MONASTERI IN SITUAZIONE PRECARIA

A VOLTE BISOGNA CHIUDERE

 

Non sono soltanto le persone a invecchiare e a morire, ma anche le comunità. Nessuna comunità ha la garanzia della perpetuità in questo mondo. Ciò che ci è assicurato è soltanto la vita eterna. Tutto ciò_è così vero e semplice, eppure ordinariamente_lo dimentichiamo.

 

Ci sono delle comunità monastiche con un numero molto ridotto di membri che ormai si trovano in una condizione di grande precarietà. Di fronte a una situazione del genere, che col passare degli anni potrebbe diventare sempre più frequente, bisogna chiedersi se non è il caso di chiuderle. All’interno dei Cistercensi di stretta osservanza l’interrogativo circola da tempo. Se lo sono posti i capitoli generali degli ultimi anni di fronte all’invecchiamento delle comunità e la mancanza di vocazioni e di perseveranza. Lo stesso è avvenuto anche in seno a diverse conferenze regionali come in Canada, Paesi Bassi, Irlanda, Francia del sud ovest, nel nord e centro Europa.

 

COMUNITÀ

PRECARIE O RIDOTTE

 

A ritornare sull’argomento è stato ora l’abate generale dell’ocso, dom Bernardo Olivera, nell’ultimo capitolo generale dello scorso mese di settembre 2002, con un intervento in cui ha definito il problema «di un’importanza particolare», oltretutto in un momento in cui l’ordine si preparava a decidere la soppressione di due monasteri: quelli di Notre-Dame des Dombes e di Notre-Dame de l’Immaculée Conception a Tegelen.

In questi ultimi anni all’interno dell’ordine più volte si è parlato di comunità precarie o ridotte. Che cosa s’intende con questi termini? Dom Olivera, data la diversità delle lingue presenti nella famiglia cistercense, ognuna delle quali con un suo proprio genio, prima di entrare in merito alla questione ha voluto chiarirne il significato trovando l’equivalente in espressioni quali fragili, instabili, dal futuro incerto ecc. Ma, a parte le parole impiegate, ciò che rimane è la realtà che c’è dietro, ossia lo stato di precarietà di queste comunità.

Il riferimento non è tanto alle comunità del mondo sottosviluppato o in via di sviluppo e nemmeno a quelle del mondo pre-tecnologico o che stanno per accedere alle tecnologie. In questo caso le difficoltà sono di altro genere: problemi di discernimento vocazionale dovuti all’afflusso eccessivo di candidati, debole perseveranza, crisi economiche, carenze di formazione, scarsità di modelli monastici, trapasso generazionale.

Il problema riguarda piuttosto il mondo sviluppato e tecnologico dove le difficoltà sono: età media dei membri elevata, mancanza di vocazioni, deficit di perseveranza, mancanza di quadri, ecc.

Una seconda necessaria chiarifica  riguarda la legislazione attuale circa la soppressione delle comunità. Occorre rilevare, sottolinea dom Olivera, che al momento di legiferare nel 1987, si aveva poca esperienza in materia. Ciò significa che il testo costituzionale può essere aggiornato alla luce del presente che già viviamo e dell’avvenire quale possiamo prevedere.

Questa legislazione non tiene conto delle diverse tipologie delle comunità che potrebbero essere soppresse e lascia quindi aperti vari interrogativi. Per citarne qualcuno: chi intraprende il discernimento circa la convenienza di chiudere un monastero? Il diritto di stabilità dei membri di una comunità soppressa è rinviato alla casa-madre o alla casa fondatrice? È eccessivo chiedere una maggioranza di due terzi del capitolo conventuale della comunità in vista della soppressione? Qual è l’autorità del capitolo generale e quale il rapporto col padre immediato e l’abbadessa fondatrice nel caso di un monastero di monache?

Si potrebbero aggiungere altri interrogativi, per esempio: occorrerà aggiungere delle precisazioni al testo delle costituzioni oppure bisognerà preparare uno statuto più ampio con delle norme concrete e degli orientamenti pastorali?

