FORMAZIONE TEOLOGICA E VITA

LO STUDIO PER LA TESTIMONIANZA

 

È convinzione acquisita che lo studio della teologia si differenzia da qualsiasi altra disciplina. Infatti la teologia coinvolge la vita. L’assunto è tanto ovvio che suona come uno stereotipo, ma ciononostante merita attenzione.

 

Ai diversi ambiti della formazione Testimoni ha dedicato numerosi articoli. Ci è sembrato significativo aggiungere ad essi un contributo relativo alla formazione teologica offrendo i contenuti di un articolo di p. Mario Bizzotto mi.1

«Teologia è scienza di Dio, che ha parlato e agito manifestandosi nei profeti e in particolare nella persona di Cristo. Si sa che è equivoco parlare d’una scienza di Dio. Di lui il comandamento non dice di conoscerlo ma di amarlo. Non lo si può conoscere come si conosce un qualsiasi oggetto. Egli è ineffabile, abita in una luce inaccessibile, però lo si può amare, non dimenticando che l’amore non è cieco, è anzi una forma di conoscenza» che, anziché bloccare il processo conoscitivo, lo stimola e acuisce. Lo studio teologico fa leva sulla conoscenza, che si traduce poi in testimonianza e in annuncio. Questi tre caratteri: conoscere, testimoniare e annunciare consentono di identificare alcuni punti nevralgici della formazione teologica.

 

IL MOMENTO

CONOSCITIVO

 

In quanto scienza – afferma p. Bizzotto – la teologia è soprattutto riflessione. Essa verbalizza, traduce, rielabora il dato rivelato, legge i segni dei tempi e li interpreta alla luce della Scrittura. È suo compito imprescindibile continuare l’evento dell’incarnazione. La parola rivelata s’innesta nella cultura. È tanto più efficace quanto più entra nell’anima d’un popolo. Non basta la buona volontà o la spinta generosa del cuore: è altrettanto importante assimilare e riportare sul piano della coscienza il vissuto d’una tradizione. Le lettere, le arti e la giurisprudenza interpretano la sensibilità d’un ambiente. Ogni popolo ha alle sue spalle una tradizione di enormi contenuti che hanno impresso il loro spirito, foggiato i costumi, i modi di pensare e valutare.

La teologia è fedele a se stessa quando trasmette il messaggio biblico assimilando la sensibilità culturale. Si rende allora capace di interpretare i valori d’una cultura e riproporli nella visione della fede. Sarebbe sterile nel caso si ripiegasse su se stessa, preoccupata di salvaguardare la propria integrità e incurante di aprirsi all’esterno. La preoccupazione di custodire il patrimonio rivelato nella sua purezza e ortodossia è di per sé legittima, ma se la teologia non si incarna nelle istanze del tempo per evangelizzarle viene meno al suo compito.

In questo senso «lo studio teologico che si limita all’analisi filologica, all’interpretazione scientifica, cronologica o sociologica dei testi biblici o dei documenti conciliari  – sostiene p. Bizzotto  – si espone al pericolo di essere fine a se stesso. Chi riduce lo studio teologico a un mero dato e non ne fa un ponte che unisce l’universo divino all’umano, non travasa il messaggio nel cuore d’una cultura col pretesto di non tradirne i contenuti, è un po’ come un docetista: tiene separato Dio e uomo, mette uno sbarramento al passo di Dio che scende sulla terra, negando il punto nevralgico dell’incarnazione».

La teologia ha bisogno d’un materiale pagano da rivivificare, è rivolta al mondo come il lievito alla pasta, o come la semente alla zolla. Il coraggio di tentare nuove vie espone certo a rischi (eccessi, esuberanze, equivoci, interpretazioni unilaterali) che compromettono l’ortodossia. Ma d’altra parte un messaggio, per natura sua destinato alla vita, se lasciato a stagnare nell’immobilità di definizioni dottrinali per non metterne in pericolo la purezza, perde il suo senso, diventa astratto e accademico. Nei suoi confronti si perpetra allora un vero tradimento, lo si riduce a materiale da museo e se ne mortifica l’aspirazione più autentica.

