UN RIPENSAMENTO NECESSARIO

LA COMUNITÀ COME SOGGETTO

 

È tempo di ripensare la comunità. Al di là delle usuali definizioni di “vita fraterna”, “comunione”, ecc., senz’altro validissime, va considerata la presenza apostolica concreta sul territorio come “presenza rivelatrice del carisma” dell’istituto_in una Chiesa particolare.

 

La vita consacrata sta cercando – faticosamente e a volte confusamente, ma con fiducia nell’assistenza dello Spirito – di rifondarsi, per essere in armonia con le indicazioni del vangelo e della Chiesa e in sintonia con le richieste degli uomini di oggi. Una riforma necessaria per togliere la fuliggine che su di essa hanno inevitabilmente portato il trascorrere del tempo, le abitudini consolidate, la pigrizia di rimettersi in discussione.

I superiori maggiori pensano a nuove istituzioni – province, regioni, zone – per rilanciare il dinamismo della vita religiosa. Strutture certo utili e fondamentali, ma forse non si mette abbastanza l’accento sulla comunità. Ogni rifondazione e istituzionalizzazione (tra l’altro: attenzione a nuove soffocanti istituzioni-burocrazie!) rischia di essere vana se non tiene conto della cellula della vita consacrata che è la comunità. Una definizione che trova tutti d’accordo, ma che indica una realtà troppe volte addormentata, spesso soddisfatta ma più spesso rassegnata all’esistente.

È giunto il momento di ripensarla (al di là delle solite affermazioni di “vita fraterna”, di “comunione”, ecc. che restano senz’altro validissime) come presenza apostolica concreta in un dato territorio e come “presenza rivelatrice del carisma” dell’istituto in una Chiesa particolare (diocesi, decanato, zona, parrocchia).

E ripensarla maggiormente in relazione alle tendenze della società e – prima ancora, ma in modo inequivocabile – in rapporto alle acquisizioni della teologia ed ecclesiologia di oggi, nella consapevolezza che ogni rinnovamento dell’istituto e delle sue norme sarà inefficace se non sentito e non mediato dalle singole comunità. Occorre essere convinti che esse sono realtà da costruire e da ricostruire – sempre – e proprio per questo bisogna iniziare ad usare le vie e gli strumenti per farlo.

 

Le tendenze della cultura e della società contemporanea sono state sintetizzate da Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera del 12 aprile scorso: dare più spazio alla responsabilità dell’agire; uscire dall’indistinto; ridare slancio alle sedi intermedie per svilupparne tutto il dinamismo sociale; ricostruire i meccanismi di rappresentanza; ricercare nuove articolate identità collettive. Per concretizzare tali tendenze «occorre lavorare sulle comunità territoriali», nelle «sedi istituzionali intermedie».

Oggi si tende (ed è un obiettivo – è superfluo sottolinearlo – che non ha nulla da spartire con certo federalismo e separatismo) a ridurre il più possibile l’invadenza delle istituzioni statuali, che portano alla neutralizzazione della società, per costruire un rinnovato rapporto tra società civile e sfera pubblica. Lo stato democratico riconosce e promuove le autonomie locali, che entrano a fare parte dell’unitarietà e della indivisibilità dello Stato. La valorizzazione delle autonomie va ricercata attraverso strumenti (non gerarchici) di coordinamento e di cooperazione, in quella componente di sussidiarietà che fa uscire la società civile dalla tutela paternalistica e soffocante dell’apparato centralizzato statale.

Riconoscere le autonomie locali significa fare una chiara scelta comunitaria, mettersi al servizio dei cittadini che alle comunità territoriali appartengono, sentire le necessità locali in modo concreto e da vicino. Significa evidenziare la funzionalità delle istituzioni, fare appello e affidamento alla responsabilità dei cittadini, credere nella creatività delle istituzioni locali, affidare la risoluzione di molti problemi alla sensibilità di coloro che effettivamente li vivono, fare partecipi gli abitanti della vita politica e sociale e non trattarli come terminali passivi di soluzioni prese altrove e lontano.

