistere delle tensioni socio-religiose in Nigeria e soprattutto alla situazione dello Zimbabwe e della Costa d’Avorio, due paesi che parevano aver fatto del cammino in avanti nello sviluppo e che invece vediamo sprofondare nel caos e nella confusione politica. Quello che impressiona è il crescere di conflitti che si dicono di religione, dove questa serve a coprire e alimentare tensioni sociali di lunga data.

Ci sono stati anche dei segni positivi, come l’alternanza al potere in Kenya e in Burundi, l’abbozzarsi, pur tra tante difficoltà, di un cammino democratico in Nigeria, la speranza suscitata dal NEPAD, anche se la guerra dell’Iraq e la recessione occidentale ne ha attenuato l’ottimismo. Ma se guardiamo al momento presente l’orizzonte è ancora molto oscuro. Il peggio tuttavia sarebbe se l’Africa divenisse il campo del terrorismo internazionale islamico, come risposta alle provocazioni della politica occidentale degli USA. Il disastro dell’11 settembre 2001 sta coinvolgendo il mondo e dividendolo in chi sta con l’America e chi sta con l’islam con il rischio che ne venga fuori uno “scontro di civiltà”, come aveva previsto Huntington. Che fare allora perché questo non coinvolga tutti e tutto dentro una guerra, che pur non dichiarata, finirebbe per coinvolgere “tutti e tutto” a livello mondiale?

 

IL RISCHIO

DELL’ORA PRESENTE

 

Jean-Paul Ngoupandé, un pensatore e politico della Repubblica Centro Africana, attualmente in Francia, si lascia sfuggire una previsione: “L’islam africano, finora al margine della febbre che ha colpito molti paesi musulmani nel mondo, scivolerà in fretta nell’estremismo. E lo farà tanto più facilmente perché tutti gli ingredienti sono già presenti”.1 E li enumera: la crescita demografica che offre manodopera al terrorismo mondiale, l’esplodere delle periferie urbane, il permanere di gravi problemi sociali e umani come la fame, l’analfabetismo, la disoccupazione, l’Aids e le altre malattie. Tutto questo con la conseguente frustrazione, può formare un cocktail fra i più esplosivi e micidiali.

Ormai l’islam dell’Africa sub-sahariana rappresenta il 20% degli islamici che sono nel mondo. È questo il raggruppamento più forte nel mondo dopo quello del subcontinente indiano (da Karachi a Dhacca, il 30%), ma più numeroso di quello che si trova nei paesi arabi (18%), nell’Asia sud-orientale (Indonesia, Malesia ecc. 17%) e nell’ex-Unione Sovietica (10%).

Non ci si può nascondere che la frustrazione profonda che viene dall’esclusione dal mondo della globalizzazione, l’insensibilità dell’occidente per i problemi sociali dell’Africa e del mondo, il persistere dei problemi irrisolti, i provvedimenti duri e asfissianti della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale e dell’Organizzazione mondiale del commercio stanno accumulando nel cuore dell’Africa una voglia di riscatto e di vendetta tali da diventare follia terroristica, che nessuno potrebbe approvare ma che, purtroppo, è pronta a scatenarsi.

Non aiuta in nulla l’affermare che tali conflitti non sono dei conflitti religiosi. Purtroppo, tutti sappiamo che quando si vuol rendere sicuro lo scatenarsi di un conflitto, vi getta sopra il carburante della religione o dell’etnismo.

Che cosa si deve fare per disinnescare questa bomba a orologeria già pericolosamente innescata? La questione, giusta e pertinente, ne suppone un’altra: l’Africa è in grado di offrire qualcosa a questo nostro mondo in crisi? Chi si reca frequentemente in Africa, istintivamente direbbe di no. L’Africa può offrire solo interminabili conflitti, corruzione nei suoi governanti, AIDS e prospettive di morte. Ma riflettendoci, le cose non sono irrimediabilmente perdute e l’afropessimismo non è giustificato dalla storia. Dove sta allora la speranza? Sta su due versanti, anzitutto nella cultura africana stessa, e poi in un nuovo impegno del mondo occidentale in favore dell’Africa.