 

TRE PRINCIPI

DI SAPIENZA

 

Ritornando sul problema di fondo, quello delle comunità precarie, dom Olivera prima di descrivere i tratti caratteristici di queste comunità, ha esortato a tenere presenti tre principi di sapienza o di senso comune:

– ogni diagnosi rattrista il malato e rischia di trasformarlo in nemico, non solo del medico, ma anche della salute stessa. Ciò sta a indicare quanto sia necessario il medico;

– il fatto che è più facile identificare la malattia che trovare il rimedio adeguato non squalifica la diagnosi;

– tutti dobbiamo morire: noi siamo convinti di questa affermazione, ma quando giunge il momento, la neghiamo: “Io? no!”; ci sentiamo offesi: “perché io?” e diciamo: “va bene, ma è meglio aspettare”. Alla fine ci rassegniamo: “Ora è inevitabile” e accettiamo: “nelle tue mani consegno il mio spirito!”.

 

Per riconoscere se una comunità vive in una condizione di pecarietà, dom Olivera propone le seguenti quattordici caratteristiche: l’ultima professione ha avuto luogo oltre 12 anni fa; età media della comunità superiore ai 70 anni; un numero di membri inferiore a 12; più di cinque membri hanno bisogno di cure sanitarie speciali; lo spirito della comunità: più rassegnato che fiducioso; progetti per l’avvenire: inesistenti; l’unità: coesistenza tollerante; quadri: responsabili con due o tre incarichi; formazione: mancanza di mezzi e di personale; opus Dei: partecipazione ridotta e povera di qualità; conversatio: volontaristica o alleggerita da dispense; servizi e lavoro lucrativo: dipendenza dai secolari; economia: dipendente dalle pensioni; edifici: sproporzionati.

Siamo d’accordo, rileva dom Olivera, che prima di giungere al dissolvimento o alla soppressione di un monastero è necessario percorrere un lungo cammino. Ci si può allora chiedere: che cosa fare quando una comunità presenta la maggior parte o un buon numero delle caratteristiche appena descritte?

Ma prima di considerare ciò che si potrebbe fare, è opportuno interrogarsi sulle disposizioni che possono servire di base ai possibili interventi.

Anzitutto, osserva dom Olivera, non dimentichiamo mai che ciò che è naturale e normale sul piano individuale lo è anche su quello comunitario. Non sono soltanto le persone a invecchiare e a morire, ma anche le comunità. Nessuna comunità, e lo stesso ordine, hanno la garanzia della perpetuità in questo mondo. Ciò che ci è assicurato è soltanto la vita eterna, se siamo fedeli a Gesù e alla nostra vocazione monastica cistercense. Nessuno può garantire che la mia comunità esisterà il giorno della parusia. Tutto ciò è così vero e semplice, eppure ordinariamente lo dimentichiamo. In fin dei conti, l’ars moriendi cenobitica è tanto importante quanto l’ars vivendi.

Il realismo di fronte alla vita e davanti alla morte deve andare di pari passo con un’esperienza evangelica profonda e radicale: nessun uccellino cade in terra senza che il Padre celeste lo sappia. Per questa ragione lasciamo da parte ogni nostalgia del passato, ogni lamentala riguardo al presente, pensiamo a costruire il futuro con creatività, ingegnosità e prendendone i rischi. Il fatto di essere fragili e bisognosi non ci impedisce di essere generosi e magnanimi. La precarietà non è un peccato; sarebbe peccato fare affidamento unicamente sulle proprie forze, vere e presunte. Lavoriamo sapendo che tutto dipende dal Signore che opera in noi.

Un’ulteriore considerazione: la situazione di una comunità deve sempre essere considerata nel contesto di tutto l’ordine. Tutti e ciascuno siamo membri di un corpo unico. Perciò soffriamo tutti con coloro che soffrono e ci rallegriamo con coloro che gioiscono. La vita nascente di alcune comunità si fonda sulla vita che si indebolisce e muore in altre comunità e da essa deriva. La pasqua di Cristo è anche la pasqua della Chiesa, dell’ordine e di ciascuno di noi, per la gloria del Padre e la salvezza dell’umanità.

 

ALCUNE

LINEE DI AZIONE

 

Ma come procedere? Dom Olivera propone alcune linee di azione cominciando con le comunità locali. Vi sono anzitutto nel monastero dei luoghi (sala capitolare, refettorio e la stessa chiesa), in cui è necessario un ridimensionamento. Ciò vale anche per i luoghi di lavoro e per la stessa economia. Un principio da tenere presente è che «le persone con devono mai essere sacrificate alle strutture; penso soprattutto alle persone che portano il peso dei lavori e delle decisioni comunitarie».