Significa – in sintesi – dare la possibilità alla persona di realizzarsi pienamente attraverso la partecipazione alla vita pubblica, che coinvolge – nella sua accezione più vera – l’aspetto locale e quello nazionale.1

 

LA RIFLESSIONE

TEOLOGICA

 

È possibile derivare dalla cultura politico-sociale contemporanea una concezione della comunità religiosa in sintonia con le aspirazioni del nostro tempo, del quale anche il religioso è figlio? Crediamo di sì. Anche perché ad esse si aggiunge – anzi precorrendole e rafforzandole – la riflessione teologica ed ecclesiologica, soprattutto postconciliare.

Già nel 1999 il Servizio nazionale della CEI rilevava (in collaborazione con le Associazioni teologiche italiane) come la cultura si traduce (e non solo in Italia) nella concretezza delle varie articolazioni delle “sub-culture”, che non sono “sotto-culture”, ma le culture nella loro autonomia e organicità. Per compiere un discorso efficace di evangelizzazione – si notava, di conseguenza – occorre raggiungere queste “microculture” (là dove le persone pensano, vivono, progettano) e che sono ben differenti da un’astratta identità “nazionale”. Di qui l’accento posto sulle chiese locali, chiamate a ricevere e a rielaborare (non certo a tradire) i temi della fede nella propria cultura, con una progettualità concreta, definita, circoscritta.2

D’altra parte il Vaticano II aveva chiaramente affermato che le chiese locali sono in senso pieno Chiesa” (LG 23), recuperando la tradizione apostolica dimenticata da tempo, ma mai del tutto scomparsa. La Chiesa di Cristo è là dove si ascolta la parola di Dio, si riceve l’eucaristia insieme al vescovo, in unione con il sommo pontefice. Queste caratteristiche si realizzano sempre in un dato ambito locale, in una ben determinata cultura, in una definita situazione storica.

Il tema dell’inculturazione – così centrale nella preoccupazione apostolica della chiesa oggi – non riguarda solo la comunicazione del vangelo ai popoli di altre civiltà, ma si pone anche nei rapporti con le concrete “subculture” della nostra civiltà.

Soltanto rivalutando le chiese locali si può puntare alla “mobilitazione” dei credenti, resi effettivamente partecipi delle decisioni da prendere e degli itinerari da percorrere. In sintonia con l’orientamento politico-sociale sopra ricordato.3

Più in profondità e alla radice: l’incarnazione stessa di Cristo (l’evento che la Chiesa è chiamata a perpetuare nella storia) comporta ed esige l’entrare nelle realtà quotidiane degli uomini: soltanto così l’evento del passato diventa attuale e vero e raggiunge tutti con la concretezza delle sue proposte. Questa “concretezza” che l’incarnazione reclama è all’origine (remota, se si vuole, ma effettiva) della riscoperta della chiesa locale, senza dubbio uno dei punti qualificanti del Vaticano II.

Tale riscoperta ha come conseguenza logica – del resto indagata a fondo negli ultimi anni – di spostare il dinamismo missionario della Chiesa dal vertice alla base: in questa ottica (che non trascura certo il magistero della Chiesa universale) è la chiesa locale che diviene il soggetto responsabile dell’evangelizzazione, in quanto realtà che sta dentro in modo direi “fisico” e consapevole alla situazione del suo territorio.

Un territorio che non è soltanto un ambito geografico, ma prima di tutto un luogo culturale, antropologico, in quanto in esso vive e si realizza – di fatto – ogni essere umano ed ogni convivenza umana. Un luogo dove incarnare il vangelo di Cristo.

 

UNA COMUNITÀ

RESPONSABILE E CREATIVA

 

Come le chiese locali, anche le comunità locali di vita consacrata per essere effettivamente se stesse (vale a dire comunione di religiosi mandati ad una missione e quindi attivi) debbono diventare soggetto di evangelizzazione e creative e non restare oggetto: non debbono essere dipendenze o appendici riceventi e amorfe.

