LINEE DI SPIRITUALITÀ MISSIONARIA

MISSIONE IN ASIA OGGI

 

Dovrà essere una spiritualità capace di attraversare le barriere e i confini posti dalle diverse religioni, razze, culture, lingue ed essere caratterizzata da quattro atteggiamenti: una spiritualità di presenza, di kenosis, di riconciliazione e armonia, e un’antropologia olistica.

 

Nell’enciclica Redemptoris missio del 7 dicembre 1990, il papa scriveva riguardo alla missione ad gentes: «Ci sono paesi e aree geografiche e culturali in cui mancano comunità cristiane autoctone; altrove queste sono talmente piccole, da non essere un segno chiaro di presenza cristiana; oppure queste comunità mancano di dinamismo per evangelizzare le loro società o appartengono a popolazioni minoritarie, non inserite nella cultura nazionale dominante.

Nel continente asiatico, in particolare, verso cui dovrebbe orientarsi principalmente la missione ad gentes, i cristiani sono una piccola minoranza, anche se a volte vi si verificano significativi movimenti di conversione ed esemplari modi di presenza cristiana».

E proprio della missione della Chiesa in Asia si occupa questo Speciale, in vista anche della solennità della Pentecoste, festa missionaria per eccellenza. L’auspicio è che nel terzo millennio della redenzione avvenga in questo immenso continente, dove il cristianesimo rappresenta un’infima minoranza, una sovrabbondante effusione dello Spirito affinché Cristo sia conosciuto e accolto come unico e definitivo salvatore.

Ma quale volto deve assumere oggi la missione in questo continente? Ce lo descrive p. Peter Phan, docente presso l’Università cattolica di America in un intervento al Sedos1 che qui riprendiamo in forma alquanto abbreviata.2

 

Il mio intento qui non è di parlare di spiritualità missionaria in generale già trattata a lungo in tempi recenti da diversi missiologi. Qui vorrei segnalare alcuni atteggiamenti che appaiono i più appropriati ai missionari in un contesto globalizzato, postmoderno e religiosamente pluralistico, con molteplici confini e situazioni inconsuete. Robert Schreiter in un suo intervento all’assemblea del Sedos, circa il futuro della missione, rileva che la spiritualità missionaria del futuro dovrà svilupparsi su quattro linee: dovrà essere una spiritualità di presenza, di kenosis, di riconciliazione e un’antropologia olistica.3

Prendendo lo spunto dalle realtà dell’Asia e dalle varie dichiarazioni della Federazione delle conferenze dei vescovi del continente (FABC) e degli istituti, dal sinodo per l’Asia e dall’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Ecclesia in Asia, vorrei descrivere quattro caratteristiche quali parti di una spiritualità missionaria che può essere definita di attraversamento dei confini.

 

SPIRITUALITÀ

DI PRESENZA

 

Anzitutto una spiritualità di presenza. Vivere in Asia vuol dire attraversare di continuo i confini che separano una varietà impressionante di lingue, razze, gruppi etnici, culture e religioni. Oltre a questi confini tradizionali, vi sono quelli attuali creati dal processo di globalizzazione, quali il crescente divario tra ricchi e poveri, il fondamentalismo religioso, i conflitti politici e militari tra nazioni, e la violenza tra comunità. In Asia, forse più che in ogni altra parte del globo, i missionari sono chiamati a essere presenti a queste molteplici realtà e avere una chiara coscienza dei confini , in se stessi necessari per difendere la propria identità, ma che generano anche molte forme di esclusione.

Questa presenza evidentemente va oltre la vicinanza fisica. Richiede l’accettazione del pluralismo non come una calamità ma come una benedizione e un’opportunità di reciproca collaborazione e arricchimento. Inoltre richiede una solidarietà affettiva ed effettiva con le gente di ambo le parti dei confini, specialmente con gli emarginati e gli oppressi. Per giungere a solidarietà affettiva con essi, l’istituto per l’azione sociale della FABC raccomanda il metodo dell’ “esposizione” e

dell’“immersione”, parte del “ciclo pastorale” in quattro fasi, ossia, esposizione/immersione, analisi sociale, contemplazione e programmazione: «L’esposizione ci ha portato più vicini alla grave realtà della povertà, ma l’immersione ha cercato di sperimentare la realtà dalla prospettiva dei poveri stessi. L’esposizione assomiglia alla visita del medico in ordine alla diagnosi; l’immersione è come la visita a un vero amico per intrecciare con lui un autentico dialogo-di-vita.