La rivelazione è storia, presenta la vita con la sua forza dinamica. Essa conserva la sua identità se viene rispettata come vita. Il tradurla in dottrina è un sussidio sensato solo se aiuta a situarsi meglio nell’essere e nell’esistenza. La riflessione porta a un arricchimento di coscienza, che a sua volta induce a un cambiamento di vita.

 

DALLA CONOSCENZA

ALLA TESTIMONIANZA

 

La teologia non si dà per appagata assolvendo un compito conoscitivo – continua p. Bizzotto –, ma se ne serve per agganciare la vita in modo più profondo. «Il teologo è chiamato a essere anche un testimone. Cerca di capire gli annunci e le figure della fede che compaiono nella storia sacra e nel contempo ne fa oggetto di esperienza sua propria. Non è soltanto la sua intelligenza che viene interpellata ma la sua stessa prassi di vita. Le conoscenze acquisite su Dio non rimangono relegate in un mondo a parte lasciando indisturbato quanto capita o intraprende nel corso della giornata».

Formazione teologica è formazione culturale, che investe l’educazione dell’anima, la sensibilizzazione ai valori, le scelte che si compiono e l’intero agire. «Per questo non si dà lo studente di teologia come si dà lo studente di mitologia o di fisica e ugualmente non è concepibile la figura del professore di teologia messa sullo stesso piano del professore di matematica. Chi si dedica alla teologia si dedica per ciò stesso alla vita. Non è soltanto uno che si interessa con curiosità alla materia che studia, è soprattutto uno che testimonia».

Il kerigma entra nel cervello per poi scendere al cuore e dal cuore passare alle mani. Quando si parla di inculturare la parola di Dio, si allude certo a un processo acquisibile attraverso lo studio e la conoscenza. Entrano in questione gli ideali e la sensibilità morale o estetica d’un gruppo etnico con tutto il suo patrimonio spirituale accumulato lungo i secoli. Ma soprattutto entra in questione la personalizzazione del messaggio. Si può tentare di distinguere la figura del teologo santo, la cui condotta è in piena coerenza con quanto professa, dal teologo professore, dotato di grande capacità espressive. L’uno con il suo esempio trascina, l’altro con la sua facondia insegna.

È importante chi vive l’esperienza della fede in modo profetico e immediato e lo è altrettanto chi la sa verbalizzare e giustificare davanti al tribunale della ragione. C’è chi ha la fede e cerca il sostegno dell’intelletto, come c’è chi parte dall’impiego della ragione e cerca la fede. Così è stato per Agostino e per Anselmo d’Aosta, due esempi che hanno abbinato santità e intelligenza, osservando e insegnando. La loro vita testimoniava quanto andavano insegnando. Hanno creduto impegnando ragione e cuore, riflessione e azione. Il loro studio si trasformava in preghiera. Per essi teologia significava indagare e sperimentare.

Il pensiero di Dio non resta mai teoria vuota, si riversa in operosità che trasforma e nobilita. Il mondo, gli esseri, il prossimo assumono un nuovo significato una volta che vengano considerati a partire da Dio. La prima trasformazione è lo stesso soggetto credente che la constata in sé. Dio infatti non è una nozione dottrinale, è un tu che parla nell’intimo della coscienza. Rapportarsi con lui è avviarsi alla ricerca del suo volto.

San Bonaventura concepisce la riflessione teologica come un itinerario della mente a Dio, dove per itinerario s’intende un’ascesa del cuore. Dice desiderio, aspirazione, nostalgia, volere, unione mistica, contemplazione carica di emotività, ammirazione, riposo, pace. Nella sua concezione «la reductio omnium ad theologiam - annota p. Bizzotto – libera tutte le risorse umane: sensi, pensieri, immagini, sentimenti. Diventa esperienza intensamente vitale. Non si smarrisce in definizioni, assiomi, ipotesi e corollari. Ha infatti a che fare con un tu concreto e vivente, di fronte al quale si prova timor et tremor, fiducia e amore, confidenza e gioia».

