TRADIZIONI CHE SOFFOCANO

 

Caro direttore,

mi riferisco al servizio dal titolo Tradizioni che paralizzano, apparso sul n. 6 del 31 marzo. Ho letto con attenzione e con molto interesse questo scritto e mi pare di condividere, nel suo insieme, l’analisi condotta ed esposta. Vi sono però alcuni punti sui quali una riflessione più attenta e, mi sia permesso, prudente potrebbe giovare molto all’analisi globale.

Nel terzo sottotitolo si rileva il fatto che alcuni istituti non abbiano colto «il passaggio dello Spirito e continuino a ripetere ciò che hanno ricevuto dalle loro tradizioni». È un dato di fatto che la ripetitività e la mediocrità si insinuino negli istituti, provocando i danni ben si conoscono; ma insieme a «religiosi che vivacchiano nella mediocrità da cui non escono per tutta la vita» ve ne sono moltissimi altri che, grazie a Dio, accolgono e liberano l’inesauribile fantasia dello Spirito e attraverso un’intensa vita interiore riescono a donare speranza e pace alla gente del nostro tempo. Perché non ricordare anche questi? Non credo che siano ignoti a nessuno tutta la creatività e il bene operati da tanti religiosi sia nelle metropoli che nelle piccole realtà. Il pericolo della “efficienza superficiale” esiste, nessuno lo nega; ma esiste altresì un’efficienza spirituale che dona alla Chiesa e al popolo di Dio uomini e donne che, pur nel mantenimento di usi che appaiono tramontati, riescono a trasmettere la presenza e l’amore di Dio. Possibile che «abiti e costumi superati» (nono sottotitolo) siano di tale impedimento o di operazione nel dialogo e nel contatto con la gente? Vorrei fare un esempio, passando per un vicolo del centro storico della mia attuale città (un dedalo di vicoli in cui violenza, droga e quant’altro imperano) mi sono trovato dinanzi a una giovane suora che, vedendo un frate con tanto di tonaca e cappuccio (non inamidati) mi ha salutato con un luminoso “sia lodato Gesù Cristo”. E aveva indosso abiti “superati”, cioè una tonaca lunga e una cuffia (non ho certo badato se inamidata o meno), e faceva parte di una piccola congregazione che si spende a favore degli ultimi. Una congregazione in cui le religiose si alzano alle 5 e dopo due ore di preghiera vanno a soccorrere i tanti disperati e affamati che si aggirano nelle mostre congestionate metropoli. In definitiva, non sono forse le tradizioni che paralizzano, quanto la volontà personale e sincera di cambiamento, che tuttavia può avvenire e avviene indipendentemente dalle apparenze esterne.

 

Fra Franco Careglio ofm-conv.

 

Il problema di fondo non riguarda tanto se ci sono religiosi tiepidi o fervorosi, e la loro quantità, ma certe tradizioni per quanto venerande, ma inveterate, e certi usi e costumi desueti che diventano un ostacolo al rinnovamento auspicato dal concilio e promosso dalla Chiesa in questi ultimi decenni.

L’articolo intendeva attirare l’attenzione su questo argomento, collocandolo in un quadro globale, geograficamente e culturalmente molto diversificato, a prescindere da qualche singolo particolare più o meno discutibile. Il fatto che in molti istituti non si abbia avuto ancora il coraggio di mettere mano a un profondo rinnovamento e a una esigente inculturazione dei carismi e delle loro espressioni, è incontestabile. Le nuove generazioni, figlie del nostro tempo, quando entrano nei nostri istituti spesso provano un profondo disagio nell’abbracciare regole, usi, costumi che riportano indietro la storia di secoli. E spesso se ne vanno, benché non solo per questo. Pensi alle resistenze al cambiamento in tanti monasteri e conventi di clausura. A denunciarle sono gli stessi abati e le abbadesse in occasione dei loro capitoli e assemblee o nelle loro riviste interne. Forse sarà opportuno ricordare quanto ha scritto di recente il benedettino, Stefano Pasini (citato in Testimoni, n. 7, p. 10), a questo riguardo: «Non ci si può esimere, neppure per uno studiato calcolo diplomatico, dall’affermare che il compito attuale del monachesimo può esprimersi soltanto nel senso di una riforma alla quale il concilio Vaticano II ha esortato tutti i religiosi, ma che il monachesimo non sembra aver intrapreso con quella determinazione necessaria, che, senza limitarsi ad alcuni appariscenti quanto insignificanti cambiamenti, sappia riconoscere i “segni dei tempi” e comportarsi di conseguenza con coerenza». Mi domando: siamo proprio sicuri che questo discorso non valga anche per tanti istituti di vita attiva?

Forse non ci rendiamo conto di quanto siano cambiati i tempi e quanto anche noi dobbiamo cambiare. Non per adeguarci alla mentalità del secolo, ma per una fedeltà più autentica e creativa allo Spirito e un ritorno a ciò che è essenziale nella vita consacrata, ossia il radicalismo evangelico che è ciò che conta. Il celebre invito di Giovanni XXIII a spalancare porte e finestre per far entrare l’aria fresca dello Spirito conserva anche oggi tutta la sua attualità. Certe tradizioni possono, anzi devono, cambiare quando rischiano appunto di soffocare lo Spirito. Sulle modalità comunque si può discutere.

 

(A.D.)