Perciò, una spiritualità della presenza include una autentica amicizia con coloro che vivono dall’altra parte del confine e un dialogo-di-vita con essi. In effetti, questa condivisione di vita fa parte di un nuovo modo di essere Chiesa in Asia e implica una quadruplice presenza: a) il dialogo di vita, in cui le persone cercano di vivere in uno spirito aperto e di vicinanza, condividendo le loro gioie e le loro sofferenze, i loro problemi e le loro preoccupazioni umane; b) il dialogo dell’azione, in cui i cristiani e gli altri collaborano per lo sviluppo integrale e la liberazione della gente; c) il dialogo dello scambio teologico, in cui degli specialisti cercano di approfondire il loro rispettivo patrimonio religioso e di apprezzare i valori religiosi gli uni degli altri; d) il dialogo dell’esperienza religiosa in cui le persone, radicate nelle loro rispettive tradizioni religiose, condividono le loro ricchezze spirituali, per esempio, riguardo alla preghiera e alla contemplazione, la fede e le vie per la ricerca di Dio o dell’Assoluto».

In Asia questo quadruplice dialogo con cui il missionario è realmente presente alla gente che evangelizza deve essere promosso, secondo la FABC, in tre aree: con gli stessi asiatici, specialmente i poveri e gli indigeni (sviluppo integrale e liberazione), con le loro religioni (dialogo interreligioso) e le loro culture (inculturazione).

Questa spiritualità della presenza è quanto mai necessaria e l’opera missionaria compiuta attraverso di essa è quanto mai efficace in quelle parti del mondo, specialmente in Asia, dove un esplicito annuncio di Gesù è proibito e la libertà religiosa è ristretta o negata. Questa presenza sotto forma di “testimonianza silenziosa di vita” forse non è sempre congeniale ai missionari occidentali, abituati per formazione a porre una forte enfasi sulla proclamazione verbale ed esplicita di Gesù come unico e universale salvatore e per i quali ogni cosa che non risponde a questo impegno è considerata un fallimento per la missione. Tuttavia, quando questa silenziosa testimonianza di vita, radicata nell’esperienza di Dio, è accompagnata da uno stile di vita fatto di «rinuncia, distacco, umiltà, semplicità e silenzio» e caratterizzato da «un’opera di giustizia, carità e compassione», è forse quanto mai appropriata per l’Asia e costituisce il cuore della spiritualità della presenza che è missione come «azione contemplativa e attiva contemplazione».

Poiché la spiritualità della presenza è essenzialmente dialogo, essa richiede tutte le virtù che danno successo al dialogo. A questo scopo, secondo l’istituto per gli affari interreligiosi della FABC, non occorre altro che una “spiritualità del dialogo”, specialmente in situazioni di conflitto e di animosità: «In una situazione di pregiudizio determinata dal fondamentalismo e dal revivalismo religioso, dialogo significa ricerca costante e genuina di bontà, di bellezza e di verità seguendo i segni dello spirito che ci guida alla verità tutta intera… in una atmosfera di animosità provocata dall’ingiustizia e dalla violazione dei diritti umani, dialogo vuol dire impotenza e vulnerabilità. Da una posizione di forza si può solo negoziare sulle condizioni; da una posizione di debolezza si trasmette realmente la propria fiducia nell’altro. La fiducia è quanto mai concreta quando si profila la possibilità di essere tradita. Dialogare allora vuol dire aprire il proprio cuore ed esprimere le proprie convinzioni con coraggio e rispetto. Ma, come l’esperienza ha spesso mostrato, lo Spirito si è spesso servito dell’impotenza e della vulnerabilità per attuare il perdono reciproco e la riconciliazione tra le persone, le famiglie e le comunità». Questa spiritualità della presenza da una posizione missionaria di impotenza e vulnerabilità ci introduce all’altra dimensione di una spiritualità che oltrepassa i confini, vale a dire, una spiritualità della kenosis.

 

SPIRITUALITÀ

DELLA KENOSIS

 

Che cosa s’intende con spiritualità della kenosis è spiegato bene dallo stesso istituto per gli affari religiosi: «Vuol dire rischiare di essere feriti nell’atto di amare, cercare di comprendere in un clima di incomprensione. Il dialogo richiede una profonda spiritualità che metta in grado la persona, come ha fatto Gesù, di credere nell’amore di Dio anche quando sembra che tutto vada in pezzi. Il dialogo, infine, richiede una totale abnegazione come quella di Cristo, in modo che guidati dallo Spirito, possiamo essere strumenti più efficaci nel costruire il regno di Dio».

Come è noto, gran parte dell’Asia soffre ancora dell’eredità del colonialismo, di diffusa povertà, di un soffocante debito estero, di mancanza di cura sanitarie di base, di strutture educative adeguate e di degrado ecologico. Il missionario che viene dal primo mondo e specialmente dagli Stati Uniti d’America, attualmente la sola superpotenza a esercitare un potere militare assoluto e a disporre di un’enorme ricchezza, e la stessa chiesa cattolica, potente e ricca istituzione sia in occidente sia in Asia, è spesso visto dagli asiatici come uno che ha a disposizione mezzi illimitati per alleviare le loro pene e sofferenze. Inoltre dal punto di vista religioso, la chiesa cattolica è spesso presentata come un’istituzione che possiede la pienezza della verità e tutti i mezzi di santificazione, incaricata della missione di condividere questi doni divini con gli altri. Di conseguenza, il missionario si sente investito di attese irrealistiche ed è tentato di pensare che corrispondervi faccia parte della sua missione.