Dio è il tu presente che si invoca e adora. Proprio perché presente non si parla di lui, semmai si parla con lui. Egli è il vivente per eccellenza e a lui ci si avvicina non indagandolo ma vivendogli accanto. Non si traduce in una grammatica, non si lascia comprimere entro gli schemi d’un trattato. Egli è vita e il posto in cui si situa è la vita del credente. Tra riflessione teologica e vita ci sarà sempre uno scarto, che non concede tregua alla ricerca di Dio.

Il teologo è chiamato a fare della sua riflessione un programma di vita. È un pensatore che adempie la sua vocazione una volta che si muta in un testimone. Indaga e quanto viene a conoscere si riversa in esperienza. La vita non resta fuori come se da una parte ci fosse il mondo della teoria e dall’altra quello della prassi.

 

ALLA TESTIMONIANZA

SEGUE L’ANNUNCIO

 

Dalla formazione teologica scaturisce il compito dell’annuncio. Chi conosce e pratica gli insegnamenti della Bibbia sa trovare anche il linguaggio adeguato per rivolgersi al pubblico. La vita della fede sa essere creativa, non si ripete mai, finché si lascia guidare dallo slancio dello Spirito. La predicazione preoccupata di salvaguardare il patrimonio dogmatico e incurante di adeguarsi agli auditores verbi, finisce per essere nozionistica, ripetendo l’errore del docetismo. Presenta la dottrina ma trascura l’esistenza.

Il pastore protestante H. Thielicke racconta l’avventura di molti suoi colleghi finiti nei campi di concentramento nazisti, che portavano il ricordo degli stenti e delle umiliazioni patite. Sopravvissuti alla prigionia, ripresero la loro attività ministeriale, e si presentarono ai loro fedeli per l’annuncio del vangelo. Cosa stupefacente, lo stile della loro predicazione ricalcava i soliti luoghi comuni d’un tempo. Il campo di sterminio attraverso il quale erano passati non aveva insegnato loro niente. Hanno continuato a predicare il Vangelo così come l’avevano imparato a scuola, disimpegnandosi egregiamente in questioni dogmatiche o filologiche, ma senza aggancio alla vita.

A questo esempio p. Bizzotto fa seguire alcune considerazioni. Anzitutto la difficoltà di coniugare la parola di Dio con la propria esperienza esistenziale: l’una resta staccata dall’altra come due mondi estranei tra loro che rischiano di non incontrarsi mai. Non per un difetto della parola rivelata ma per l’inadeguatezza di chi la proclama. L’annuncio non è facile e chi ne è consapevole non può non avvertire il disagio che esso comporta.

Il punto debole messo a fuoco da Thielicke – rileva p. Bizzotto – non è nella carenza delle doti naturali, quanto nella mancata elaborazione del dato di fede, come quando si incorre in una dura prova e la si affronta senza chiamare in campo Dio, o ci si impegna in una seria condotta di vita e non ci si lascia guidare dallo spirito del Vangelo. Tutto questo è una premessa che porta il messaggio al fallimento.

Perché esso sia efficace va preceduto dalla testimonianza. Ci sono preti poco inclini all’arte oratoria, stentati nella dizione, eppure si fanno ascoltare perché il loro stile di vita, austero e sensibile ai bisogni altrui, è noto ai fedeli. La povertà dell’annuncio è colmata dai gesti della testimonianza. Lacordaire, l’oratore francese noto in tutta l’Europa dell’ottocento, ha ascoltato un giorno l’omelia del curato d’Ars ed è rimasto fortemente colpito. Ha avvertito come le parole scarne e semplici di Giovanni Vianney erano vere. Trasmettevano un’esperienza evangelica. Non erano parole d’un oratore che fa ricorso allo splendore dello stile e all’eleganza espressiva. Non avevano bisogno di questi supporti dal momento che erano fedeli alla vita e aderenti alla realtà.