Soltanto se esse assumeranno il compito ( e questo riconosciuto dall’istituto) di mediare le indicazioni dei vari capitoli secondo le necessità individuate sul territorio in cui operano saranno in grado di incarnare la loro missione. Una comunità viva agisce autonomamente, all’interno di un quadro generale che è il progetto dell’istituto. Il che non significa indipendentemente, né confusamente e non certo individualmente, sia in rapporto alla congregazione sia all’interno della comunità stessa.

La spinta creatrice richiesta impone alla comunità ed ai singoli componenti una precisa assunzione di responsabilità verso il messaggio da trasmettere e verso l’ambiente culturale entro il quale muoversi. Inoltre domanda la condivisione della finalità dell’opera e il perseguire la “professionalità” adeguata alla missione in quel ambiente culturale.

Nell’assunzione piena della “località” e della responsabilità emergono veramente i carismi dei singoli religiosi, che invece troppo spesso sono diluiti nel generico e mortificati dall’inazione, dalla sottoazione e dalla sottovalutazione. L’autonomia e la responsabilità sono le radici della ricchezza, della diversità, della molteplicità dei modi e dei mezzi per raggiungere l’unico obiettivo: la predicazione del vangelo di Cristo, incarnato per la salvezza dell’umanità.

La comunità comprenderà se stessa soltanto se diverrà soggetto pensante e creante, in relazione con l’istituto, autonoma nelle sue azioni pastorali (in risposta alle domande del territorio), in dialogo con i suoi componenti per sviluppare un disegno comune condiviso. Non si chiedono – quindi – delle comunità che non assumono le direttive generali dell’istituto (sarebbero svincolate dal cammino della famiglia religiosa), ma neppure delle comunità che restano passive nell’attuazione di tali indicazioni (sarebbero non creative e incapaci di incarnarsi).

Riconoscere alla comunità di essere soggetto attivo significa – tra le altre cose – fare della comunità una realtà contemporanea sintonizzata sull’oggi culturale della società.

Occorre non dimenticare inoltre che l’unico corpo della congregazione si edifica nelle comunità locali e attraverso di esse e che il futuro degli istituti è il futuro delle comunità che ne rendono visibile e palpabile il carisma.

Infatti la congregazione esiste se è resa visibile nella sua spiritualità, nella sua natura, nella sua missione. Questo è possibile soltanto attraverso le comunità locali, che sono la realizzazione concreta dell’istituto in un dato territorio e in un preciso ambito di missione.

Il carisma è visto se questa comunità, composta da questi religiosi opera nel luogo della sua missione. La congregazione diventa visibile nelle e attraverso la comunità locali e da queste si risale all’identificazione del carisma della congregazione e alla valutazione della sua vivacità e attualità.

L’evangelizzazione – la ragione stessa dell’esistenza della chiesa e della vita consacrata – va comunicata (ci ribadisce in modo incessante il magistero) in modo significativo, che comporta il mettersi in ascolto dell’uomo di oggi e, per i religiosi, la specificità del loro carisma.

E il significato fondamentale e per eccellenza è dato dall’essere comunità che crea e realizza un progetto nel quale trovano posto concretezza, realismo, sintonia con l’ambiente culturale. Un progetto incarnato.

 

Ennio Bianchi

 

1 Cf. Galeone P., Società civile e autonomie locali, in Gatti R. –Ivaldi M. (ed.) Società civile democrazia, AVE, Roma, 2002, 189-207.

2 Cf. Militello C., Identità di popolo e identità culturale, in Servizio Nazionale della Cei, Identità nazionale e cultura religiosa, Ed. S. Paolo, 1999, 77-86.

3 Medard Kehl, Dove va la Chiesa?, Queriniana, Brescia, 1998, 93-95.

Per una visione complessiva del rapporto tra Chiesa universale e chiese locali cf. Silvestri G., La chiesa locale soggetto culturale, Dehoniane, Roma, 1998.