È qui che la spiritualità kenotica ha un ruolo chiave. Come afferma Antonio M. Perna, superiore generale filippino della Società del Verbo divino, facendo eco alla FABC: «Gran parte dell’Asia, come sappiamo, è caratterizzata dall’esperienza storica del colonialismo, da una condizione socio-economica di povertà e da una situazione religiosa in cui il cristianesimo è una minoranza. Per questo, il missionario asiatico non può, o non dovrebbe, evangelizzare da una posizione di potere o di superiorità. Egli deve accostarsi alla missione da una posizione di impotenza e di umiltà». Ciò significa che la buona novella non è proprietà del missionario ma solo un dono che egli deve amministrare: «Perciò, il missionario non dovrà né dovrebbe condividere la fede come se ne fosse il proprietario, dettando i termini con cui debba essere compresa, vissuta e celebrata. Il suo approccio alla missione consisterà nel condividere la fede come un dono ricevuto da Dio attraverso gli altri, consapevole di essere solo uno che l’amministra, un servo, e mai il suo possessore o padrone».

La necessità di questa spiritualità kenotica è ancor più urgente nel caso di asiatici che si recano in missione nel primo mondo, come capita oggi di frequente, per far fronte alla mancanza di clero. Come ha acutamente osservato Leo Kleden, un indonesiano della Società del Verbo divino, questi missionari non possono aspettarsi di fare ciò che i missionari del primo mondo hanno compiuto in Asia in termini di cura della salute, educazione e sviluppo sociale. I missionari asiatici che entrano nelle culture moderne e post-moderne dell’occidente, provenienti il più delle volte dalla loro cultura premoderna, vengono in senso vero e proprio “a mani vuote”. Ma questa situazione non deve essere considerata una semplice debolezza ma anche una forza, afferma Kleden: «Questo genere di debolezza può e deve essere la forza dei nuovi missionari. C’è qui un’opportunità d’oro di seguire l’esempio dei primi discepoli di Gesù che furono inviati a mani vuote, ma ripieni dello Spirito del Signore crocifisso e risorto. L’approccio a mani vuote è perciò possibile se il loro cuore è pieno di fede, e se hanno la volontà di servire gli altri come il Signore Gesù. Per mezzo dello Spirito del Signore, la debolezza umana (in senso socio-culturale) è trasformata in kenosis evangelica».

In termini di evangelizzazione, in una spiritualità kenotica, i missionari superano i confini non con l’atteggiamento di chi dà ma di chi riceve. Vanno nelle terre di missione con una tecnologia avanzata per modernizzare gente sottosviluppata, con una cultura superiore per civilizzare i barbari, con una religione per far piazza pulita delle superstizioni, con un complesso di verità rivelate per insegnare a gente non illuminata. Come ha sottolineato Anthony Gittins, essi vanno prima di tutto come stranieri e ospiti. In quanto stranieri saranno considerati da coloro che li ospitano come “forestieri”, “anormali”, “alieni”, “strani”. Come ospiti dipenderanno dalla generosità e dalla gentilezza degli ospitanti, dovranno rispettare e osservare le norme e i costumi del nuovo ambiente e potranno cambiare lo stile di vita del luogo solo se sarà loro richiesto o permesso. Inoltre, in molti casi non sono ospiti invitati, ma sono essi a invitare se stessi oppure anche a fare di tutto per entrare nei paesi che li ospitano. Tutto ciò rende la loro condizione di estranei ancor più pronunciata e precaria.

Alla luce di questi due situazioni, Gittings osserva che fa parte della spiritualità kenotica del missionario «accettare il nostro stato marginale e ambivalente. Noi non siamo più – se mai lo siamo stati – gli agenti primari, ma dei collaboratori, aiutanti e servi». E prosegue: «Consentire di essere uno straniero vuol dire accettare di essere posti a disposizione di Dio che chiama. Abbracciare lo stato di straniero vuol dire abilitare altre persone e avere il coraggio di infondere un po’ di fiducia in un mondo in cui l’interesse personale e il sospetto sembrano muoversi incontrastati. Scegliere di essere uno straniero vuol dire, si potrebbe argomentare, essere un volonteroso discepolo di Gesù».