 

CIÒ CHE L’AFRICA PUÒ DARE

IN QUESTO MOMENTO

 

In mezzo al disorientamento generale causato dalla caduta del bipolarismo della guerra fredda e dalla dinamica d’esclusione della globalizzazione, l’Africa è certamente un continente dimenticato, che non partecipa più alla vita del mondo, un continente ormai alla deriva. Ma l’Africa deve cercare di non cadere nella trappola del piangersi addosso e della recriminazione. È senza futuro lamentarsi dei mali della colonia e degli ex-coloni, come sta facendo Mugabe con gli inglesi, o buttare tutta la responsabilità dei mali della Costa d’Avorio sulla Francia o sugli USA, oppure attribuire la guerra dei Grandi Laghi solo alle potenze occidentali. Sia ben chiaro: sono accuse che hanno un fondamento oggettivo, ma soggettivamente l’Africa deve prendere in mano il suo destino e cercare di vivere la sua sovranità con tutte le conseguenze.

Una prima cosa che l’Africa deve fare è di non fidarsi delle proprie élite ormai senza credito, incapaci di gestire il futuro e lo sviluppo. “È fin troppo provato che i presidenti a vita o quasi sono gli ostacoli alla crescita del continente”:2 Mobutu ne è la prova più conosciuta, ma venti su cinquantatrè presidenti che sono al potere, lo sono da più di quindici anni; tre di essi ormai da più di trent’anni, i presidenti del Togo, del Gabon, della Libia; sei hanno compiuto più di vent’anni: i presidenti del Benin, Congo Brazzaville, Angola, Guinea equatoriale, Zimbabwe, Camerun. È un vizio africano quello di non staccarsi dal potere? L’Africa ha bisogno di uomini nuovi e di una nuova concezione del potere e del suo esercizio, quella che oggi si chiama una nuova “governance” (governabilità). L’Africa e i suoi popoli cercano la pace e lo sviluppo, ne hanno abbastanza delle guerre e delle rivalità interne.

A questo proposito Ngoupandé3 si chiede: perché in Africa solo i politici sono così poco affidabili? Perché dopo quarant’anni di indipendenza non si trova ancora una soluzione positiva a questo problema? Certo, le derive del neocolonialismo e della globalizzazione hanno la loro responsabilità, la concorrenza sleale fatta di protezionismo su certi prodotti occidentali con la corrispondente esclusione dai mercati mondiali di quelli africani, è altrettanto reale. Ma tutto questo non può e non deve servire da alibi: la verità è che molti capi di stato africani sono corrotti, cercano di salvare il loro potere e di trarre dei vantaggi per sé e per quelli della loro parte coprendo questa inconfessabile realtà con l’alibi della stabilità, spesso voluta dall’occidente per garantire i propri interessi, anche quando essa è la stabilità di un governo illegittimo, dittatoriale, che calpesta apertamente i diritti delle persone umane. Una periodica alternanza al potere, insieme con una demitizzazione del ruolo del capo, è condizione e frutto della democrazia.

In secondo luogo l’Africa sente oggi il bisogno di una nuova apertura al mondo occidentale, sulla base di una onesta parità. Questa è la strada del futuro. È il progetto del NEPAD (New Economic Partnership for African Development) guidato dai presidenti Wade, Mbeki, Obasanjo et Boutlefika. Il presupposto di questo progetto, oggi un po’ in affanno a causa della recessione economica mondiale, è che bisogna farla finita con l’assistenzialismo, tanto contestato quanto cercato, per cercare strade nuove, in primis quella della fiducia in se stessi.

 

CHI ASCOLTA

L’AFRICA?

 

Gli africani hanno qualcosa da dire sul modo nuovo di gestire il mondo. Un frutto della rivoluzione francese era stato quello di abolire la pratica feudale per cui solo coloro che hanno “censo”, ossia ricchezza, hanno il diritto di dir la loro in politica. Per questa ragione, oggi gli africani sono ancora esclusi (oppure ci sono solo nominalmente …) dalle sedi dove si elabora la politica mondiale. Il G7 (o G8) ha promesso di ascoltare l’Africa, ma non si è ancora visto nulla, se non qualche concessione paternalistica, più promessa che realizzata, a Genova e a Kananaski.

L’11 settembre ha scosso il mondo e la storia. Il mondo ora sa che deve trovare una nuova sistemazione che eviti ogni esclusione, e faccia vivere in solidarietà il mondo. Per raggiungere questo obiettivo bisogna rimescolare le carte e permettere anche all’Africa di rientrare nel consesso delle nazioni a pieno diritto, per essere partner nella gestione del mondo e evitare mali maggiori che sono all’orizzonte. È un fatto che l’islam in Africa è una religione in crescita che fa nascere un integrismo di difesa da parte dei cristiani (protestanti e cattolici). Il rischio della crociata non è illusorio, anzi è vero il contrario. L’Africa potrebbe diventare il campo di battaglia dell’integrismo. È in atto un ricongiungimento tra l’islam del nord e quello dell’Africa centrale attraverso la Mauritania all’ovest e attraverso il Sudan all’est. Bisogna che il mondo tenga d’occhio il fermento islamico in Africa. Potrebbe essere questo il campo di crescita della tolleranza oppure quello del terrorismo integrista.