È molto probabile che si debba ricorrere al personale laico per i vari generi di servizio: portineria, cucina, foresteria, infermeria… così come per la gestione economica e la mano d’opera dei lavori lucrativi. Vi sono dei casi in cui si può pensare di farsi aiutare da qualche religioso/a di un altro istituto di vita consacrata. Comunque bisognerebbe fare molta attenzione alla qualità dell’atmosfera monastica.

È evidente che il “ridimensionamento” dei luoghi e l’aiuto ricevuto dall’esterno devono andare di pari passo con un adeguamento della conversatio monastica alle forze e possibilità comunitarie. Questo adeguamento deve cominciare dall’orario monastico in modo da rendere possibile la partecipazione della maggioranza alla vita comunitaria. Si tratta quindi di dar prova di giudizio e di prudenza per garantire che l’“osservanza” sia al servizio del monaco e della monaca e non l’inverso. L’osservanza in quanto mediazione e concretizzazione della ricerca e dell’incontro con il Signore non deve diventare un fine e un assoluto che impedisce la vita. Questa situazione, evidentemente, suppone che sia stata accettata in precedenza l’impossibilità di formare nuove vocazioni alla vita monastica.

In alcuni casi estremi, bisognerà pensare a soluzioni già sperimentate come l’apertura di un’altra casa (in collaborazione con altri istituti di vita consacrata) in cui un gruppo di anziani/e possa vivere una conversatio monastica in maniera appropriata alla loro età. Ciò permetterà alla comunità più giovane che rimane nel monastero di condurre una vita monastica conforme alle costituzioni dell’ordine. Oppure bisognerà pensare alla possibilità di un trasferimento in un monastero più piccolo e adeguato.

Nel caso di una comunità precaria o ridotta, responsabile di una filiazione, bisognerà pensare seriamente di prendersi cura di quest’ultima. Se la casa madre precaria non può assumersene la responsabilità, bisognerà cercare delle soluzioni temporanee o definitive.

Un aiuto prezioso nelle situazioni come quelle descritte potrà essere dato dai “padri immediati” e dai visitatori. Questi dovranno evitare due estremi: un ottimismo irreale di qualsiasi genere e ogni traccia di disperazione diabolica. In molti casi la «distanza oggettiva» consentirà loro di vedere e valutare la situazione e i bisogni comunitari con maggior realismo. Dovranno avere un grandissimo rispetto per i membri della comunità e per la testimonianza monastica nel contesto della chiesa locale. Più concretamente, i “padri immediati” devono vagliare e discernere il caso in cui la mancanza di personale adeguato rende impossibile la formazione di nuovi membri. I monasteri della medesima filiazione devono essere i primi ad aiutare le altre case sorelle nei loro molteplici bisogni.

Spesso capita che un problema locale superi le possibilità del padre immediato e delle comunità sorelle, allora bisognerà ricorrere all’aiuto della regione e dell’ordine.

In alcuni casi, prosegue dom Olivera, bisognerà seriamente considerare la possibilità di fondere due comunità che, malgrado la loro precarietà, si troverebbero arricchite. Può trattarsi di due piccole comunità o di una comunità piccola e una più grande. Tuttavia, la fusione delle due comunità ha come conseguenza anche che una perde la sua autonomia, ma quale delle due? La risposta è a volte evidente altre volte invece po’ meno.

 

Come già detto, la soppressione di un monastero spetta esclusivamente al capitolo generale. Non bisogna dimenticare che, in questo caso, sarà necessario aiutare la comunità a fare il lutto per la sua scomparsa. Ed essere consapevoli che è tutto l’ordine che, in certo modo, soffre una morte, come anche la chiesa locale.

Si potrà anche prevedere la creazione di una commissione o di alcune commissioni speciali, a livello dell’ordine o delle regioni oppure delle comunità particolari allo scopo di studiare il caso delle comunità che vivono una situazione limite e venire loro in aiuto.

Comunque sia, conclude dom Olivera, «la situazione attuale di alcune comunità dell’ordine deve essere vista come un’opportunità e non come una calamità. Non siamo al termine di un cammino ma all’inizio di un altro. Sappiamo bene che quando avremo esaurite le nostre forze e le nostre possibilità, Dio può cominciare ad agire con una gratuità totale. L’avvenire e il carisma cistercense, in vita e in morte, non è nelle mani dei più grandi e dei più forti ma nel cuore dei più piccoli e dei più deboli».