La spiritualità kenotica esige anche che, in quanto ospite, il missionario impari ad accogliere con cortesia e gratitudine, non solo ciò che riguarda il mangiare e il dormire, ma soprattutto tutto ciò che concerne la cultura, il comportamento morale, le convinzioni e le pratiche religiose. A questo riguardo, le virtù esaltate in passato quali requisiti per essere un missionario di successo come l’indipendenza, la fiducia in se stesso, la capacità di rischiare e la creatività forse possono non essere più appropriate, almeno nella fase di incorporazione nella comunità locale, e devono essere sostituite dalla disposizione di rinunciare al self-control, dalla vulnerabilità, dall’interdipendenza, dalla deferenza e conformità. Evidentemente, come è richiesto dall’etichetta, il missionario in quanto ospite deve anche portare alcuni suoi doni, non per “ripagare” chi lo ospita, ma per ricambiare la sua cortesia. Di conseguenza, egli deve dare testimonianza di Cristo e offrire il dono divino della fede. Ma i doni devono offerti con gratitudine e umiltà e mai essere imposti a colui che ospita.

 

RICONCILIAZIONE

E ARMONIA

 

È un fatto di vita che i confini non servono soltanto a definire e affermare l’identità. Le buone palizzate non sempre fanno buoni vicini. Tutto dipende da chi tira su il recinto, dove e per quale ragione. Può capitare che il prossimo, se egli è il più forte, innalzi uno steccato come una barriera per tener fuori gli altri, lo eriga oltre le sue proprietà, usurpando così i territori di altra gente, oppure lo costruisca per proteggere una ricchezza disonesta e privilegi ingiusti di cui gode. Inoltre è un fatto di vita che non sempre gli ospiti e coloro che li ospitano sono in relazione amichevole tra di loro, così che l’ospitalità diventa un’ostilità. Allora si pone l’esigenza di ristabilire l’armonia e la pacificazione.

Data la crescita della violenza non solo tra le nazioni ma anche al loro interno, non solo nella società secolare ma anche nella Chiesa a partire dalla fine del comunismo nei paesi dell’Europa orientale nel 1989, la necessità della riconciliazione è diventata ancor più acuta. Fra i missiologi contemporanei, Robert Schreiter ha dedicato molta attenzione alla riconciliazione. Egli osserva che la riconciliazione non deve essere promossa come “una pace frettolosa” sopprimendo la memoria della passata violenza, come “un’alternativa alla liberazione”, che è una pre-condizione alla riconciliazione, o come un “processo manageriale” da condurre con razionalità tecnica. Al contrario, la riconciliazione deve essere vista come parte della missione cristiana (2Cor 5,18-19) e basarsi sul racconto redentore cristiano della violenza (peccato), morte, croce e sangue nella vita di Gesù di Nazaret.

Seguendo José Comblin, Schreiter osserva che questa riconciliazione, iniziata e compiuta da Dio, si attua a tre livelli: «un livello cristologico, in cui Cristo è il mediatore attraverso il quale Dio riconcilia il mondo con sé; un livello ecclesiologico, in cui Cristo riconcilia giudei e gentili; e un livello cosmico, in cui Cristo riconcilia tutti i poteri in cielo e sulla terra».

I missionari per adempiere al ministero della riconciliazione, secondo Schreiter, devono sviluppare “una spiritualità di riconciliazione”. Questa consiste nel coltivare un atteggiamento di “ascolto e attesa”, di “attenzione e compassione” e di “esistenza post-esilica”. Ascoltando e aspettando pazientemente si impara a recuperare la memoria della sofferenza e della violenza e ad attendere con pazienza il dono di Dio della pace e del perdono; con l’attenzione e la compassione si entra in solidarietà con coloro che soffrono violenza: con l’esistenza post-esilica si comincia a costruire una nuova società con sano ottimismo e speranza.

La riconciliazione come ricostruzione dell’armonia è anche un tema diffuso nelle teologie asiatiche come si afferma nei documenti della FABC. Non c’è dubbio che l’armonia è centrale nelle culture e religioni dell’Asia. È stato detto che costituisce «l’anima intellettuale e affettiva, religiosa e artistica, personale e sociale sia delle persone che delle istituzioni in Asia». Dopo avere descritto il concetto di armonia come è esposto dalle filosofie asiatiche, dalle primitive religioni e dalle tradizioni religiose (inclusi l’induismo, il buddismo, il confucianesimo, il taoismo, il cristianesimo e l’islam), il comitato consultivo della FABC conclude: «È chiaro che esiste un approccio asiatico alla realtà, un modo asiatico di comprendere la realtà profondamente organico, vale a dire, una visione del mondo in cui il tutto, l’unità costituiscono la somma totale della rete di relazioni e interazioni della varie parti le une con le altre».