Qual è allora la strategia da adottare? Anzitutto non avere debolezze o fare concessioni al terrorismo di qualsiasi matrice. Conservare una posizione chiaramente tollerante senza cedere alla seduzione degli aiuti economici. Coltivare una cultura di tolleranza e non cadere nello spirito della crociata contro chicchessia. L’Africa non ha bisogno di altre guerre, ha già pagato abbastanza in termini di sangue e di sofferenza, e sa che i conflitti possono essere composti grazie ad una cultura della ricerca e della consultazione, quella che in Africa si chiama la palabre. Bisogna anche cercare di mettere in piedi dei governi responsabili e sollecitare le chiese a far opera di formazione politica dei loro fedeli.

 

IL CONTRIBUTO

DEI VALORI AFRICANI

 

Il mondo occidentale è stato stordito e disorientato in occasione dell’attacco alle torri di Manhattan e ha percepito che non si può più continuare come prima, che ci vuole un altro modello di vita, rispettoso delle persone e dei loro diritti, attento all’ecosi­stema, dove la persona valga più del lavoro e della produzione, dove non viga più la legge della giungla, ma la solidarietà. Senza regressioni antistoriche, ci vuole un nuovo modello di vita.

L’Africa che, eccezion fatta del Sud-Africa, non è l’impero del neoliberismo, del capitalismo o dell’industrializzazione selvaggia, potrebbe offrire al mondo un nuovo modello di convivenza fondato sulla solidarietà, sull’ar­monia con la natura e su una nuova comunione tra gli umani. L’Africa che è ancora “una pagina intatta”4 può dare il suo contributo alla nascita di un mondo nuovo fondato su parametri diversi da quelli del mondo della globalizzazione. C’è una ragione per credere che questo continente possa risorgere ed è l’incredibile capacità dei suoi abitanti di affrontare le sfide della sopravvivenza, e di attingere a ciò che l’uomo ha sicuramente di più umano in se stesso, la resistenza e la creativi­tà. Il fuoco della speranza in Africa non si è mai spento e non si spegne, malgrado le prove e le tragedie più gravi.

Si deve riconoscere che l’Africa ha mancato l’appuntamento con la modernità, ma sarebbe più vero dire che sono state le sue élites a tradirla. L’Africa, vincendo i suoi complessi anticolonialisti, deve ritrovare un nuovo rapporto con l’occidente. Oggi che insieme alla guerra fredda e quindi al confronto est/ovest è finita la “escroquerie intellectuelle” (la truffa degli intellettuali)5 sulla dialettica sinistra/destra, la crisi dell’11 settembre 2001 ha messo in evidenza l’urgenza di una nuova visione del mondo e ne ha fatto una speranza.

Oggi è chiaro che per salvarsi dal terrorismo non serve una guerra, ma si devono prosciugare le terre di coltura del terrorismo e i pretesti sui quali esso si appoggia. Solo così nascerà un nuovo mondo, solidale e più umano. È questa una finestra per l’Africa che la fa uscire dal suo isolamento e le permette di riannodare un dialogo franco, sincero e responsabile sui propri interessi più veri, un dialogo che sarà una carta di credito, e l’occasione di esprimere uomini che diano credibilità all’Africa davanti al resto del mondo.

Questi uomini nuovi abbandoneranno ogni forma di populismo demagogico e la logica della guerra per accedere a un autentico sviluppo sociale, democratico. Essi fonderanno il futuro dell’Africa, prima ancora che sullo sviluppo economico, su una buona governance, sul rispetto dei diritti umani e della parola data, sulla giustizia, opponendosi a ogni impunità e immunità dei potenti. Ciò che urge è far rinascere gli stati come comunità di uomini onesti e laboriosi.

 

Gabriele Ferrari s.x.

 

1_Jean-Paul Ngoupandé, L’Afrique face à l’Islam, Albin Michel 2003, 111.

2_Ibid., 159.

3_Ibid., 160.

4_Ibid., 180.

5_Ibid., 186.