Se il curato d’Ars era così suasivo nell’annuncio del Vangelo, è perché parlava il linguaggio della sua gente, con la quale condivideva le sofferenze e la sete di conforto. Agli occhi di tutti figurava come un portavoce autorevole. La virtù precedeva la parola e ne preparava la riuscita. Tra un prete chiamato alla proclamazione del Vangelo e il suo popolo ci deve essere un rapporto di stima e simpatia, perché la sua parola venga accolta.

Ci può essere il caso di chi sa parlare e con il suo eloquio incanta, ma senza essere suasivo. Riscuote l’ammirazione ma non promuove la fede. È il caso di ricordare il lamento di Cristo rivolto ai farisei il cui linguaggio è fatto solo con le labbra e lascia fuori il cuore. La parola di Dio riconosce come sua sede il cuore, se non arriva ad esso, fallisce il suo obiettivo. Se non riesce a conquistare il centro, non riesce ad assestarsi neppure alla periferia. Per toccare il cuore deve partire dal cuore.

L’insufficienza del cuore è un segno chiaro dell’insufficienza della fede. È l’ostacolo più duro contro cui urta chi è chiamato ad annunciare verità provocatorie. Ci si può trovare davanti alla bara d’un bambino e dover annunciare la vita e la risurrezione. Ci sono molti luoghi comuni messi a disposizione del celebrante. Essi però danno cattivi consigli, suggeriscono frasi a buon mercato.

Di fronte a un difficile caso di morte si è chiamati a parlare di risurrezione. Non è una cosa ovvia. Si è costretti a un salto mortale. La liturgia investe il celebrante d’un ruolo di cui non sempre si sente all’altezza. Gli fa dire più di quanto egli, pur con le sue convinzioni religiose, si senta in grado di dire. Lo mette nell’imbarazzo di poter peccare di insincerità. Tuttavia la colpa del disagio non va messa in conto a delle probabili formulazioni enfatizzate proposte dal rituale, quanto piuttosto ad una fede inadeguata, non sufficientemente profonda. Forse è bene non nascondere dietro la maschera di false sicurezze il proprio sconcerto e travaglio.

Fortunatamente ci sono preti che sono arrivati a una fede matura che li mette a loro agio anche nelle situazioni più delicate. Hanno fatto così proprie le formulazioni della fede da proferirle con grande disinvoltura, senza attraversare il penoso tormento di chi vive la fede come una lotta. La loro semplicità crea atmosfera e convince. Si fanno sentire autentici.

Ma capita anche il caso del prete funzionario, automa e ripetitivo, disinvolto nella recita della sua parte, e magari compiaciuto del suo ruolo. Non importa se ha davanti la bara d’una giovane madre o se celebra le nozze di novelli sposi. È pronto a ogni evenienza, si sente capace di gestire adeguatamente la situazione. Della sua buona intenzione non c’è motivo di dubitare, eppure lascia intorno a sé un clima greve, che fa pensare a qualcosa che assomiglia a un atteggiamento ipocrita.

Molte difficoltà dell’annuncio sono legate anche al linguaggio. È compito del messaggero farsi capire, trovando formulazioni adeguate. Tutto questo fa parte del processo dell’incarnazione. Chi ascolta ha il diritto di poter capire. «Mi rendo conto di quanto sia penoso ascoltare nell’annuncio la comparsa di termini la cui provenienza rimanda alla scuola o al libro più che all’esperienza. Si dà allora il caso che il vuoto esistenziale sia colmato con l’artificio di pensieri già confezionati, veicoli di erudizione, tecnicamente precisi ma esistenzialmente anemici. Le verità annunciate restano ferme nella fredda formulazione dottrinale, fanno respirare il clima accademico con il suo eccessivo peso di astrazioni e in conclusione diventano pillole indigeribili».

Chi fa della fede un punto di riferimento quotidiano sa prendere le distanze dallo stile scolastico e sa renderla viva, scoprendola là dove essa rivendica il suo giusto posto. Non gli basta comunicare il messaggio: senza volerlo esprime anche il suo incontro con il messaggio.

E.B.

1 Bizzotto M., Formazione teologica e vita, in Vita nostra, 1/2003, 47-54.