Perciò, l’armonia non è semplicemente “assenza di lotta” ma l’ “accettazione della diversità e della ricchezza”. Non è una semplice strategia pragmatica per poter vivere con successo in mezzo alle differenze. Fondamentalmente è una spiritualità asiatica che implica tutte e quattro le dimensioni dell’esistenza umana: l’individuo, le sue relazioni con gli altri, l’universo materiale e Dio. Ciò appare chiaro dagli insegnamenti delle diverse tradizioni religiose. La via indù è caratterizzata da una ricerca di integrazione armoniosa del tutto e delle parti a tutti i livelli: individuale, sociale e cosmico. Il cosmo è sostenuto da un ordine armonioso; la società è tenuta insieme dell’ordine del dharma (legge); e l’individuo raggiunge l’armonia osservando l’ordine cosmico e il codice morale e religioso.

Nel buddismo l’armonia che porta l’individuo alla liberazione dalla sofferenza si raggiunge seguendo il cosiddetto ottuplice sentiero: la parola giusta, l’azione giusta, i mezzi di esistenza giusti, lo sforzo giusto, la rappresentazione mentale o il pensiero giusto, la concentrazione o meditazione giusta, la comprensione giusta, l’attenzione giusta. Secondo il buddismo zen l’armonia nell’individuo consiste nell’unità del corpo e dello spirito nelle attività della persona e produce illuminazione e un profondo senso di pace. A motivo dell’unità tra corpo e spirito, le pratiche fisiche quali assumere una posizione appropriata stando seduti, regolare il respiro e la composizione dello spirito sono atteggiamenti necessari per giungere all’illuminazione spirituale.

L’armonia nell’individuo conduce all’armonia con gli altri esseri umani e questa, secondo Confucio, implica la famiglia, la nazione e il mondo. Secondo il saggio cinese, uno non può pacificare il mondo senza governare bene la propria nazione; non può governare bene la propria nazione senza ordinare rettamente la propria famiglia; non può ordinare bene la propria famiglia senza aver acquisito il dominio di sé. E il dominio di sé si raggiunge vivendo correttamente cinque relazioni: governante e suddito, marito e moglie, genitori e figli, tra fratelli più anziani e più giovani, tra amico e amico. Ognuna di queste relazioni comporta un insieme di obblighi e doveri, e se uno li adempie compiutamente vive in armonia con se stesso e con gli altri. Inoltre, siccome la persona umana è un microcosmo che riflette il macrocosmo, questi deve essere in armonia anche con la natura e il cosmo.

Questa armonia è particolarmente accentuata nel taoismo. Chuang Tzu, il più grande taoista dopo Lao Tzu afferma: «Il cosmo e io siamo nati insieme; tutte le cose e io costituiamo una sola realtà». In concreto, l’armonia cosmica richiede che gli esseri umani promuovano un ecosistema sano e sostenibile, evitino l’inquinamento dell’ambiente, riducano il consumo delle risorse energetiche e in linea generale sviluppino un atteggiamento di rispetto, di contemplazione e un senso di unicità con la terra e la creazione non umana.

Infine, l’armonia con se stessi, con gli altri esseri umani e con il cosmo è radicata nell’armonia con Dio e da essa è rafforzata.

Questa armonia con il divino costituisce l’insegnamento fondamentale dell’islam, termine arabo per dire “sottomissione”. Per essere in armonia con Dio, dobbiamo in tutte le cose sottometterci alla sua santa volontà con la mente, il cuore e l’azione. Dobbiamo, per usare un’espressione confuciana, imparare a conoscere e a compiere il mandato del cielo.

Se questa visione dell’armonia delle religioni asiatiche non cristiane viene integrata dalla dottrina cristiana della riconciliazione di Dio che riconcilia a sé il mondo in Cristo e dalla potenza dello Spirito, ciò che emerge secondo la commissione teologica consultiva, è una nuova spiritualità dell’armonia come una rete di pacifiche relazioni, una nuova teologia dell’armonia come comunione e un più profondo impegno per l’armonia come riconciliazione. La spiritualità dell’armonia plasmerà la vita umana come sviluppo di giusti rapporti: «Partendo dalla consapevolezza dell’armonia con se stessi, data da Dio, la persona entra in una relazione armoniosa con gli atri esseri umani; quindi ha le disposizioni per essere in armonia con la natura e l’universo più ampio. Questo svilupparsi e realizzarsi della giusta relazione con se stessi, con il prossimo e il cosmo porta alla più alta esperienza dell’armonia con Dio».

A partire da questa spiritualità, una teologia dell’armonia si sviluppa non come una conclusione dedotta dai testi cristiani ma come riflessione contestuale sulla realtà conflittuali presenti in Asia, in dialogo e la collaborazione con i seguaci di altre religioni, nella solidarietà con le vittime della discriminazione e della violenza. In questa teologia dell’armonia, c’è un’accentuazione sull’etica in quanto “etica ed estetica delle giuste relazioni nell’armonia originale”, su Cristo in quanto “sacramento della nuova armonia” e sulla Chiesa in quanto “sacramento di unità”. Infine, questa nuova spiritualità e armonia richiedono un impegno attivo per la pacificazione e la riconciliazione come singoli, come Chiesa e in collaborazione con gli altri.

Per i missionari, la spiritualità della riconciliazione e dell’armonia implica che, nell’attraversare le frontiere, essi siano consapevoli che questi confini in quanto segnali di limite possono essere stati posti per funzionare come barriere, soprattutto da coloro che hanno investito interessi economici e politici allo scopo di mantenerli e proteggerli. Qui il ruolo della profezia è indispensabile.

I missionari dovranno essere solidali con coloro che sono emarginati e discriminati da queste frontiere/limite e dovranno denunciare coraggiosamente le ingiustizie perpetrate nei loro riguardi. L’armonia, afferma la commissione teologica consultiva, «non è né un compromesso con le realtà conflittuale né una tranquillità passiva verso l’ordine esistente. L’armonia richiede un atteggiamento e un’azione trasformatrice per giungere ad attuare un cambiamento nella società contemporanea. Questo può essere ottenuto solo mediante una spiritualità profetica che esercita una critica caritatevole ma coraggiosa della situazione.

Un altro aspetto della missione a cui la spiritualità dell’armonia si dedica è quello del dialogo interreligioso e delle barriere religiose spesso manipolate per mettere un gruppo religioso contro l’altro. Le religioni, se viste come complementari tra loro, non dovrebbero costituire barriere che separano la gente ma vie diverse che guidano a Dio. Come ha sottolineato Michael Amaladoss, occorre un nuovo approccio alle religioni, in cui tutte siano viste come agenti e collaboratrici nel cammino verso il regno di Dio. «Nel promuovere il Regno, perciò, i nostri nemici, sono satana e mammona, non le altre religioni».

 

SPIRITUALITÀ

OLISTICA

 

L’ultima dimensione di una spiritualità che va oltre le frontiere, strettamente collegata con quella dell’armonia e della riconciliazione, è la spiritualità olistica. Centrale in questa spiritualità è un’antropologia olistica, già intravista sopra quando è stato detto che l’armonia abbraccia quattro dimensioni: l’io, gli altri esseri umani, il cosmo e Dio. Parlando di «un’antropologia più cosmica e olistica», María Carmelita de Freitas afferma che essa rende possibile «una vita religiosa più integrata e aperta, con orizzonti più ampi e più in armonia con ciò che è bello, semplice, umano, gioioso, allegro, con la natura e ogni cosa». Soltanto in questo modo, ritiene de Freitas, si possono contrastare i demoni della globalizzazione con il suo “credo neoliberale” di stabilità monetaria ed economica, la sua “etica dell’efficienza”, il suo “vangelo della competizione” e la sua “logica di esclusione”.

In base alle precedenti riflessioni sull’armonia è ovvio che la spiritualità olistica costituisce una preoccupazione centrale non solo delle varie tradizioni religiose dell’Asia, ma anche della FABC. La V assemblea plenaria del 1990 ha insistito nel dire che una spiritualità per il nuovo millennio deve «integrare ogni aspetto della vita cristiana: liturgia, preghiera, vita di comunità, solidarietà con tutti e in particolare con i poveri, evangelizzazione, catechesi, dialogo, impegno sociale, ecc. Non deve esserci dicotomia tra fede e vita o tra amore e azione…».

In una spiritualità olistica i confini cessano di essere delle barriere e diventano frontiere da cui il missionario si muove per incontrare le persone di ambe le parti e creare nuove realtà a partire dalle loro comuni eredità.

Fra i teologi latino ispanici, Virgilio P. Elizondo ha sviluppato il concetto di mestizaje (termine derivato da mestize, meticcio) vale a dire, una fusione di due o più razze, etnie, culture e religioni in una “nuova razza”, come erano chiamati i primi cristiani. In questa nuova razza, come sottolinea Elizondo, «i confini non scompaiono, le differenze non vengono meno, ma non sono più una ragione per dividere e separare i popoli… Anziché considerarli come l’ultima linea di divisione tra voi e me, tra noi e loro, possiamo vedere i confini come i luoghi privilegiati di incontro in cui persone e popoli diversi si uniscono insieme per formare un’umanità nuova e inclusiva».

La spiritualità missionaria che attraversa i confini descritta in termini di presenza, kenosis, armonia e integrazione olistica è bene espressa da Anthony Bellagamba nella descrizione che egli fa dell’identità dei missionari come “persone del presente” e “persone dell’oltre”. In quanto “persone del presente”, essi devono vivere a contatto con le realtà della gente che cercano di evangelizzare: «Le lotte della gente, le loro speranze e i loro problemi, la loro visione di vita, la loro esperienza della morte, le loro teorie cosmologiche, i loro metodi di essere comunità, il loro modo di comprendere l’autorità, il loro esercizio dell’autorità, i loro impulsi sessuali e tutto il loro sistema di valori sono, o dovrebbero essere, di grande interesse a coloro che attraversano i confini». In quanto “persone dell’oltre”, devono andare al di là delle loro culture, storie, valori, lingue madri, simboli nativi, persino delle loro religioni, non nel senso di rigettarle, ma di “svuotarsi” per essere ospiti e stranieri tra la gente che evangelizzano, e ricevere e adottare per quanto possibile le culture e i modi di vita di coloro che li ospitano.

 

GESÙ COLUI CHE

ATTRAVERSA I CONFINI

 

Una spiritualità che attraversa i confini, necessaria ai missionari in una cultura con i multipli porosi confini creati dalla globalizzazione, dalla postmodernità e dal pluralismo religioso, non è una semplice strategia per un’evangelizzazione di successo, ma un imperativo teologico della vita cristiana come imitazione di Cristo. L’evangelizzazione cristiana in qualsiasi periodo della storia e in qualsiasi cultura degna di questo nome deve modellarsi sul modo con cui Gesù ha proclamato il regno di Dio alla gente del suo tempo. Ci sono evidentemente modi diversi di rappresentare la vita e il ministero di Gesù. Per esempio, è possibile spiegare il significato di Gesù mediante i vari titoli che il Nuovo Testamento e la tradizione cristiana gli hanno attribuito. Inutile dire che nessun titolo è in grado di esaurire il significato delle parole e delle azioni di Gesù e del suo metodo variegato di esercitare il ministero. Per il nostro scopo sarebbe utile considerare la vita e il ministero di Gesù in termini di attraversamento dei confini. La spiritualità missionaria qui proposta è vista come una spiritualità radicata nel mistero di Cristo, come colui che attraversa i confini. Mi limiterò a considerare l’incarnazione, alcuni aspetti del ministero di Gesù e la sua morte e risurrezione.

Il mistero del Verbo di Dio fatto uomo può certamente essere visto come un atto di attraversamento dei confini. Sostanzialmente, rappresenta il culmine di quell’attraversamento primordiale con cui il Dio trino e uno esce da se stesso e dall’eternità ed entra nell’altro, vale a dire, nel mondo dello spazio e del tempo, che Dio chiama all’esistenza con questo stesso atto di attraversamento. Nell’incarnazione il confine attraversato non è soltanto quello che separa l’eterno e il temporale, l’invisibile e il visibile, lo spirito e la materia, ma più in particolare il divino e l’umano, con la realtà di anima e corpo di quest’ultimo.

In questo atto divino di scendere verso l’umano, il confine tra la natura divina e quella umana di Gesù funziona come segnale costitutivo della distinzione dell’identità di ciascuno. Una realtà non è tramutata nell’altra. E nemmeno confusa; piuttosto le due nature sono riconosciute “senza confusione e cambiamento”. Come insegna il concilio di Calcedonia: «la distinzione tra le nature non è mai stata abolita dalla loro unione, ma piuttosto il carattere proprio di ciascuna è stato conservato nell’atto di unirsi in una sola persona (prosopon) e in una ipostasi».

D’altra parte, il confine stesso non è più una barriera che impedisce a Dio e all’umano di unirsi insieme. Infatti, attraversando il confine divino-umano, il Logos trasforma la barriera in una frontiera e crea una nuova realtà, Gesù di Nazaret, la cui umanità il Logos assume e rende propria, così che, come insegna il concilio di Calcedonia, le due nature – divina e umana – sono unite tra di loro “senza divisione, senza separazione”. In questa umanità, il Logos ora esiste in un modo nuovo, non accessibile prima dell’incarnazione e il suo modo storico di esistenza, nel tempo e nello spazio, e soprattutto, come vedremo, nella sofferenza e nella morte, ora appartiene alla stessa vita eterna e trinitaria di Dio.

Perciò nell’incarnazione intesa come attraversamento dei confini, i limiti sono mantenuti come segnali di identità ma nello stesso tempo sono superati in quanto barriere e trasformati in frontiere da cui emerge una realtà completamente nuova, un mestizaje: il divino e l’umano riconciliati e armonizzati tra loro in una sola realtà. Come Gesù, i missionari sono costantemente spinti ad attraversare ogni genere di barriera, e dal meglio di ciò che divide e separa ogni gruppo, creare una nuova famiglia umana caratterizzata dall’armonia e dalla riconciliazione.

 

Gesù ha esercitato il suo ministero di annuncio e diffusione del regno di Dio sempre nei luoghi dove i confini si incontrano e da qui ai margini dei due mondi separati dai loro confini. Egli è stato un “giudeo marginale” per usare il titolo di un’opera in più volumi di John Meier sul Gesù storico. Ha attraversato questi confini avanti e indietro ripetutamente e liberamente, fossero questi geografici, razziali, sessuali, sociali, economici, politici, culturali e religiosi. Ciò che è nuovo nel suo messaggio circa il regno di Dio, buona notizia per alcuni e scandalo per altri, è che egli rimuove tutti i confini, sia naturali che artificiali, in quanto barriere ed è assolutamente aperto a tutti. Giudei e non giudei, uomini e donne, vecchi e giovani, ricchi e poveri, potenti e deboli, sani e malati, puri e impuri, giusti e peccatori e qualsiasi altra immaginabile categoria di persone e di gruppi. Gesù ha invitato tutti a entrare nella casa del Padre suo compassionevole e misericordioso. Anche nella sua “opzione preferenziale per i poveri” egli non ha abbandonato o escluso i ricchi e i potenti. Questi sono chiamati alla conversione, a vivere una vita giusta e aperta a tutti.

Stando tra due mondi, senza escludere nessuno anzi abbracciandoli, Gesù ha potuto accogliere pienamente tutti e due. Ma questo significa che egli è la persona marginale per eccellenza. Coloro che stanno al centro di una società o gruppo normalmente possiedono ricchezze, potere e influenza. Come dimostra la triplice tentazione, Gesù, colui che attraversa i confini e abita ai margini, ha rinunciato esattamente a queste tre cose. Siccome era ai margini, nell’insegnare e nell’operare miracoli, egli crea un centro nuovo e diverso, quello costituito dall’incontro dei confini di molti e diversi mondi, spesso in conflitto tra loro e con un proprio centro che relega l’ “altro” ai margini. È a questo centro-margine che le persone marginali s’incontrano tra loro. In Gesù, il margine in cui è vissuto è diventato il centro di una nuova società senza confini e barriere, che riconcilia tutti i popoli “giudei e greci, schiavi o liberi, uomo o donna” (Gal 3,28). I missionari, stranieri e ospiti come sono, devono diventare marginali, abitare ai margini delle società con la gente emarginata, come Gesù, così da creare con essa nuovi centri universali di riconciliazione e di armonia.

La morte violenta di Gesù sulla croce fu il risultato diretto dell’aver egli attraversato i confini e del suo ministero ai margini, cosa che costituiva una seria minaccia agli interessi di coloro che occupavano i centri economici, politici e religiosi. Anche la modalità della sua morte, la crocifissione, indica che Gesù era un reietto, ed egli morì come scrive la lettera agli ebrei «fuori della porta della città».

Tuttavia, simbolicamente sospeso tra cielo e terra, ai margini di ambedue i mondi, Gesù agì come mediatore e intercessore tra Dio e l’umanità. Ma anche nella morte Gesù non rimase prigioniero entro i confini di ciò che significa la morte: fallimento, sconfitta, distruzione. Con la sua risurrezione attraversò i confini della morte verso una nuova vita, portando così speranza dove c’era disperazione, vittoria dove c’era sconfitta, libertà dove c’era schiavitù, e vita dove c’era morte. In questo modo, i confini della morte divennero frontiere di vita in abbondanza.

Come Gesù i missionari devono vivere le dinamiche di morte e risurrezione, o per usare le parole della lettera ai Filippesi 2,6-11, di annientamento di sé e di esaltazione.

Il modo molto bello con cui Samuel Escobar ha reso l’inno cristologico che raffigura Gesù come colui che per eccellenza va oltre i confini riassume bene la spiritualità missionaria chiamata ad attraversare i confini.

 

«Abitino in noi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù il quale per raggiungerci attraversò i confini tra cielo e terra. Egli oltrepassò i confini della povertà nascendo in una stalla e visse senza sapere dove posare il capo la notte. Attraversò i confini dell’emarginazione per farsi amico delle donne e abbracciare i pubblicani e samaritani. Attraversò il confine del potere spirituale per liberare gli afflitti da legioni di demoni. Attraversò il confine della protesta sociale per cantare verità ai farisei, agli scribi e trafficanti del tempio. Attraversò il confine della croce e della morte per aiutarci a passare all’altra riva. È il Signore risorto che ci aspetta là, a ogni confine che dobbiamo attraversare con il vangelo».

 

1 Il SEDOS è un forum di istituti di vita consacrata che desiderano approfondire insieme la comprensione della missione globale nella Chiesa. I risultati delle loro assemblee e dei loro seminari vengono pubblicati sull’omonimo bollettino.

2 Crossing the Borders. A Spirituality for Mission in Our Times from an asian Perpective, SEDOS, gennaio/febbraio 2003, 8-19.

3 Termine che significa un tutt’uno organico e integrato.